Ricordate che eravate violini – Meditazione notturna per una voce sola –

TEATRO BELLI, 5 e 6 Aprile 2023

Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.

Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.

Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.

Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales

Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.

È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.

Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.

Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.

In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.

Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.

Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.

“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.

E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .

Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.

E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .

Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?

La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.

Lorenzo Sabene

Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.

Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.

E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.

Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.

Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.

Francesco D’Alfonso

Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.

Due perle, i camei fuori campo di Roberta Azzarone e di Lorenzo Parrotto.

Giorgio Sales ci strazia. Ma non possiamo farne a meno. Riesce ad essere tutto e il contrario di tutto. Suo, è il profumo dell’attore.

Giorgio Sales

” Voi che siete oppressi ed esalti nel male,

ricordate che eravate violini

pronti a suonare le ragioni del mondo ”

(Alda Merini, Cantico dei Vangeli).

Da lontano. Chiusa nel rimpianto

TEATRO INDIA, dall’8 al 12 Marzo 2023 –

SCRITTO E DIRETTO DA LUCIA CALAMARO

La scena (curata da Katia Titolo) è bianca. Asettica. Con una sola parete sul fondo. Vuota, ad eccezione di un piccolo tavolo e due sedie da campeggio. Una figlia (Isabella Ragonese) ora terapeuta, è “al di qua” dalla parete. Al di là della stessa, sta quel che resta della mamma (Emilia Verginelli). Si parlano. Sembra un insolito setting terapeutico, dove la figlia fa di tutto per costruire quell’ indispensabile “alleanza” che si deve instaurare tra medico e paziente. La mamma però è tutta concentrata a boicottarla.

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Laddove la figlia, ormai adulta sente l’urgenza di ricucire, riparando con la parola e con l’ascolto uno strappo, un vuoto, una disattenzione del passato, la mamma reagisce invece sostituendo quasi totalmente la parola con i rumori infastidenti del trapano e del martello, con i quali la immaginiamo distratta in lavori. Che sia invece il suo modo di “riparare” ?

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Stremata e frustrata dalla difficoltà di comunicazione, in un apparente casuale momento di pausa-tregua, la figlia “accampandosi nell’isola”, costituita dal tavolo e dalle sedie da campeggio, “si collega” via Skipe con una paziente, dalla personalità simile a quella di sua madre. È in un metaforico “stare in campo”, in un assedio senza attacchi diretti ma tale da provocare “una mossa”, che la genialità della regista Lucia Calamaro dà vita ad una sorta di teatro, nel teatro on line. Da remoto. Da lontano: come evoca il titolo.

Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto”

La mamma, di là dalla parete, si permette finalmente di prestare ascolto, non essendo coinvolta in maniera diretta. Lo capiamo dal diverso atteggiamento che offre ora alla figlia, dopo che quest’ultima ha ultimato la seduta on line. “Hai mangiato?” – è finalmente la sua prima domanda. La prima volta che fa trapelare il suo essere disposta ad entrare in relazione. Non a caso Elsa Morante era solita sostenere che proprio questa domanda esprime, più di altre, l’amore. L’interesse per un nutrimento non solo alimentare. 

Isabella Ragonese e Emilia Verginelli (la madre)

La coinvolgente struttura della narrazione, seminando opportunamente dettagli, crea quella suspense necessaria per mantenere viva l’attenzione dello spettatore. Soprattutto su un tema dove potrebbe risultare scomodo “stare”.

Isabella Ragonese

Isabella Ragonese (la figlia), avvolta nel suo tailleur blu egiziano (i costumi sono di Francesca Di Giuliano) sa essere una di noi. Sa esserci vicina. Sa con la sua interpretazione, assecondare e valorizzare un testo che ci seduce a entrare in campo, a superare la tentazione di mantenere un confine, un margine. E arriva il punto in cui qualcosa ci spinge a fare un altro passo. E ci siamo dentro. Per fortuna. “Senza l’altro … ma come si fa !?” . 

Un setting-teatro intenso e versatile. Come il blu egiziano: il più sublime dei blu. Il blu di quel cielo che si può aprire, come il tailleur, rivelando le gialle stelle.

Isabella Ragonese


con la partecipazione di Emilia Verginelli

disegno luci Gianni Staropoli

costumi Francesca Di Giuliano

scene Katia Titolo

foto Natalia Nieves Iszakovits

produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini

per Infinito Teatro Argot Produzioni

in collaborazione con Riccione Teatro


Isabella Ragonese e Lucia Calamaro

Turandot

TEATRO LE SALETTE, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023 –

Nella produzione di Carlo Gozzi, drammaturgo della Venezia del Settecento protagonista di una polemica sul teatro nella quale difendeva i vecchi artifici della Commedia dell’Arte contro le novità introdotte nel teatro da Goldoni, c’è anche una serie di pezzi drammatici basati sulle fiabe: inizialmente queste opere divennero popolari, ma dopo lo smembramento della Compagnia Sacchi caddero nel dimenticatoio. Furono molto apprezzate da Goethe, Schlegel, Madame de Staël e Sismondi. Uno di questi testi drammatici, Turandot, fu tradotto da Schiller in lingua tedesca e ispirò a Puccini l’opera omonima.

L’ambientazione di Turandot è esotica ed orientale, in risposta al gusto dell’epoca, a quella illuministica voglia di migrare verso posti lontani, di esplorare terre sconosciute di cui non si conoscono né usi, né costumi. Ma i personaggi secondari sono quelli tipici del teatro delle maschere.

E questa caratteristica è ben rispettata e resa nell’adattamento di Francesca e Natale Barreca e nella messa in scena registica di Stefano Maria Palmitessa.

Stefano Maria Palmitessa, regista dello spettacolo “Turandot”, al teatro Le Salette

Prendendo posto nella suggestiva sala del Teatro Le Salette, incastonato in quel fascinoso Vicolo del Campanile che collega la maestosa via della Conciliazione all’atmosfera raccolta di un inaspettato secondo cuore pulsante di Roma qual è il medioevale Borgo Pio, subito si nota una particolare modifica dello spazio teatrale, elemento centrale nella ricerca registica di Stefano Maria Palmitessa, per il quale risulta fondamentale iniziare lo spettatore ad un nuovo “sguardo”. Spesso solo suggerito ma proprio per questo più aperto ad un “oltre”.

Il boccascena in questo caso è delimitato, su due livelli, da quinte orizzontali che, come delle balaustre, riducono la visione degli attori fino a metà del loro busto. Chiara è l’allusione al Teatro dei Burattini, ricordo inconscio del regista, solito frequentare il celeberrimo Teatro dei Burattini di Villa Borghese.

Una scena al Teatro dei Burattini di Villa Borghese a Roma

Con la complicità di praticabili, gli attori lentamente si palesano suscitando la meraviglia di un’epifania e velocemente si eclissano scomparendo dietro le balaustre. Prime nel palesarsi sono le maschere della Commedia dell’Arte, alle quali è affidata la funzione di Coro: aprono la rappresentazione con un prologo introduttivo della vicenda narrata; chiudono con un epilogo ” …e al fin li magnam sti confetti” e frammezzano la narrazione con dei commenti.

L’intelaiatura narrativa ricorda le trame di quelle novelle orali che venivano raccontate in epoca pre-rinascimentale: vi è un eroe che deve conquistare il cuore di una principessa, bella ed impossibile, ma che nel farlo, incontra ostacoli maledettamente difficili da superare.

La storia, ormai nota a tutti, è quella di Turandot, principessa della Cina, tanto bella quanto gelida e spietata, vinta solo dalla forza dell’amore e del coraggio di un principe temerario e innamorato che, sostenuto dalla sua cultura e dalla sua passione, risolve i famosi inestricabili enigmi.

Una storia quella della tragica ‘bisbetica domata’ Turandot, già narrata dal francese Francois Pétis de la Croix in quel suo Les mille et un jours” (1710) con cui aveva inteso sfruttare il successo, recente e vivissimo, de “Le Mille et une nuits“.

Curatissimi esteticamente ed efficaci drammaturgicamente i costumi di Mary Fotia: bianchi per i personaggi della favola cinese, neri per le maschere della commedia dell’arte.

Di grande fascino il kesho (ovvero il trucco dell’attore nel kabuki) che prevede che i volti di onnagata (qui il personaggio di Turandot è infatti un uomo) e di ragazzi siano coperti solo di bianco, essendo il bianco il colore per eccellenza della bellezza femminile e della delicatezza della gioventù. Unica concessione, le labbra rosse, una pennellata di rosso agli angoli degli occhi e le sopracciglia disegnate più in alto del naturale (tsukuri mayu). 

Esempio di trucco kabuki per femmine e giovani

Sul volto dei personaggi maschili, invece, sono stese le linee che ne fissano l’espressione sotto la luce dei proiettori, rendendo evidenti i sentimenti che li animano: il blu per la calma; il rosso per la collera, il coraggio, l’ostinazione; il grigio per la tristezza; il viola e il nero per la paura o la malvagità; il porpora per la superbia.

Esempio di trucco kabuki per maschi

Il regista Palmitessa dà forma ad uno spettacolo elegante e pieno di suggestioni, dove si nota un interessante studio sulla parola e sulla sua musicalità; su quel che resta del corpo dell’attore e sulla possibilità di dilatarlo. Vivificando continuamente l’attenzione dello spettatore.

Fantasme

TEATROSOPHIA, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

In un suggestivo ambiente glaciale di stalattiti e stalagmiti (la scena è stata curata da Enzo Piscopo) si individuano, seppur mimetizzate, tre donne “freezzate”, congelate in un fermo immagine. Attendono la nostra attenzione. Una volta accordata, all’udir le prime note di un motivo musicale, come libere ora dal sortilegio dell’incantesimo che le voleva invisibili, si sciolgono. E si rianimano.

Una scena iniziale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Sono fuori da ogni coordinata spazio-temporale e prima di sentirsi a loro agio nell’abitare questo nuovo ambiente, lo perimetrano tutto. Impavide. Sbilanciandosi anche oltre il confine che separa il palco dalla platea. Affamate di entrare finalmente nello sguardo degli altri. Si muovono come in una danza: ora lieve, ora densa. Sempre, carica di una potente espressività.

Maria Concetta Borgese

Sembrano dover recuperare qualcosa che hanno perso. Che è stato loro sottratto. Si guardano e s’intendono, senza parlarsi. Ormai complici, si muovono come in simbiosi: sono tre ma in un’unica entità. Una di loro inizia a chiamare il suo uomo: “Veturio ! ” e le altre due ne sostengono l’accoramento, dando forza alla sua esigenza di rivalsa. E ne ripetono il nome, come fosse un’eco. Come un coro di una tragedia greca.

Silvia Mazzotta e Marta Iacopini in una scena dello spettacolo “Fantasme”

Sono fantasme, spettri di persone defunte, che dallo stereotipato lenzuolo bianco non si lasciano più coprire. Piuttosto ne fanno una veste che le riveli. Non hanno negli occhi l’ira vendicatrice di Erinni: a loro interessa non essere invisibili, essere ricordate. Per far sì che ciò che è loro accaduto non si ripeti in un’assecondante e rassegnata normalità.

Marta Iacopini

Loro urgenza è dare vita a nuove occasioni per ricordare propositivamente il proprio valore di donne che hanno saputo amare. E amarsi. E far sì che “il danno” da loro subito trovi giustizia nell’essere da noi ascoltato e fatto valere con il nostro esempio. “Chiunque io sono, ricorderò chi sono stata !” – è il loro motto.

Ma è anche un’esortazione alla sorellanza: come patto sociale, etico ed emotivo. Consapevoli che insieme si è più forti. E che solo così è possibile avviare un vero e proprio cambiamento sociale. “Quanto poco si conoscono le donne !” – ripetono come in un loop le fantasme. 

Silvia Mazzotta

E si commuovono. E ci commuovono. Dopo averle seguite attraversando con loro le regioni dell’anima della passionalità, della generosità, della frustrazione, del disgusto, della rabbia, della dimenticanza fino alla prepotente esigenza di una rivalsa, facciamo tappa nella regione della solidarietà. Riconoscendoci in tutta la nostra maestosa fragilità di creature che sanno commuoversi. Insieme. Per poter dar vita a nuovi inizi.

Silvia Mazzotta, Marta Iacopini e Maria Concetta Borgese in una scena finale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Molto interessante la scelta del regista Guido Lomoro, la cui cifra stilistica si esprime costantemente in un’attenta e appassionata indagine della natura umana, di proporre una riduzione teatrale dell’avvincente testo di Claudio Marrucci e Carmela ParissiFantasme. Da Messalina a Giorgiana Masi“, focalizzando l’attenzione registica su una rosa di 9 esempi femminili (rispetto ai 25 del testo originale) che continuano a parlarci e ad illuminare le nostre esistenze.

Guido Lomoro, il regista dello spettacolo “Fantasme”

Soprattutto grazie alla generosa accoglienza e “visibilità” riservata loro dalle tre appassionate interpreti sulla scena: Maria Concetta Borgese, Marta Iacopini e Silvia Mazzotta. Impetuose e piene di grazia. Capaci di restituire vibrante esistenza a creature troppo spesso avvolte nel ghiaccio della dimenticanza.