Uscita d’emergenza

MARCONI TEATRO FESTIVAL, 30-31 Luglio 2022 –

Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.

Pacebbene e Cirillo

Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.

Claudio Boccaccini

Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.

Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.

Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.

Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.

Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo. 

Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)

Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.

Manlio Santanelli

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.