Cenerentola remix

TEATRO INDIA, Dal 22 novembre al 4 dicembre 2022 –

È una Cenerentola che strizza l’occhio a Pirandello e a Shakespeare quella della rilettura che ieri sera Fabio Cherstich, talento teatrale e operistico (classe 1984), ha mandato in scena in prima nazionale al Teatro India.

Fabio Cherstich

Nel prologo si avverte lo spettatore di come le parole possano essere pericolosamente utili, continuamente attraversate come sono da umani fraintendimenti. Sembra quasi di sentir parlare il Padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello: “abbiamo tutti dentro un mondo di cose…crediamo di intenderci ma non ci intendiamo mai !”.

La Cenerentola di Cherstich (una tenera e ostinata Annalisa Limardi) è un’adolescente di oggi, che sceglie di cedere la magia del personaggio disneyano per calarsi in un una realtà disincantata. Ma qui le succede di “fraintendere” le parole che sua madre le lascia in eredità, poco prima di morire. Questo fraintendimento dall’amletico sapore del “dormire … morire” renderà l’assenza materna molto ingombrante fino a condurla verso una pericolosa ossessione che rischierà di privarla del diritto a vivere, sognare, desiderare.

Impronterà le sue giornate a obbligarsi di ricordare sua madre ogni cinque minuti, credendo così di evitare che muoia davvero. La postura mentale peggiorerà dopo qualche mese allorché Cenerentola si accorgerà di aver saltato uno dei suoi ossessivi rituali di commemorazione. A quel punto per espiare la colpa decide di sottoporsi docilmente ad sogni forma di sopruso operato su di lei da parte della Matrigna (una sfaccettatissima Giulia Sucapane) e delle due sorellastre (shakespearianamente interpretate da uomini: due briosissimi Giuseppe Benvegna e Alessandro Pizzuto).

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

A ridestarla dalla sua vocazione allo sterile sacrificio, sarà una fata avanguardista (una super smart Evelina Rosselli) che Cherstich priva di immagine facendola palesare epifanicamente solo come “voce” insediata negli elettrodomestici, unici “interlocutori” quotidiani di Cenerentola. Sarà proprio questa voce fatata, dall’accento spiccatamente romanesco, a solleticare Cenerentola all’insolito piacere dell’attesa e al delizioso dolore del “friccichio de core”.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

E così accadrà: Cenerentola andrà al ballo ma sarà lei ad attirare le attenzioni del Principe, nel quale si rifletterà come in uno specchio. Lui è un adolescente timidissimo e impacciato che, come lei, vive un problematico rapporto materno. Sarà lui a scappare dal ballo per correre verso un improbabile appuntamento telefonico con una madre irraggiungibile. Vorrebbe tanto regalare a Cenerentola qualcosa ma non venendogli nulla in mente finirà per regalarle una sua scarpa. Lei apprezzerà molto l’insolito dono ma, ormai inserita in un progressivo processo di crescita e di emancipazione, si sentirà libera di non sposarlo ma di amarlo come amico.

Uno spettacolo deliziosamente profondo. Estroso e vero. Adatto ad un pubblico nuovo ed eterogeneo. Momento di condivisione culturale e forma di intrattenimento intelligente.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

Interessante l’uso dello spazio scenico; ancor più la gestione delle luci: quasi tutto avviene a vista, anche a sottolineare il bisogno tutto umano di “controllare” il naturale fluire delle cose. Tutti gli attori si calano con geniale disincanto in questa realtà scevra da “zuccherosa’” magia. Giocosamente raffinate sono le musiche del M° Pasquale Catalano. Efficace la scelta di far entrare nella rappresentazione il padre di Cenerentola (assente nella fiaba originale) che, quasi come sua figlia, diventa un servitore della casa. Ad interpretarlo è l’espressivo Julien Lambert.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

La sua presenza è anche un riferimento all’evaporazione dell’attuale figura del padre, in realtà invece custode dell’applicazione della “legge” che permette il generarsi di un salutare desiderio di crescita nel figlio. Perché Cenerentola soffre non solo del lutto della mamma ma anche quello dell’inesistenza di un riferimento paterno. Così come il Principe: il cui padre, il re, ha come unica preoccupazione quella di organizzare feste.

Merito di questo spettacolo è quello di saper veicolare con calviniana leggerezza temi fondamentali della vita ai quali l’arte, e quindi il teatro, ha la capacità di avvicinarci. Promuovendo “un incontro” capace di sovvertire il nostro rapporto abituale con la realtà.

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.