Se è vero che nulla l’uomo teme più dell’entrare in contatto con l’ignoto, vero è anche che l’ignoto è ciò che può eccitarlo maggiormente. Eterna è la dialettica tra Eros e Thanatos; tra mancanza e desiderio.
“Siamo ciò che ci manca”.
Siamo ciò che desideriamo.
Nadia Baldi, la regista dello spettacolo “Settimo senso”
Desiderio urgente del fertile sodalizio artistico tra l’inventiva della regista Nadia Baldi e l’autore Ruggero Cappuccio, noto per l’esaltazione del segno sonoro, è quello di far conoscere l’ “altra Moana Pozzi“, quella che è restata celata dietro ciò che ci siamo ostinati a voler vedere. Così come è loro desiderio far cadere il velo “sul non visto” del concetto di pornografia.
Ruggero Cappuccio, autore dello spettacolo “Settimo senso”
Un rimando iconografico apre lo spettacolo: “I fortunati casi dell’altalena” (1767) di Jean-Honoré Fragonard, pittore della sensualità del rococò francese. Anche la Moana della Baldi (una metamorfica Euridice Axen) come la donna sull’altalena ritratta nel quadro siede su “un trono” di tulle rosso. E dondolando sospinta dal suo pubblico ottusamente fedele, si lascia intrigare da un misterioso uomo, al quale ha maliziosamente lanciato la sua scarpina.
Jean-Honoré Fragonard, “I fortunati casi dell’altalena” – (1767)
Nella narrazione è una balaustra in ferro battuto a definire il limite generatore di mancanza (e quindi di desiderio) tra la donna e il misterioso sconosciuto della terrazza accanto. E, come nel quadro di Fragonard, lei si priva di una scarpa. Ma, a differenza del quadro, qui siamo in una splendida notte stellata, riprodotta da magiche architetture in pizzo nero: scene curate e sapientemente celate/rivelate dal disegno luci di Nadia Baldi.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Canta, Moana ma il suo canto ha un’anima dolente, quasi lamentosa, che ricorda il threnos (canto funebre) greco. Perché “la morte è un passaggio dal sonoro al muto”. E la morte di Moana Pozzi ? È stata forse una messa in scena? Di certo il suo corpo è stato “un distributore d’oblio sulla vita”, la quale è “una malattia mortale, trasmessa per via sessuale”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
No, il suo è stato “un gioco per il gioco”: lei ne fissa le regole ma senza nessun inganno. Senza violenza. Come accade nel gioco delle “6 cose da toccare”. Un incastro perfetto come quello tra “presa e spina”.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Euridice Axen, l’interprete in scena di Moana Pozzi, strega lo spettatore attraverso una così vasta gamma di espressività vocale, che lo spettacolo potrebbe funzionare anche a luci spente.
Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”
Leggi l’intervista a Euridice Axen su “Vanity Fair”
Negli accoglienti spazi del Teatro Marconi, ieri sera ci si è ritrovati per l’apertura della nuova stagione teatrale. Nel loro bistrot si è soliti colmare l’attesa dell’inizio dello spettacolo parlando di nuove e vecchie tendenze teatrali, fino a che non viene fatta sala e si scende in teatro.
In scena sei giovani attori volano con il ritmo e trascinano la platea con inesauribile energia.
Mettono in scena le assurde e strampalate vicende di una compagnia teatrale che durante l’allestimento del proprio spettacolo si trova ad assistere alla morte improvvisa del regista. Proprio lì, sulla scena. Ma in realtà il regista non li lascerà mai, restando tra loro in veste di fantasma-investigatore. E ne scoprirà delle belle !
Lo spettacolo è scritto (assieme a Mattia Marcucci) e diretto da Chiara Bonome, che è anche in scena come attrice.
Il loro è un recitare fatto di stop and go, di non-sense e di presenze che sono tali solo per gli spettatori (e non per gli attori). La tradizionale percezione dello spazio scenico lascia il passo quindi ad un interagire che non assomiglia a quello che avviene nella vita reale. Ne deriva uno spiazzamento esilarante, montato dentro un susseguirsi di situazioni cariche di ironia.
È un mozzico la vita: n’affacciata de finestra. La morte ? Un modo de pijà la vita. Na’ malìa. Una fascinazione. Eh sì, la morte ha il suo bel fascino: un misto e un alternarsi tra potere malefico e irresistibile seduzione.
“Er corvaccio e li morti” di Graziano Graziani è il testo da cui nasce l’omonimo spettacolo
E’ una sorta di esistenzialista romanesco Er corvaccio, ovvero il becchino del cimitero immaginato da Graziano Graziani. E che Lisa Ferlazzo Natoli, con arguzia, sceglie di affidare al polimorfismo (e quindi al fascino) di Lino Guanciale.
Lisa Ferlazzo Natoli – Lino Guanciale – Graziano Graziani
Lui entra in scena come “un flâneur de noantri”: mani in tasca e naso all’insù. “Spettinato”: lunga la barba, sciolta la cravatta. Bighellonando. Senza programmi. Vaga, più o meno oziosamente, per le vie del cimitero come fossero quelle di una città. Senza fretta. Tutto lo incuriosisce in questo microcosmo nero, dal fumoso fascino evanescente. Una città nella città.
E, da curioso e accogliente “osservatore urbano”, ha raccolto una miriade di osservazioni sociali, personali ed “estetiche” che, attraversando i sonetti di Graziano Graziani, Lino “Er corvaccio” ci offre. Alla ricerca di “quelle parole curative” per descrivere la morte, che nel tempo sono andate perse.
È un affresco di tipologie umane, il suo, alcune completamente scomparse. C’è l’arrotino, che lavorava “andando in bicicletta” ma che poi s’infilza proprio col coltello che sta lavorando; l’ombrellaio, “che se piove merda, l’ombrello non basta”; Er colletto bianco, che in vita moriva di monotonia e sta meglio ora che sta “sdrajato”; Er politico, che dice che “commannà è mejo che fotte” e la pissicologa, quella che quanno tu je dici che pensi de esse te stesso fino n’fonno, lei te dice che semo armeno in tre”. Perchè le città, incluse quelle dei morti, devono essere il luogo della condivisione: senza la condivisione non esiste la città. E il racconto delle “catastrofi esistenziali” dei morti possono essere accolte nella città dei vivi evitando sia lo scoramento che la rassegnazione. Perchè la “catastrofe” è immanente ad ogni nostra giornata. E noi ne siamo sedotti. Per natura.
Qui, in “Er corvaccio e li morti”, Lino Guanciale ci regala, con la preziosa complicità dei due ammalianti musicisti Gabriele Coen e Stefano Saletti, un brioso arcobaleno di colori vocali ed espressivi. Con prodigalità. Guidandoci dentro i sonetti di Graziano Graziani come lungo stradine di una città, pavimentate dal turpiloquio del romanesco (vocazione riconosciutagli anche dal celebre linguista Luca Serianni) ma soprattutto seducendoci al lusso della Poesia, che è quello di non avere un senso.
Perché alla fine la Vita è “un passar per buche: la figa, la fiasca e la morte”.
Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli.
“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.
Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,
Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti
di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.
Claudio Boccaccini
Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.
Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.
Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.
A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza.
Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.
I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).
Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.
Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.
E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.
Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.
Arriva con la pioggia: lei stessa si fa pioggia. Una melodia al pianoforte ne riproduce il ritmo e il peso. La vediamo scendere dietro una finestra illuminata e poi entrare in sala, catturata dal mistero di una tela bianca. La fissa, poi prende in mano il pennello. E, liberando le emozioni che la invadono, le traduce in canto: sarà la voce a guidare la mano, dal tratto davvero molto interessante.
Rosanna Fedele interpreta una Frida Kalho (i testi infuocati dello spettacolo sono tratti dal libro di Pino Cacucci “Viva la vida!“) quotidiana nella sua eccezionalità, vestita in tuta sportiva, a sottolineare ancor più che “Siamo tutte Frida”. Può capitare a chiunque di vivere un amore che è “un lento avvelenamento” e tardare ad allontanarsene, perché è insieme “arsura e pioggia”. E poi disprezzarsi per come ci si è lasciate martoriare.
Attraverso un uso ammaliantemente icastico della voce, che Rosanna Fedele modula in simbiotico accordo al corpo e allo sguardo, la sua Frida inizia a confidarci il primo incontro con la morte, efficacemente riprodotta dall’inventiva di Alessandro Baronio. Accetta di “danzare” con lei quel giorno dell’incidente in autobus: ne esce in brandelli e il suo corpo risulta “un rompicapo per chirurghi senza fretta”. Le dicono che non si sarebbe più alzata da quel letto. E invece lei riprende a camminare.
Ma non fu un miracolo: solo un diverso passo di danza con la Morte che, poco dopo, riprendendo lei a guidare la danza, le sottrae tutti e quattro i figli. Un dolore immenso, il più grande. Ora, rivivendolo, cerca di incanalarne la potenza dilaniante nel disegnarne i loro quattro ritratti. Immaginandoli, non avendoli mai conosciuti. Ma non è sufficiente: il dolore sfugge agli argini. E allora li canta (i testi delle canzoni sono di Rosanna Fedele, musicati da Paolo Bernardi).
Ritorna poi al suo Diego, al loro primo incontro mentre lui dipinge “eterni murales” e lei gli propone di visionare “senza inutili complimenti” i suoi dipinti. Ma qualcosa torna ad eccedere in Rosanna/Frida: un dolce e straziante ricordo la spinge a lasciare un segno dell’amore che la pervade sul murales di scena. Ma è inutile: è troppo invadente e lei non oppone più resistenza.
Si lega allora a lui, anche fisicamente grazie al guizzo registico di Andrés Rafael Zabala, e si fonde al mascherone di Diego Rivera, creato per l’occasione sempre da Alessandro Baronio. L’elefante e la colomba: così scrivono i giornali il giorno successivo al loro matrimonio. Ma lei non ha dubbi: è la sua personale rivoluzione. È la sua ossessione: “Diego nelle mie urine; nella punta della matita; nell’immaginazione; nella malattia…”. Un legame che “stringe” fino alla lacrime: “io ho avuto tutto, malgrado me”. Torna a rifugiarsi nel canto ma la sua è ora una preghiera, un’invocazione disperata: “ma che diritto ho io di volerti diverso!”. La stanchezza la invade: non sente più la forza di attaccarsi alla vita come una sanguisuga. Si scioglie. In pioggia.
Uno spettacolo incantevole in un luogo incantevole: per non dimenticare Frida Kahlo. Per non dimenticare le donne.
Lo spettacolo è fruibile anche sulla piattaforma a pagamento CHILI TV
I PROTAGONISTI
Rosanna Fedele
Una vita all’insegna dell’eclettismo. Disegnatrice, stilista, pittrice, cantante e attrice. Si dedica con successo al doppiaggio e alla recitazione. E’ protagonista di diversi cortometraggi e pubblicità e nel 2015 è protagonista del film “A Dark Rome” di A. R. Zabala che ottiene riconoscimenti e premi a livello internazionale (MFF di New York, Marbella International Film Festival per citarne alcuni). L’amore per la musica e il canto restano una costante sin dall’infanzia. Il trasporto, in gioventù, per i film “musicali” si tramuta in passione per il jazz. Nel 2010 si dedica alla realizzazione del suo primo album “What is it For?”, titolo del brano originale contenuto nel disco distribuito dalla Philology Records per la Revelation Series. Il desiderio di espressione personale si fa sempre più forte. “Sogni Diversi”, un album in uscita a dicembre 2015, in collaborazione con il Paolo Bernardi Quartet, è il risultato di questo percorso nel quale la cantautrice mette in musica i propri sentimenti, dove le sonorità jazz sono di sostegno alla complessità e alla bellezza della lingua italiana: un omaggio alle proprie radici, alla propria terra.
Il pianista Paolo Bernardi
Nato a Roma, ha compiuto studi musicali classici, diplomandosi in pianoforte presso il conservatorio “Respighi” di Latina; successivamente, ha affrontato lo studio della musica jazz sotto la guida di validi maestri, quali Cinzia Gizzi, Riccardo Biseo, Rita Marcotulli e della composizione con Luigi Verdi, Alfredo Santoloci e Javier Girotto. Si diploma in Musica Jazz e successivamente consegue la laurea di II livello in Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, sotto la guida del M. Paolo Damiani col massimo dei voti e la lode. Ha, all’attivo, numerose registrazioni pubblicate da DODICILUNE, PHILOLOGY, ISMA RECORDS,SINFONICA JAZZ–NUOVA CARISH,SIFARE,collana L’ESPRESSOREPUBBLICA con un progetto di Massimo Nunzi. Nel 2008 nasce il PAOLO BERNARDI QUARTET. Con tale formazione si esibisce in prestigiosi locali romani e in rassegne nazionali significative, ottenendo un consistente riscontro positivo di critica. Laureato, con lode, presso l’università “La Sapienza” di Roma in Lettere moderne con indirizzo musicale, è giornalista pubblicista freelance.
Lo scenografo Alessandro Baronio
Alessandro Baronio, artista romano, umanista, animalista, sognatore, emozionato, “viaggiatore di sogni deragliati”, Alessandro Baronio è stato scenografo teatrale e ha lavorato per Xfactor, per Elisa nel suo tour, per Marco Mengoni, Nina Zilli, Anna Oxa, Angela Finocchiaro solo per citarne alcuni. E’ designer, ceramista, fotografo, restauratore e si occupa, tra le altre cose, di laboratori didattici con materiali di recupero per ragazzi delle scuole. Attento alla forma, attento al valore artistico del progetto cerca di coniugare sempre qualità e sostenibilità.
Il regista Andrés Rafael Zabala
Andrés Rafael Zabala, nato in Argentina e cresciuto fra l’Austria e l’Italia, è laureato in Cinema e Tv e diplomato operatore di ripresa. Nella sua carriera ha curato la regia di spot pubblicitari, video aziendali, documentari,e reality show per Canale 5, RAI 2, Studio Universal, Tele+ e Sky. In qualità di filmmaker, ha all’attivo nove cortometraggi che si sono aggiudicati importanti riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio indipendente “A Dark Rome”, oltre ad essere stato selezionato in dieci festival nazionali e internazionali, ha vinto il premio “Best Thriller on 2015” al Macabre Faire Film Festival di New York. Andrés Rafael Zabala svolge da alcuni anni, parallelamente alla sua attività di regista, l’attività di docente di Regia e Cinematografia. Nel 2020 è uscito il suo libro “Registi disobbedienti – La cinematografia di ieri e di oggi oltre le regole”. (Edizioni Efesto – 2020). Dopo la “La prima notte” scritta e diretta da lui stesso, “Siamo tutte Frida” è la sua seconda regia teatrale. L’ultimo lavoro cinematografico “Malleus” sarà presentato a Febbraio 2023 al Festival di Londra.
Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?
È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.
Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?
Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?
Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).
Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.
Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.
Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.
Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.
Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”.
Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.
Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.
Pacebbene e Cirillo
Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.
Claudio Boccaccini
Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.
Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.
Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.
Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.
Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo.
Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)
Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.
“I Padri sono Paesi”: così si apre l’appassionato e appassionante monologo, scritto ed interpretato da Claudio Boccaccini, tratto da una storia vera, di cui la sua famiglia fu protagonista. Un teatro di narrazione il suo, dove più che mai risulta fondamentale la relazione con lo spettatore, che avviene in una comunione percettiva, diretta, viscerale. Dove sono la voce, il corpo, i gesti e i pensieri dell’attore Boccaccini ad essere i fecondi elementi scenografici del testo.
Nell’affermare che i “Padri sono Paesi”, si allude al fatto che i Padri sono la nostra “lingua”, la nostra identità. E qui, nello specifico, la “lingua” che Tarquinio Boccaccini trasmette a suo figlio Claudio è un alfabeto di gesti (“che valgono più delle parole”), dove la sacralità dell’amicizia ne costituisce il fondamento “grammaticale”.
Come quella di Salvo D’Acquisto: un’amicizia che sa sublimarsi fino alla scelta di offrire in dono la propria vita per salvare quella dei suoi ventidue amici. Un dono che non conosce l’amarezza della rinuncia, né la sottomissione del sacrificio ma quasi l’effervescenza di un inno alla vita, che sa andare oltre la legge di natura e oltre il mero senso del dovere. Un “rubare”, quasi, la propria morte per moltiplicare la propria vita attraverso quella di altre 22 persone.
Perché, come diceva Gilles Deleuze, “etica è essere all’altezza di ciò che ci accade”. E un modo per esprimerla, ieri come oggi, è ripensare fuori da ogni retorica il tema della “fratellanza”. Nessuno di noi può vivere senza “l’ossigeno” dell’altro e Salvo D’Acquisto intuisce, vedendo i suoi amici scavarsi ciascuno la propria fossa, che quello era il momento in cui (poter) rispondere al grido inerme dei suoi “fratelli”. E nel momento in cui dice “eccomi” accorda la sua libertà al suo senso di responsabilità.
Claudio Boccaccini nello scrivere il testo di questo monologo dimostra di saper stendere un affresco esistenziale (e non solo di un epoca, come potrebbe sembrare ad un primo sguardo), dove l’epica del quotidiano si mescola a quella dell’eccezionalità. Lui ne è anche il carismatico interprete, nonché regista di grande suggestione.
Oltre a quello dell’amicizia, altro tema affrontato dal testo e reso da un’ardente narrazione, è quello della forza dirompente della giovinezza, intesa non tanto come una fase della vita ma come la definizione della vita stessa. Una vita che dà corpo a “giuste eresie”, a giusti modi di dire no: passaggi esistenziali, riti di iniziazione, attraversamenti della “linea d’ombra” . Mi riferisco non solo al gesto del ventitreenne vice-brigadiere ma anche al “no” disegnato da Tarquinio sui mezzi agricoli del padre pronti per la parata e poi alla folle corsa in lambretta del ragazzo che, pur di essere prima possibile vicino alla madre in difficoltà, finisce per investire l’auto nuova della famiglia Boccaccini .
Nella narrazione passa tutta la forza spasmodica di questa fertile energia giovanile. E il risultato è che il pubblico ne resta calamitato. Al tema del tumulto della giovinezza, e quindi di una stagione dell’essere figli, l’autore Boccaccini lega il tema del valore di essere padri. Il padre “è la legge delle leggi”, colui che introduce il senso del limite: non tutto è possibile. Ma è solo se il padre introduce questa legge, che nel figlio può originarsi il tumulto della giovinezza. Questo modo sano di essere padre, oggi un po’ evaporato, permette a Salvo, a Tarquinio e al ragazzo della lambretta di superare ciascuno il proprio limite esplorando qualcosa di nuovo. Con responsabilità. Abitati dalla duplice tensione, tutta umana, di cercare appartenenza ma anche erranza. Salvo sa qual è il prezzo del voler donare la propria vita e decide che vale la pena di pagarlo; Tarquinio prende atto dell’ira del padre che lo allontana ma ciò non blocca la sua crescita personale, né quella professionale e anche il ragazzo della lambretta, dopo la folle corsa, scoprirà l’importanza di saper tollerare un’attesa.
Lo spettacolo, di una stupefacente potenza sociale e politica, affronta seppur implicitamente anche il tema della guerra. E ci mostra, con leggerezza calviniana, come ogni guerra nasca dal rifiuto di accettare l’idea di inevitabili perdite. Qui, nello specifico, è la morte accidentale di due tedeschi a far scattare l’allucinazione della possibilità di avere tutto; si spiega così la delirante idea di rastrellare e uccidere 22 innocenti italiani.
Per questo risulta importante capire, e lo spettacolo in questo è estremamente prezioso, “che le istituzioni sono commoventi: e gli uomini in altro che in esse non sanno riconoscersi. Sono esse che li rendono umilmente fratelli” (P. P. Pasolini).
Con questo spettacolo Claudio Boccaccini consegna al pubblico occasioni di trasformazione sociale e politica invitandolo, al di là dell’intrattenimento, verso una maggiore comprensione. Perché fare teatro e andare a teatro significa abbattere le nostre frontiere, trascendere i nostri limiti e quindi realizzare noi stessi.
E se è vero che per gli esseri umani così come per gli dei l’unica morte possibile è quella dell’oblio, allora è necessario continuare a ricordare.
Un lento e dilaniante gocciolio stanco accompagna il nostro prendere posto in sala. Un gocciolio di sangue, scopriremo più avanti. “Sangue” è una parola che ricorre costantemente in questo adattamento del regista Danilo Capezzani. “Sangue” che scorre e sangue che stagna e gocciola; “sangue” come casata, discendenza, famiglia; “sangue” come temperamento, indole; “sangue” come coraggio; “sangue” come vendetta: “non c’è balsamo se non il sangue”.
Capezzani sceglie di presentarci fin da subito un Riccardo II umanissimo nelle sue contraddizioni. Un re, mollemente disteso sul suo trono e che non appena tutto l’uditorio si è seduto, si gira su un fianco, verso noi del pubblico, per confidarci quanto “lunga e tortuosa” è la sua condizione di re, che “conosce più tormenti mortali di quelli che lo adorano”. Che proverebbe una qualche consolazione se solo riuscisse a trovare “un paragone” tra la sua condizione e il mondo.
È il cruccio che apre e chiude lo spettacolo; è il cruccio degli addii: di chi sta iniziando a seguire la Fine, la morte. La nostra più vecchia amica, quella che ci ha accompagnato per tutta la durata del nostro cammino. Unica vera certezza dell’essere umano. E in qualche maniera, volendo anche noi fare “un paragone”, è la stessa condizione “esistenziale” che ha dato origine alla composizione della struggente ballata “The Long And Winding Road” dei Beatles: unica presenza musicale dello spettacolo.
Cantata (o anche solo fischiettata) e accompagnata dal vivo dalla chitarra classica. Con sublime suggestione. Interessante è che anche John, Paul, George e Ringo siano riusciti a partorire questo loro capolavoro, nel loro “ultimo” periodo, trovandosi in pesante disaccordo fra loro, sia dal punto di vista artistico, che personale. E Riccardo II, come il cantante, indispettito dal dolore, si rivolge alla Fine, alla Morte, desideroso di capire perché, che senso ha, essere lasciato così: “inerme, senza sapere la via da seguire”. Senza trovare nessun aiuto, non solo in un vero amico ma neppure nelle lenti e nei prismi di un binocolo.
Questo interessante sguardo di Capezzani sulla figura di Riccardo II, umanissima proprio nel suo essere piena di contraddizioni, viene declinato anche scenograficamente attraverso l’idea di un regno simile ad un ring, al cui centro troneggia, di sbieco, un re dispotico ma anche insicuro, incline alla riflessione, all’introspezione. Un re, che non sa dove “mettere i piedi”: che abita il suo trono/letto a testa in giù, appoggiando i piedi sul guanciale, o che, nell’andare verso la guerra d’Irlanda, sale in piedi sopra divani. Un re giovane, quasi adolescenziale.
Un re solo: gli altri personaggi raramente entrano nel ring. Prevalentemente sfilano sui praticabili sopraelevati che lo circondano, quasi fossero sulle mura del palazzo. Ne emerge un senso di soffocamento, di oppressione, di accerchiamento, più che di potere. È un re che cerca, a volte implora, il conforto e il sostegno del pubblico. Consapevole che molti tra noi faranno come Pilato. Consapevole di aver perso potere sul suo popolo.
Un re che, disperato, sfonda il sipario e si appropria di un ultimo spazio. Vulnerabile. Un re, come un Cristo crocefisso e tradito dai suoi. Un re che si ostina a trattenere una corona, in bilico tra un’aureola e una fascetta per capelli. Il sipario è dietro. E cela il mondo degli intrighi. Un mondo nuovo che sta prendendo forma, come un ologramma. E che cerca una nuova figura di re.
J. Coghlan, Riccardo II nel castello di Pomfret
Un mondo che emerge dalla nebbia, che una volta dipanata, lascerà nudo Riccardo II. E lui, a quel punto cercherà di avvolgersi nel sipario: ultima cortina tra vecchio e nuovo mondo. A volte si ha la sensazione di una regia cinematografica, ricca di primi piani, mezzi campi (anche in soggettiva) e campi lunghi.
Gli attori dimostrano un’ottima gestione del corpo e della voce. In alcuni magici momenti sembra che intorno a Riccardo II ruoti un malefico carillon. L’uso delle luci rende con molta efficacia la diversa densità delle atmosfere che permeano la zona antistante e quella retrostante il sipario: il mondo dell’introiezione, del racconto da consegnare ad un uditorio da mandare a casa in lacrime (complice anche un poetico testamento rap) e quello delle cospirazioni, delle ambiguità, dell’avanzare del nuovo, della fine di un ciclo.
Tutto lo spettacolo brilla di una cura vertiginosa.
“Audace è chi riesce a fare qualcosa del proprio buio”. Senza lasciarsene schiacciare.
Dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo sette anni, Elias Canetti (premio Nobel per la Letteratura nel 1981) dedica tutta la sua vita a “fare qualcosa del proprio buio”: il trauma della morte. Imprevista. Inattesa e che nel suo essere inimmaginabile, ci coglie impreparati. Indifesi. E ci angoscia. In questo testo Canetti prova a immaginare, invece, un’ipotetica società “diversa”, dove lo stato di impotenza umana di fronte alla morte viene rovesciato grazie ad un espediente: si nasce sapendo già la data della propria morte. La propria data “di scadenza”. Ma sarà davvero preferibile?
Claudio Boccaccini, regista di questo adattamento, all’età di sette anni, scopre, come racconta nell’emozionante monologo “La foto del carabiniere”, cosa significa vivere la morte. Nascere dalla morte. Intorno ai sette anni, infatti, viene a conoscenza del fatto che la sua nascita è stata possibile anche perché qualcuno (il vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’acquisto) sentì l’urgenza di fare qualcosa del “buio altrui”, quello dei ventidue civili ingiustamente rastrellati per essere condannati a morte dalle truppe naziste, nel corso della Seconda guerra Mondiale. Tra i ventidue civili, Tarquinio, il padre di Boccaccini. Il ventitreenne Salvo D’Acquisto scelse allora di “tramontare”, di anticipare la “scadenza” della propria vita, di stabilire lui (forse) una “scadenza”, offrendosi alla morte. Forte della consapevolezza di lasciare un prezioso testimone, regalando inebriante vita non solo ai suoi amici ma anche ai loro figli. In atto e in potenza: già nati o ancora solo desiderati.
Sarà forse per un simile destino di prossimità alla morte che, in questo adattamento del testo di Canetti e nella resa registica dell’intero spettacolo, Claudio Boccaccini rivela una speciale sensibilità nel lavorare sul binomio vita-morte e sull’angoscia ad esso collegata.
Un orologio senza lancette abita il fondale, quasi stampato su uno stropicciato lenzuolo di raso nero che ricopre un letto (per eccellenza luogo di nascita-vita-morte) posizionato verticalmente. In alcuni momenti chiave dello spettacolo, le lancette mancanti del quadrante dell’orologio vengono rese, con geniale naturalezza, da posizioni assunte dai personaggi. Apparenti “padroni” di questo tempo distopico. Loro stessi “lancette” del nuovo tempo.
Ma nonostante ciò, anche da questa umanità “semplificata” emergono insoddisfazioni e nuove paure, rese da un disegno luci spietatamente avvincente e da un’espressività struggentemente ambigua degli interpreti, in bilico tra l’orgoglio di vivere nel momento di “massimo progresso” della storia e l’inspiegabile fascino per l’inquietante, ma vibrante, vita di chi li aveva preceduti.
Nello specifico, il disegno luci sa rendere l’insinuarsi della luce che si fa strada all’interno delle crepe che attraversano l’angoscia. E al contempo sa come rendere l’emergere delle ombre da un’apparente quiete rassicurante: sintomo dell’insistenza della vita, che non si accontenta di “programmi”, “di scadenze” e che scopre di volersi nutrire ancora di caos vitale.
La densa espressività degli interpreti, poi, sa non escludere lampi di vertiginosa audacia dentro quella paura, che solo apparentemente cerca la quiete. Un’espressività che riesce ad esprimersi anche nonostante le maschere, che in alcuni momenti dello spettacolo gli interpreti indossano e che danno vita ad efficaci giochi di specchi.
Perché gli uomini, forse, sono fatti per continui inizi, per nuovi orizzonti tutti da scoprire. E proprio per questo, ricchi di fertile eccitazione. Perché nella vita si muore non una volta ma continuamente. E altrettanto continuamente si nasce. E forse la spinta per continuare ad iniziare ci viene proprio dal sapere che prossima ed imprevista arriverà una nuova morte.
Lo spettacolo si avvale dell’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.
La musica originale del coro, che accompagna lo splendido epilogo dello spettacolo, è di Alessio Pinto.