Diario licenzioso di una cameriera

TEATROSOPHIA, 11 – 13 novembre 2022 –

E’ in una stazione, luogo dove s’incontrano vite (e metafora della vita che, come un treno, sfreccia tra paure, sogni e desideri) che noi incontriamo Célestine (un’ammaliante e profonda Giovanna Lombardi).

Lei è (apparentemente) l’unica protagonista del “Diario licenzioso di una cameriera”: emozionante adattamento del regista Gianni De Feo della pièce del rinomato drammaturgo Mario Moretti, che a sua volta adattò dal testo originale di Octave Mirbeau “Journal d’une femme de chambre“. 

Seduta, ma cangiante come i colori dei cieli dolci e piovosi della Normandia, Célestine aspetta di arrivare alla sua nuova destinazione lavorativa, al suo nuovo destino. È di una bellezza austera e sensuale: sembra uscita da un manifesto di Toulouse Lautrec (i costumi sono di Roberto Rinaldi).

Henri de Toulouse Lautrec, Divan Japonais – 1893-

Quando inizia a rivolgerci la parola siamo invasi dalla sua malizia. Ci arriva dalla sua voce golosa; dal suo corpo che si offre e si cela; dalla sua bocca così morbida e umida; dal suo tatto così avido di superfici da esporare.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

E dai suoi gesti così in simbiosi con la musica. Ma sono i suoi occhi a stregarti e a portarti via con lei. Dovunque il suo capriccio decida di andare. Occhi che proiettano paure, eccitazioni, gioie. Occhi che sanno parlare anche in quei silenzi così potentemente densi. Nella malìa della sua narrazione, Célestine denuncia l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro, appartenenti a quella borghesia che ostenta “case linde e pinte dietro facce disgustose”.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Lei presta servizio come cameriera e si descrive in una maniera che potrebbe farla risultare un’opportunista. Lo è. Anche. Ma non solo. Il suo non è un mero scambio di servizi. Lei “sa guardare”. Non solo con gli occhi ma anche con la mente. E con il cuore.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Ha la capacità di visualizzare anticipando gli eventi che la coinvolgono e poi la prontezza di sincronizzarvisi. Per questo quando ci parla degli uomini e delle donne che ha incontrato, lei “scatta” veri e propri “ritratti” umani. Non si accontenta di lavorare per vivere. Vuole “sentire”, piuttosto, cosa significa vivere. In quanti modi si può vivere. Quanto può essere seducentemente contraddittoria la vita.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Come può accadere di essere attratti dalla violenza che si mischia alla protezione e dalla malattia che è anche fonte zampillante di vita?

Eppure accade, se non ci si ferma sulla soglia delle ipocrite classificazioni borghesi. Perché se si ha davvero fame di vita, non si può non riconoscere che il bene non si dà mai disgiunto nettamente dal male. Giudicare non ha più senso, allora. E non è più vero, come aveva dichiarato inizialmente, che lei sia impenetrabile: che nulla la meravigli. Lei sa di essere “una donna che fa sangue”, che ha bisogno di sedurre e di essere sedotta. Sa che la sua luce è data dalle sue ombre e non teme di rivelarle, quando anche l’altro le fa dono di ciò che non ha.

Questo adattamento del “Diario licenzioso di una cameriera” di Gianni De Feo è uno spettacolo magnetico: un inaspettato viaggio emozionale . Merito di una regia curatissima, introspettiva e raffinatamente sfacciata. Le scene (di Roberto Rinaldi) sono semplici ma efficaci pennellate di ottimo gusto e il disegno luci, unito alla complicità delle scelte musicali, fonte diegetica: alcuni momenti sono costruiti su immagini scritte con la luce.

Er corvaccio e li morti

TEATRO VASCELLO, 31 Ottobre 2022 –

È un mozzico la vita: n’affacciata de finestra. La morte ? Un modo de pijà la vita. Na’ malìa. Una fascinazione. Eh sì, la morte ha il suo bel fascino: un misto e un alternarsi tra potere malefico e irresistibile seduzione.

Er corvaccio e li morti” di Graziano Graziani è il testo da cui nasce l’omonimo spettacolo

E’ una sorta di esistenzialista romanesco Er corvaccio, ovvero il becchino del cimitero immaginato da Graziano Graziani. E che Lisa Ferlazzo Natoli, con arguzia, sceglie di affidare al polimorfismo (e quindi al fascino) di Lino Guanciale.

Lisa Ferlazzo Natoli – Lino Guanciale – Graziano Graziani

Lui entra in scena come “un flâneur de noantri”: mani in tasca e naso all’insù. “Spettinato”: lunga la barba, sciolta la cravatta. Bighellonando. Senza programmi. Vaga, più o meno oziosamente, per le vie del cimitero come fossero quelle di una città. Senza fretta. Tutto lo incuriosisce in questo microcosmo nero, dal fumoso fascino evanescente. Una città nella città.

E, da curioso e accogliente “osservatore urbano”, ha raccolto una miriade di osservazioni sociali, personali ed “estetiche” che, attraversando i sonetti di Graziano Graziani, Lino “Er corvaccio” ci offre. Alla ricerca di “quelle parole curative” per descrivere la morte, che nel tempo sono andate perse.

È un affresco di tipologie umane, il suo, alcune completamente scomparse. C’è l’arrotino, che lavorava “andando in bicicletta” ma che poi s’infilza proprio col coltello che sta lavorando; l’ombrellaio, “che se piove merda, l’ombrello non basta”; Er colletto bianco, che in vita moriva di monotonia e sta meglio ora che sta “sdrajato”; Er politico, che dice che “commannà è mejo che fotte” e la pissicologa, quella che quanno tu je dici che pensi de esse te stesso fino n’fonno, lei te dice che semo armeno in tre”. Perchè le città, incluse quelle dei morti, devono essere il luogo della condivisione: senza la condivisione non esiste la città. E il racconto delle “catastrofi esistenziali” dei morti possono essere accolte nella città dei vivi evitando sia lo scoramento che la rassegnazione. Perchè la “catastrofe” è immanente ad ogni nostra giornata. E noi ne siamo sedotti. Per natura.

Qui, in “Er corvaccio e li morti”, Lino Guanciale ci regala, con la preziosa complicità dei due ammalianti musicisti Gabriele Coen e Stefano Saletti, un brioso arcobaleno di colori vocali ed espressivi. Con prodigalità. Guidandoci dentro i sonetti di Graziano Graziani come lungo stradine di una città, pavimentate dal turpiloquio del romanesco (vocazione riconosciutagli anche dal celebre linguista Luca Serianni) ma soprattutto seducendoci al lusso della Poesia, che è quello di non avere un senso.

Perché alla fine la Vita è “un passar per buche: la figa, la fiasca e la morte”.

Love’s kamikaze

TEATRO INDIA, 29 -30 ottobre 2022 –

Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli. 


“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.

Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,

Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti

di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.

Claudio Boccaccini

Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.

Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.

Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.

A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza. 

Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.

I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).

Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.

Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.

E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.


Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.


La signorina Giulia

TEATRO VASCELLO, Dall’ 11 al 16 Ottobre 2022 –

Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?

Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più fretto­losamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresen­tarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.

Leonardo Lidi

August Strindberg

Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore. 

All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.

Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che sol­tanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.

Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.

Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.

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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico del Ginesio Fest.

Resurrexit Cassandra

TEATRO VASCELLO, Dal 4 al 9 Ottobre 2022 –

Quanta urgenza abbiamo che “risorga” una Cassandra che ci pre-dica scenari che a breve potrebbero inghiottirci? Ne abbiamo un’ardente urgenza, a giudicare dal rapito coinvolgimento del pubblico, ieri sera al Teatro Vascello. Un pubblico calamitato dalla multiforme seduzione di questa profetessa-messia, dalla quale non riusciva a staccarsi e che ripetutamente richiamava al suo cospetto.

Jan Fabre

Il destino che lega a doppio filo “i sordi” di ieri e quelli di oggi, evocato con elegante ferocia dalla Cassandra dell’anarchico adepto dell’arte Jan Fabre, fa sì che la supplice veggente venga finalmente ascoltata e creduta. Il testo di Ruggero Cappuccio, frutto di una sinergia di linguaggi multidisciplinari, è di una bellezza dilaniante.

Ruggero Cappuccio

L’interpretazione di Sonia Bergamasco, così penetrantemente sofferta nella semi-immobilità fisica sulla scena e per contro ossessivamente inquieta nella proiezione, è di sacra potenza. Una Cassandra che fa suo non solo il potere magico della parola ma anche quello di gesti simbolici (quali le mudra) e soprattutto quello della persuasività della musica, che struscia, sibila e schiocca sia nella rapsodia narrata che in quella cantata.

Come i serpenti di cui si circonda, questa Cassandra sa cambiare pelle (habitus) e quindi trasformarsi per risorgere, risvegliando la divina energia kundalini. Come i serpenti, possiede un forte legame con la vita stessa: emerge dalle profondità della madre terra e vive in armonia con ogni sua vibrazione energetica. Simbolo della conoscenza che dall’oscurità emerge verso la luce e che nella poesia “trattenuta” e volutamente mai totalmente libera di Jan Fabre assume la sagoma di un cerchio di luce.

Pieno e vuoto. Uno spazio circolare, la cui tracciatura costituisce una forma di protezione dalle energie negative. Uno spazio di ciclicità e di continuità, dal quale la Cassandra di Fabre esce ed entra con la grazia e l’alterigia di una regina. E nell’uscirne non esclude che sempre con eleganza, ma questa volta primitiva, si abbassi fino a stendersi per tornare ad aderire alla Terra e alle sue vibrazioni, solleticanti trasformazioni.

Qui, a terra, la bagna una luce che esce dal basso, dalla terra stessa, misteriosa ed inquietante, dove lei si immerge come in un ancestrale fonte battesimale. E poi canta, con la straziante e meravigliosa bellezza di chi è “destinata a godere solo il canto della disgrazia” .

E prega, come chi ha bisogno di credere che ci sia qualcuno che ascolti la sua invocazione, il suo grido: la natura torna sempre a reclamare i suoi diritti. Rispettatela. Onoratela. “Avete distrutto quello che nessuna guerra è riuscita a distruggere…sono stanca di risorgere ma se mi ascolterete, se vi andrà di salvarvi…”.

Sonia Bergamasco possiede quella metrica interiore, quella particolare capacità del corpo a vibrare, che ha a che fare con il suo essere, oltre che attrice, anche musicista e poetessa. E in quanto tale sa riconoscere alla musicalità sensualità e insieme rigore. Proprio così, ieri sera, ha conquistato l’intera platea del Teatro Vascello

Mi piace ricordare che Sonia Bergamasco sostiene l’organizzazione Medici Senza Frontiere. Nel 2017 ha visitato tre ospedali di MSF in Giordania e ha prestato servizio a sostegno dei profughi siriani.

La locandiera

TEATRO INDIA, 17 giugno ore 21.00 – 19 giugno ore 15.00 (maratona) – 20 giugno ore 21.00 –

“La locandiera” del regista Antonio Latella (Premio Ubu nel 2001 e Premio Gassman nel 2004) è un inno a ciò che di diverso, di “straniero” e quindi di unico brilla in ciascun personaggio. “Fra voi e me vi è qualche differenza”: così l’incipit allo spettacolo. Per esaltare ciò al massimo grado, Latella veste tutti i personaggi in maniera identica. Come dentro una divisa che li uniforma tutti: giacca nera, sotto-giacca nero, bermuda nero e calze nere che svettano, con più o meno audacia, da scarpe scure. Tutti: uomini e donne; servi e padroni.

Tutti si originano dalla stessa “forma”, dando vita però, ciascuno, a qualcosa di meravigliosamente diverso. È un “muro” di legno quello che delimita il proscenio. Forse, la porta della locanda. Al suo interno ospita due aperture, due “buchi della serratura”: quelli delle sagome vettoriali di un uomo e di una donna.

Da qui i personaggi si affacciano, sostano, si incastrano. Solo quando trovano il giusto impeto, sbucano, sfondano, oltrepassano “la forma”, rompono lo stampo che li unifica. Aprono. Si aprono. E quale migliore modalità di differenziazione esiste se non quella che si esprime nel sedurre, nel corteggiare?

Latella sceglie di mettere in scena allora una presentazione collettiva dei pretendenti della locandiera: come in una “giostra”, in una parata. Dove però tutti hanno già il loro “fazzoletto”: sarà la dama a scegliere se e da chi accettarlo. La locandiera: lei che “incatena, parla bene ed è di ottimo gusto”. Lei che “ha qualcosa di più delle altre: unisce gentilezza e decoro come nessuna mai”.

Il corteggiamento, la giostra, è fatta prevalentemente di parole. Ma se è vero che “il punto g” è nelle orecchie, è vero anche che la locandiera è una donna concreta: “mi piace l’arrosto. Del fumo non so che farmene … mio piacere è vedermi servita e vagheggiata”. Soprattutto “vagheggiata”: inseguita irresistibilmente nella sua volubilità.

Il suo gioco infatti sarà, almeno finché le sarà concesso, quello di scegliere di non scegliere. Quale piacere più grande si può ricavare, se non seducendo per farsi sedurre dal più scontroso e misogino degli ospiti della locanda? E poi lasciarlo andare. Rischiando. Ma non fino in fondo. Obbedendo, e forse lasciandosi schiacciare, dal consiglio paterno di sposare Fabrizio. Un’eredità, una “forma”, dalla quale la locandiera non riesce a plasmare qualcosa di diverso e quindi unico. Solo suo.

I giovani attori incantano lo spettatore dando prova di sapersi misurare in un originale uso dell’eredità dei frizzi e dei lazzi della commedia dell’arte. Sapendo punteggiare il mare di parole con accattivanti pause e dardeggianti sguardi. Delizioso contrappunto quello messo in scena dalle due commedianti Ortensia e Dejanira: nuove, fresche e conturbanti baccanti.