lI soccombente

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Marzo 2023 –

Desiderio, più o meno confessato, di ogni essere umano è quello di avere “un testimone”: qualcuno che si interessi al nostro modo di stare al mondo, che condivida con noi esperienze e, proprio per aver avuto diretta conoscenza dei fatti della nostra vita, possa far fede nel rievocarla. Mantenendone la memoria.

Sandro Lombardi è il Narratore nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

Speciale investitura che in questo testo di Thomas Bernhard (tradotto da Renata Colorni e ridotto da Ruggero Cappuccio) cala su un innominato Narratore, testimone e unico sopravvissuto di una singolare amicizia, una e trina, che dà vita a diversi esiti, tutti riconducibili però alla medesima domanda: chi siamo? Ovvero, cosa ci identifica davvero? O meglio: che cosa ci rende “realizzati”? E poi: cosa siamo disposti a fare per individuare e portare a compimento il nostro “daimon”, il nostro talento?

Thomas Bernhard, autore del testo “Il soccombente”, facente parte di una Trilogia sulle Arti

Il regista Federico Tiezzi affida l’interpretazione di questo particolare “testimone-narratore” a un lucido e ancora tormentato Sandro Lombardi, a cui regala un ironico disincanto che contribuisce a renderlo ricco in fascino passivo. In un corposo flusso di coscienza, il Narratore, comodamente assiso in una poltroncina del suo salotto/camerino, rievocando gli effetti di quell’indimenticabile incontro con Glenn Gould , prova a rintracciarne le cause. Ora, a circa trent’anni dall’evento e a pochi giorni dal suicidio di Wertheimer. Gould era solito identificare l’amico-collega qui Narratore con l’appellativo di “filosofo”. E forse, proprio per questa sua presunta natura socratica, non riesce a colmare attraverso la scrittura di un libro quell’epifania che Glenn Gould rappresenta. Ancora.

Glenn Gould, tra i più grandi pianisti mai vissuti

Il suo elegante spazio, insieme luogo della mente, ri-ospita gli amici che per due mesi e mezzo hanno frequentato il corso tenuto dal grande maestro russo Vladimir Horowitz a Salisburgo. Periodo in cui hanno condiviso tutte le ore del giorno e quelle della notte a studiare e ad esercitarsi ossessivamente al pianoforte: lui, il Narratore, Wertheimer e l’immensamente ingombrante Glenn Gould, iconograficamente rappresentato dal nero Steinway, oggetto del desiderio nel quale Gould anelava trasformarsi.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

Ricchissimo di suggestione “lo scenario” che ospita questa ambientazione salottiera, così lontana dalla frenesia che contraddistingueva lo spazio che li voleva uniti nel condividere un’irrefrenabile passione per la musica. Ma le “morbide” linee curve del salotto vengono inscritte in rigide geometrie sulle quali si incide la perfezione, e quindi il mistero, di una triangolazione. E su tutto cala, come un deus ex machina, l’eterna presenza di Glenn Gould, rapito esecutore delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. Una scenografia che con il rigore di un pentagramma ospita i corpi degli attori, punteggiatura “in posa”, priva di un autentico “daimon”.

Pagina dello spartito con la prima Aria delle Variazioni Goldberg scritte da Johann Sebastian Bach

Geniale il lavoro sul corpo dell’attore che il regista Tiezzi ha individuato per ciascuno di loro.

Federico Tiezzi, regista dello spettacolo “Il soccombente”

La staticità per il corpo del Narratore (Sandro Lombardi) che, rapito dall’urgenza del flusso di coscienza, sceglie un punto di vista da cui riesaminare tutta la vicenda.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

La funambolicità per il corpo di Wertheimer (Martino D’ Amico): quella della psiche trova espressione in una fisica sfida all’equilibrio gravitazionale, che lo porta ad assumere quasi esclusivamente posizioni da “soccombente”. Lo scopriamo, infatti, o spalmato sul pianoforte (come appena atterrato dal volo per suicidarsi), o continuamente tentato a salire sopra gli oggetti d’arredo (quasi volendo pregustare il febbrile osare lanciarsi in volo da ogni altezza).

Martino D’Amico è Wertheimer nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

E poi la prossemica della sorella di Wertheimer: predata come una cerbiatta e responsabile per lungo tempo di essersi resa disponibile ad accettare di gravitare intorno a lui, quale unica forza di attrazione. Assecondandolo, e così illudendolo, di colmare in qualche modo i suoi insopportabili vuoti di senso. Plasticamente strabiliante la duttilità vocale e fisica dell’interprete Francesca Gabucci.

Francesca Gabucci

Perché quello che fin dall’inizio Gould aveva ri-nominato ” il mio caro soccombente” (Wertheimer) era in qualche modo predestinato a tale fine, non avendo in sé (già molto prima del loro incontro) un vero baricentro di consapevole unicità esistenziale. Oscillando, da sempre, tra il prevaricare e l’arrendersi.

Fatale esito di un processo già avviato, la paralisi sinestetica provocata in Wertheimer dall’ascolto dell’esecuzione delle Variazioni Goldberg da parte di Gould si originava in chi si era accorto che ciò che fa la differenza tra essere o non essere un Artista è saper “entrare in relazione” con la musica . E non semplicemente sottomettersi ad essa, oppure prevaricarla. Un fuoco che arde perché crea. Non per incenerire.

Glenn Gould

Gould, ci riferisce lo stesso Narratore, era solito usare espressioni come “stare nella pelle”, “stare nei panni”. Di più: sapeva lasciarsi rapire dalla musica come da un’amante, complice la consapevolezza che poi lei stessa avrebbe saputo come ricondurlo in superficie. Temporaneamente. Fino al successivo amplesso.

Come descritto da Platone ne “Il Simposio”. E come dichiarato dallo stesso Gould, che definiva il lavoro incubatorio che avrebbe portato alla luce le sue opere “un romanzo d’amore” . Una relazione amorosa tale da riuscire a rendere “speciale” e quindi “unica” anche quella “diversità” che per i suoi amici è restata solo una discriminante malattia.

Questo, forse, è l’Artista.

Questo, forse, è riuscire a fare qualcosa di fertile con l’Infelicità.


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Cirano deve morire

TEATRO VASCELLO, Dal 22 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Spettacolo vincitore del Bando Biennale College indetto dalla Biennale Teatro di Venezia 2018

Ci aspettano: abitano una “costruzione” edificata in un teatro nudo: dove tutto è a vista, senza le “omissioni” delle quinte (le scene sono di Giuseppe Stellato). Debbono dirci qualcosa: vogliono “mettere a nudo” una storia. Quella sul triangolo amoroso tra Cyrano-Rossana-Cristiano. È la prossemica che hanno scelto per aspettarci a parlarcene: Rossana in alto, al vertice di quel triangolo di cui Cyrano e Cristiano sono i due angoli alla base.

Scena di “Cirano deve morire” al momento dell’ingresso in sala dello spettatore

Ma questa volta è ad una narrazione “politicamente scorretta” che dobbiamo prepararci: fuori da ogni perbenismo e da una visione manichea che distingua nettamente il bene dal male. Fuori da soluzioni confezionate. Univoche. Ingannevoli. Complice un disegno luci spregiudicato: un insieme di raggi fendenti e penetranti come spade (disegno di Simone De Angelis, esecuzione di Giuseppe Incurvati). 

La riscrittura del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand ordita dal talentuoso regista Leonardo Manzan, affiancato nella drammaturgia da Rocco Placidi, mette alla prova i consolidati equilibri che sorreggono la celebre storia, osando andare oltre i confini di certi codici “omologanti”.

Leonardo Manzan, il regista di “Cirano deve morire”

Qui si sposa il punto di vista di Rossana (una poeticamente accattivante Paola Giannini), unica sopravvissuta alla storia e che di questa pesantezza non fa più un ingombro ma l’occasione per uno sguardo nuovo: dall’ “alto” della sua posizione e con il conquistato distacco, tutta la storia può essere rivista.

Paola Giannini, la Rossana in “Cirano deve morire”

È quella di Manzan una Rossana che ammicca all’arguta “Locandiera” di Goldoni, risoluta nello scendere in campo per ribellarsi alla “solita” narrazione che fa di Cyrano solo il simbolo dell’ eroe allergico all’ipocrisia e di Cristiano un delizioso sfortunato. Scopriremo, dal suo punto di vista invece, come Cristiano (un magnetico Giusto Cucchiarini) sia l’esempio del “bello che non balla”

Giusto Cucchiaini il Cristiano in”Cirano deve morire”

e Cirano (il poeta maledetto Alessandro Bay Rossi) un uomo che della propria diversità fisiognomica fa un muro dietro al quale trincerarsi. Un po’ come canta Roberto Vecchioni nella sua “Rossana Rossana”: “Col cuore dentro il naso … nelle mani soltanto stelle rotte, l’ombra perduta tra i rami…che brutta eternità desiderarti e non averti mai…aprivo solo la bocca, facevo finta forte e ti ho bagnato d’amore” .

Alessandro Bay Rossi, il Cirano in “Cirano deve morire”

Insomma un Cirano che si blocca ad una (apparentemente) generosa simbiosi con Cristiano, dove quella che chiamano “finzione” si riduce ad una “minzione”. Un uomo, Cirano, che non va oltre la sublimazione inchiostrata delle proprie emozioni. Ma l’inchiostro “si secca” e non produce nulla di fertile. Da qui il titolo iconoclasta: “Cirano deve morire”.

Perché scrivere “ti amo” vale solo se è il momento che anticipa il “segno” di un gesto intrepido. Perché in realtà a Cirano non manca tanto la bellezza, quanto la capacità di “perdere il controllo” e di misurarsi con la follia dell’amore. Che non fa sempre rima.

Efficace poi la scelta di tradurre e veicolare questa nuova “weltanschauung” attraverso la musicalità metrica e l’attrazione per le rime caratteristiche del linguaggio rap. Naturale effetto di questa nuova traduzione è che il lavoro assuma la modalità di un “concerto”, di un gareggiare musicale: un concept album supportato dalle musiche originali del dj Filippo Lilli direttamente sul palco. Raffinatissimo e molto efficace il contrasto antico-moderno dei costumi (sono curati da Graziella Pepe).

Il cast di “Cirano deve morire” con il dj Filippo Lilli

Una prova di teatro coraggiosamente interessante, costruita senza l’ossessione di andare incontro al beneplacito della critica.

Un nuovo orizzonte quello aperto da Leonardo Manzan, che sa portare a “singolar tenzone” teatro e musica rap.

CIRANO DEVE MORIRE

di Leonardo ManzanRocco Placidi
regia Leonardo Manzan
con Paola GianniniAlessandro Bay RossiGiusto Cucchiarini 
musiche originali di Franco Visioli e Alessandro Levrero eseguite dal vivo da Filippo Lilli     

fonico Valerio Massi

luci Simone De Angelis eseguite da Giuseppe Incurvati 

scene Giuseppe Stellato 

costumi Graziella Pepe

produzione de La Biennale di Venezia nell’ambito del progetto Biennale College Teatro – Registi Under 30 con la direzione artistica di Antonio Latella
produzione nuovo allestimento 2022 La Fabbrica dell’Attore – Teatro VascelloElledieffeFondazione Teatro della Toscana

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.

Macbettu

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 19 Marzo 2022 –

Uno spettacolo meravigliosamente bestiale. La regia di Alessandro Serra sceglie di non rintracciare un ordine dove Shakespeare stesso dice che non ce n’è: nella natura umana, così come nella vita, nonostante tutto, regna il caos. Serra quindi mette in scena un’umanità bestiale, immersa nella sacralità ancestrale dei riti magico-dionisiaci.

È la dimensione istintivo-pulsionale: quella dove per riconoscersi ci si annusa; per sentire sapore e quindi piacere ci si lecca; per esprimere disappunto ci si sputa. La bocca occupa un ruolo fondamentale in questo spettacolo: è lo strumento con il quale si conosce ed esplora il mondo.

Così come avviene attraverso la sessualità: con essa si ha una confidenza tale, da escludere qualsiasi tabù. È un’umanità che vive di appetiti e che è essa stessa appetito. Come il regista ci lascia intuire dalle posture: le streghe camminano piegate, creando angoli di novanta gradi, quasi animaletti-giocattolo a carica; nei banchetti si beve dalla stessa ciotola in una postura simile; Lady Macbeth si piega ad angolo fino a far toccare i suoi capelli a terra, quando deve portare via il cadavere del re.

La figura geometrica del triangolo ricorre spesso; triangolari sono i percorsi che si fanno fare ai corpi uccisi, quasi a voler alludere ad una forma di diversa spiritualità. Tra sacralità, sessualità e mondo naturale c’è una fortissima interazione.

Lo spettacolo prende avvio da una specie di scossa tellurica, da un vortice ventoso che il regista sceglie di farci sentire e non vedere. Di sonorità è carica tutta la messa in scena: come Shakespeare, anche Serra sa l’importanza di ciò che si versa nell’orecchio dell’altro. Sa quale potenza può scatenare.

Dal mondo naturale si recupera anche un potentissimo legame con il mondo animale che plasma prepotentemente i personaggi: metamorficamente le streghe sanno scimmiottare, mettersi in ascolto come gufi, beccare come galline, conversare come pipistrelli. I cavalieri sanno trottare come cavalli. Le guardie mangiano e bevono come i porci. Si cavalcano i morti per dare loro l’ultimo colpo fatale: come fa Lady Macbeth con il re Duncan e poi il sicario con Banquo. 

Anche la scelta della lingua, un sardo oscuro e fascinosamente evocativo, completa magistralmente questo mondo indecifrabile, che ognuno di noi si porta dentro e che è specchio di ciò in cui siamo gettati.

A coronamento, l’onirico disegno luci: uno spettacolo tutto immerso in atmosfere notturne, dove la luce, quando c’è, è densa, bassa e a servizio delle ombre.

L’adattamento permette una messa in scena snella ed accattivante andando ad evidenziare le parti del testo dove emerge in maniera più energica il carattere orrorifico della natura umana.

Bella l’immagine di far avanzare, di spalle, Lady Macbeth rivelando il suo essere uomo solo alla fine. Ancor più bella l’intenzione registica di veicolare, come già accadeva nella scrittura di Shakespeare, il concetto che l’eterosessualità non è un fatto di genere. E infatti Lady Macbeth ha una sensualità tutta femminile. Anche nudo.