Ascolta come mi batte forte il tuo cuore

TEATRO VITTORIA, 27 Marzo 2023 –

In un effervescente Teatro Vittoria, si è tenuta ieri la serata inaugurale dell’anno dedicato a Wisława Szymborska (1923 -2012), in occasione del centenario dalla sua nascita. Ad aprire la serata la presentazione del progetto, nato due anni fa da un’idea di Andrea Ceccherelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università di Bologna) e di Luigi Marinelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma), da parte del regista Sergio Maifredi, curatore del progetto e dello spettacolo. Uomini, loro, tutti legati da grande amicizia a Pietro Marchesani, il traduttore per l’Italia delle opere di Wisława Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996.

Wisława Szymborska, poetessa Premio Nobel per la Letteratura nel 1996

Ospiti d’onore della serata, inoltre, il segretario personale della Szymborska Michał Rusinek (di cui ora gestisce la Fondazione) e la Direttrice dell’Istituto Polacco di Roma Adrianna Siennecka. L’evento inaugurale della serata rientra, infatti, nelle celebrazioni ufficiali indette dal Senato della Repubblica di Polonia.

Ultimate le presentazioni ufficiali, il calare delle luci in platea introduce il pubblico in sala all’immersione in un clima diverso: più intimo. A raggiungere il pianoforte a coda sul palco, è il pianista Michele Sganga, che per l’occasione ha composto una raccolta di brani dedicata all’energia vitale di Wisława Szymborska.

Michele Sganga, pianista dello spettacolo “Senti come mi batte forte il tuo cuore”

Un’opera variegata ma unitaria la sua, leggera e complessa, in cui movimento danzante e stasi contemplativa si rincorrono senza mai raggiungersi, in quel circolo vitale che è la danza stessa del reale. Due linee guida che il musicista, spinto da quel senso tutto szymborskiano di curiosa apertura al paradosso, segue e reinterpreta in modi diversi.

Sergio Maifredi, regista dello spettacolo “Senti come mi batte forte il tuo cuore”

La raffinata regia di Sergio Maifredi sceglie che prima che il maestro Sganga posi le sue mani sui tasti del pianoforte, entri in scena la commossa sensibilità dell’interprete Andrea Nicolini, con una rosa rossa, dal lungo gambo: omaggio e presenza stessa della poetessa. Con autentica sacralità, Nicolini la posa a terra: al centro della ribalta. “Che cosa penserebbe la Szymborska di questa nostra incontenibile gioia di ricordarla ?” – si chiede, traducendo ad alta voce i nostri pensieri. Magari direbbe, con quel sorriso reso unico dalla sua cordiale e brusca ironia, che “per caso” così tanti amici e sconosciuti si sono organizzati e dati appuntamento al Teatro Vittoria. E “cosa farà ora? Firmerà autografi, anche lì dove si trova, o si godrà una sigaretta ascoltando la sua adorata Ella Fitzgerald ?”.

Andrea Nicolini

A suggellamento di questo rituale oramai officiato, il pianista Michele Sganga trova quelle note che, sprigionandosi nell’aria, traducono e danno una qualche risposta alle nostre domande.

Ora la voce della Szymborska può “trovare scultura” attraverso la mirabile emissione vocale di Maddalena Crippa. Una lettura interpretativa, come l’avrebbe desiderata Lei, la nostra poetessa: scevra da toni solenni. Fluida, come pensata.

Maddalena Crippa

La regia di Maifredi prevede acutamente che anche Andrea Nicolini si sieda, lì sul palco, bagnato da una luce che rende sacro il suo ascolto. Successivamente si alternerà a Maddalena Crippa nella lettura, regalando un colore “a tutto tondo” al carteggio intercorso tra la Szymborska e il suo amato Kornel Filipowicz.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Nella magia di un’incantevole serata della primavera romana, è andata in scena, nel “tempio” del Teatro Vittoria, la rievocazione di quel verso libero, tipico di Wiesława Szymborską. Così complesso eppure percepito in maniera così sorprendentemente semplice. Fruibile con agio da tutti: solo la genialità della poetessa premio Nobel è riuscita a cesellarlo. Come una miniaturista.

Wiesława Szymborską, da giovane

Perché dietro quell’arguta e succinta scelta delle parole si cela una profonda introspezione intellettuale. Una lirica filosofica la sua, dove si apprezza la bellezza della certezza ma di più quella dell’incertezza. Perché il destino, fino a che non è pronto a manifestarsi, “si diverte a giocare” con gli uomini. E allora la sua poesia è la meravigliosa e incantata espressione di un “non so”, al quale però ci si può aggrappare “come alla salvezza di un corrimano”.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Perché, sebbene la parola “tutto” sia “solo un brandello di bufera”, il savoir-vivre cosmico esige da noi “un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal e una partecipazione stupita a questo gioco, con regole ignote”.

Wiesława Szymborską

Costellazioni

TEATRO BASILICA, dal 24 Gennaio al 5 Febbraio 2023 –

Un sipario di buio permette l’epifania di due esseri viventi: un uomo e una donna. Complice la luce: generatrice di architetture e paesaggi luminosi (le scene sono di Nicolas Bovey). In principio era una moltitudine di proiettori spot (alle luci Paolo Casati) che iniziano col dare forma a possibili colonne di un tempietto greco, dallo stile non identificabile in quanto lasciato al caos. Perché solo dal caos possono generarsi autentici “incontri”

Pietro Micci e Elena Lietti in una scena dello spettacolo “Costellazioni” di Raphael Tobia Vogel

Ci siamo mai soffermati a considerare quante diverse intenzioni possono avere le nostre parole? E, di conseguenza, quante reazioni diverse possono solleticare nell’Altro ? Nella fisica qualcosa di simile trova una forma nella “Teoria delle stringhe”.

Elena Lietti e Pietro Micci in una scena dello spettacolo “Costellazioni” di Raphael Tobia Vogel

E ancora: in quanti modi si può attrarre l’attenzione di qualcuno che ci interessa? In quanti modi si può essere “artefici” di “un incontro” ? Elena e Pietro, i due protagonisti di questo spettacolo, ce ne mostrano svariati attraversando l’interessante testo del drammaturgo inglese Nick Payne, che coniuga la teoria del caos (in cui è immerso il tempo) ai sentimenti . Tutte le varianti però gravitano attorno ad un mistero (e quindi di nuovo immerse nel caos): “dicono che nei gomiti sia nascosta l’origine dell’immortalità e riuscendo a leccarseli si diventa immortali”. Cosa c’è di più efficace di un enigma così seducentemente magico per far cadere in noi ogni barriera, ogni sovrastruttura, provocandoci quel tipo di risata complice che permette di arrivare alle presentazioni?

Pietro Micci e Elena Lietti in una scena dello spettacolo “Costellazioni” di Raphael Tobia Vogel

Elena, lei la più propositiva, si occupa di cosmologia. Lui, Pietro, più riluttante, è un apicoltore. Sembrano apparentemente interessi lontanissimi ma, a ben guardare, i due si occupano della stessa cosa: come la cosmologia studia l’origine e l’evolversi dell’universo, anche l’apicoltura in qualche modo lo fa. Nel “suo microcosmo” anche Pietro si interessa alla capacità genitrice (impollinatrice) delle api, che si attivano in primavera e in inverno si ritirano momentaneamente, dando vita a una “cosmologia terrestre”.

Pietro Micci e Elena Lietti in una scena dello spettacolo “Costellazioni” di Raphael Tobia Vogel

Lo spettacolo prosegue analizzando con acume giocoso in quante situazioni della nostra vita si verifica questo pluralismo di intendere e di volere. Di come anche noi diamo origine ad una “cosmologia umana”. La cui spiegazione non può essere lineare.

Pietro Micci e Elena Lietti in una scena dello spettacolo “Costellazioni” di Raphael Tobia Vogel

Merito dello spettacolo, e quindi della regia di Raphael Tobia Vogel, è quello di rendere con la massima concretezza la bellezza, a volte tremendamente normale, dei fenomeni più astratti che sono così parte di noi. E che come tali vanno accolti: ce lo ricordava già Dante nel ritenere che l’intelletto si rincantuccia nella verità come una bestiolina nella tana ( Paradiso IV). E così non poteva trattenersi dall’urgenza d’inventare nuovi verbi. Ricordate “inluiarsi” ? E “accarnare” ?

Raphael Tobia Vogel, il regista dello spettacolo “Costellazioni”

Un gioco stupefacente quello che ci invita a prendere sul serio il regista. Un gioco di grande fascino: una drammaturgia aperta. Infinita. Come le possibilità del Caso.

Intensa e seducente l’interpretazione dei due attori, Pietro Micci e Elena Lietti – vincitrice del Premio Nazionale Franco Enriquez 2022 come miglior attrice per questo spettacolo – chiamati a confrontarsi con le molteplici versioni dei loro personaggi. Attraversando la commedia fino al dramma. Repentinamente. Com’è nella vita. Com’è nel cosmo. Siamo come costellazioni: aggregati di stelle che danno vita a figure immaginarie, alle quali gli astronomi danno nomi di uomini, di animali…

Elena Lietti e Pietro Micci in un momento degli interminabili applausi

Settimo senso – Moana Pozzi

TEATRO PARIOLI, dal 19 al 22 Gennaio 2023 –

Se è vero che nulla l’uomo teme più dell’entrare in contatto con l’ignoto, vero è anche che l’ignoto è ciò che può eccitarlo maggiormente. Eterna è la dialettica tra Eros e Thanatos; tra mancanza e desiderio.

“Siamo ciò che ci manca”.

Siamo ciò che desideriamo. 

Nadia Baldi, la regista dello spettacolo “Settimo senso”

Desiderio urgente del fertile sodalizio artistico tra l’inventiva della regista Nadia Baldi e l’autore Ruggero Cappuccio, noto per l’esaltazione del segno sonoro, è quello di far conoscere l’ “altra Moana Pozzi“, quella che è restata celata dietro ciò che ci siamo ostinati a voler vedere. Così come è loro desiderio far cadere il velo “sul non visto” del concetto di pornografia.

Ruggero Cappuccio, autore dello spettacolo “Settimo senso”

Un rimando iconografico apre lo spettacolo: “I fortunati casi dell’altalena” (1767) di Jean-Honoré Fragonard, pittore della sensualità del rococò francese. Anche la Moana della Baldi (una metamorfica Euridice Axen) come la donna sull’altalena ritratta nel quadro siede su “un trono” di tulle rosso. E dondolando sospinta dal suo pubblico ottusamente fedele, si lascia intrigare da un misterioso uomo, al quale ha maliziosamente lanciato la sua scarpina.

Jean-Honoré Fragonard, “I fortunati casi dell’altalena” – (1767)

Nella narrazione è una balaustra in ferro battuto a definire il limite generatore di mancanza (e quindi di desiderio) tra la donna e il misterioso sconosciuto della terrazza accanto. E, come nel quadro di Fragonard, lei si priva di una scarpa. Ma, a differenza del quadro, qui siamo in una splendida notte stellata, riprodotta da magiche architetture in pizzo nero: scene curate e sapientemente celate/rivelate dal disegno luci di Nadia Baldi.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

Canta, Moana ma il suo canto ha un’anima dolente, quasi lamentosa, che ricorda il threnos (canto funebre) greco. Perché “la morte è un passaggio dal sonoro al muto”. E la morte di Moana Pozzi ? È stata forse una messa in scena? Di certo il suo corpo è stato “un distributore d’oblio sulla vita”, la quale è “una malattia mortale, trasmessa per via sessuale”.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

No, il suo è stato “un gioco per il gioco”: lei ne fissa le regole ma senza nessun inganno. Senza violenza. Come accade nel gioco delle “6 cose da toccare”. Un incastro perfetto come quello tra “presa e spina”. 

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

Euridice Axen, l’interprete in scena di Moana Pozzi, strega lo spettatore attraverso una così vasta gamma di espressività vocale, che lo spettacolo potrebbe funzionare anche a luci spente.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”


Leggi l’intervista a Euridice Axen su “Vanity Fair”


Storie di Natale

TEATRO ARGENTINA, dal 14 dicembre 2022 al 6 Gennaio 2023


Se è rimasto ancora qualcuno

che questo spettacolo non l’ha veduto

tutto non sarà perduto 

se domani (o doman l’altro) al Teatro Argentina sarà venuto !!!


È un meraviglioso Elogio dell’Immaginazione lo spettacolo del fantasmagorico Roberto Gandini, regista nonché presentatore di questa strabiliante performance. Per accendere le fiamme della fantasia, quasi come un re, un Enrico V shakespeariano, attraverso un fulgido prologo, invita i bambini a sciogliere le briglie della fantasia.

Roberto Gandini, il regista di “Storie di Natale”

Con la sua particolare maniera, sa solleticarli e insieme incantarli. Effetto non diverso sortisce sugli adulti, numerosissimi nella Sala Squarzina, che gareggiano con e forse più dei bambini per intervenire.

Fabio Piperno e Francesca Astrei in una scena di “Storie di Natale”

Una volta liberata e dato sfogo alla fantasia, Roberto Gandini lascia la platea nelle mani creative dei suoi fidi attori: alcuni sono volti ormai noti del Laboratorio Piero Gabrielli come Fabio Piperno e Danilo Turnaturi; altri sono professionisti come Francesca Astrei, Maria Teresa Campus e Gabriele Ortenzi.

Gabriele Ortenzi, Maria Teresa Campus e Francesca Astrei in una scena di “Storie di Natale”

E dopo aver allenato la capacità a creare ponti (tipica della fantasia) con “prefissi fantastici” e invenzioni varie alla Gianni Rodani, si è ora pronti e predisposti all’ascolto di racconti e di storie con più finali. Senza dimenticare la magia delle canzoni, accompagnate dal vivo dalle tastiere di Flavio Cangialosi.

Francesca Astrei con Danilo Turnaturi in una scena di “Storie di Natale”

Perché il fuoco che alimenta l’ascolto sa mettere pace, quando ” i perché ” degli altri vengono ascoltati e rispettati. Solo così “sul cipresso possono posarsi fiori di pesco” . E a teatro questo si fa: si festeggia capodanno tutto l’anno, perché con la fantasia si crea magia. Tanto che per poter fare il re, “basta saper fare yeah! “. 

Il regista Roberto Gandini e l’Albero di Natale di Paolo Ferrari, realizzato con 2500 bottiglie riciclate

Il male dei ricci

TEATRO ARGENTINA, 10 Settembre 2022 –

Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.

Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.   

Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli”  per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.

L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il  rimpianto di Pasolini si è sempre  rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.

Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena. 

Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.

E “allumando” tutta la scena.

La caduta di Troia

TEATRO INDIA, 27 Luglio 2022 –

La caduta di Troia – dal libro II dell’Eneide

Interpretazione e adattamento Massimo Popolizio

– musiche di STEFANO SALETTI eseguite in scena da:

BARBARA ERAMO voce e percussioni

– STEFANO SALETTI oud, bouzouki, bodhran, voce – PEJMAN TADAYON kemence, ney, daf –

Canti in ebraico, ladino, aramaico, sabir

-Produzione Compagnia Orsini

Come una sinfonia: armonia di elementi, fusione di suoni !

È questa l’impressione che si può ricevere assistendo alla rappresentazione dello spettacolo di Massimo Popolizio “La caduta di Troia”, dove un’affascinante orchestra di tre elementi si suggella alla voce dell’Attore, crogiuolo di sonorità.

Come l’affresco di RaffaelloL’incendio di Borgo” (del 1514, situato nella Stanza dell’incendio di borgo, una delle Stanze Vaticane) così l’orchestrazione dello spettacolo trasforma il testo in un palco dove si proiettano corpi, gesti, sguardi, colori. Ma soprattutto è l’occasione in cui trovano rivelazione quelle visioni “sonore” custodite dalle parole, dai ritmi dell’esametro e dai necessari silenzi.

Nel raggiungere tali esiti, risulta essenziale il lavoro d’ensamble, musicale e canoro, cucito con artisti di grande sensibilità, quali Barbara Eramo, Stefano Saletti, Pejman Tadayon. È loro il contrappunto di paesaggi sonori, antichi e arcani, creato attraverso strumenti a fiato, a corda, membranofoni (kemence, daf, ney, fra gli altri) e cantando in lingue come l’ebraico, l’aramaico, il ladino e il sabir.

Una sinfonia che sa far rivivere in maniera lacerante il dissidio, tutto umano nonché insito nell’etimologia stessa della parola “inganno”, tra coloro che, oramai stanchi, si sono lasciati vincere da illusorie visioni favorevoli (sottolineate dall’insinuarsi di incantevoli sonorità flautate, rafforzate dall’arpeggio pizzicato di corde e poi sublimate dalle note suadenti di un canto da sirena)

e coloro che invece riuscirono a restare in contatto con il proprio istinto e quindi con la capacità di annusare e riconoscere pericolose rassicurazioni (annunciate dallo strisciare di subdoli sonagli, da menzogneri colpi vuoti, oppure da percussioni lente e poi sempre più concitate). 

Questo trionfo di magnifiche suggestioni è costruito intorno ad uno scottante tema d’informazione, purtroppo ancor oggi attualissimo: quello dell’assurdità della guerra e delle conseguenti migrazioni.

Alla corte di Didone, Enea narra, descrivendola con “indicibile dolore“, quella notte di violenza e di orrore, che si origina dall’inganno del cavallo di legno. Proprio quello con cui i Greci espugnarono, dopo dieci anni di assedio, la città di Troia. Così si apre il secondo libro dell’Eneide, considerato un capolavoro assoluto per la sua struttura e per la sua forza tragica. È l’inizio di un lungo cammino, che permetterà sì, alla fine, di trovare fortuna altrove, ma dove Enea vive la violenza della guerra, la fuga per mare, la ricerca di una nuova terra. Quella stessa disperazione di milioni di persone che anche oggi hanno iniziato il loro lungo viaggio per la sopravvivenza.

Dante metterà coloro che fanno uso di inganni, nel ghiaccio dell’ultimo cerchio dell’Inferno: l’inganno “vive di carne umana” e blinda il cuore dell’uomo. 

E la partitura narrativa nonché “sinfonica” di questo spettacolo è tutta costruita proprio su questa ambiguità costituzionale all’inganno che, anche etimologicamente, racchiude in sé, quasi paradossalmente, il significato di “truffa” e insieme quello di “gioco”.

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.

Sani !

TEATRO QUIRINO, Dal 5 al 10 Aprile 2022 –

Uno spettacolo costruito sull’accordo tra parola e musica, per rivedere, rifondare e quindi celebrare i momenti di crisi che costellano la nostra esistenza. Crisi collettive, come quelle dell’emergenza climatica e della transizione ecologica ma anche personali, autobiografiche. Da affrontare con coraggio e fantasia, per riuscire ad apprezzare “il nuovo” senza bloccarsi ad aspettare che ritorni quello che era ma che non sarà più.

Quell’atteggiamento cantato da Sergio Endrigo ne “Il dolce paese“: brano che apre e chiude lo spettacolo. È il “beve un bicchiere e tira a campà, per vivere in fretta e scordare al più presto gli affanni e i problemi di tutte le ore. Tanto c’è il sole e c’è il mare blu” contro il “non lo so come si fa, ma voglio provarci” degli artisti. È la scelta di salutare con la parola “sani” anziché con la parola “ciao”. Con la prima si esprime la voglia di “gettare ponti”; la seconda allude invece al rendersi “servo”, “schiavo” dell’altro. Uno spettacolo che ci invita ad accogliere, ad aiutare, ad ospitare. Perché la “libertà” e l’ “altro” si danno in una sincronia inaggirabile. 

Uno spettacolo dove Marco Paolini sceglie di far circolare storie, idee, esperienze. Eccentricamente. Perché il teatro ha il compito di aiutare a far scattare la scintilla nella mente e nel cuore degli spettatori, che a loro volta possono diventare attori sulla scena della vita.

La presenza scenica di Paolini trasmette molto efficacemente, attraverso la voce, i gesti e le parole, la necessità di un cambiamento. Perché cambiamento significa speranza.

Lorenzo Monghuzzi, che accompagna ed enfatizza la narrazione di Paolini con la complicità dell’armonica a bocca e della chitarra classica, sa come graffiare, solleticare o rendere balsamo i concetti, per tradurceli in emozione.

Dietro i due cantori, una cattedrale di carta, dove i vuoti dominano sui pieni. Perché così sono i “ponti”, quei sani collegamenti cioè che sanno di dover essere pronti a trovare sempre nuovi equilibri. Come sembrano ricordarci le carte da gioco ancora appoggiate e in attesa di “entrare in gioco”. Disponibili, accoglienti, generose: pronte e desiderose di aiutare.

Leggi l’intervista Marco Paolini su Il Corriere della sera