Da ingegnosa artigiana teatrale, Luciana Frazzetto, nel “dare forma” al personaggio femminile di questo monologo, non poteva trovare migliore mestiere per connotarlo che quello legato alla sartorialità.
Luciana Frazzetto, autrice ed interprete del monologo comico “Nei panni di una donna?”
Obiettivo degli autori (il testo è scritto a quattro mani da Luciana Frazzetto e da Riccardo Graziosi) è “attagliare” un personaggio femminile: costruirgli cioè un “habitus”, un modo di fare, che lo renda contemporaneamente singolare ed universale. Una sorta di “taglia unica”.
Riccardo Graziosi autore, con Luciana Frazzetto, del monologo comico “Nei panni di una donna ?”
Ma come accade nei migliori ateliers dove la sarta apporta gli ultimi dettagli “in presenza”, ovvero durante la prova con il cliente, appuntando gli spilli e ricontrollando l’esattezza della cucitura su una spalla o su di un fianco, così la Frazzetto solo una volta al cospetto del pubblico in sala, apporta gli ultimi aggiustamenti al suo personaggio. La sensibilità dell’attrice è tale che, non staccando mai l’ascolto sul pubblico, riesce ad improvvisare “rimodellamenti” cercando e trovando, momento per momento, il giusto accordo con le reazioni del pubblico.
Un collage di alcuni momenti dello spettacolo “Nei panni di una donna?” di Massimo Milazzo
Non solo: obiettivo degli autori è anche quello di non irrigidire il personaggio, e i temi che lo connotano, “modellandolo” solo sull’universo femminile. Ci riescono grazie ad un bizzarro escamotage che coinvolge, nel complesso universo femminile, il più lineare sguardo maschile. Ne deriva una partecipazione di pubblico totalizzante. Sempre.
Luciana Frazzetto in una scena dello spettacolo “Nei panni di una donna?” di Massimo Milazzo
La capacità della Frazzetto di rompere la quarta parete è tale che per tutto lo spettacolo il pubblico dà vita ad un continuo contrappunto di commenti catartici. Straripano le risate. Ma progressivamente lasciano spazio anche ad accorati sospiri che, sul finale, confluiscono in qualche lacrima.
Massimo Milazzo, il regista dello spettacolo “Nei panni di una donna?”
Attraverso l’attento sguardo d’insieme di Massimo Milazzo, il personaggio femminile protagonista del monologo non solo drammaturgicamente ma anche registicamente risulta incline a smussare angoli e ad allungare o accorciare pretese, come fossero orli. Fino ad arrivare a trovare uno sviluppo, dove la protagonista imparerà che non sempre è possibile creare ponti, come si fa intagliando asole per abbottonare due punti di vista. A volte i ponti vanno fatti saltare. Subito.
Perché le donne non “si toccano” !
Luciana Frazzetto
Merito dello spettacolo è quello di affrontare il tema della violenza sulle donne al di là dei moralismi. La chiave di volta, qui, è l’utilizzo del paradosso della risata che, opportunamente indirizzata registicamente, diventa dapprima amara e poi di rottura.
Esemplare il sodalizio artistico (e di vita) di due splendide persone come Luciana Frazzetto e Massimo Milazzo, che sono riuscite e riescono ogni volta a “sedurre” platee colme di presenze umane, che sentono l’urgenza della benefica funzione del teatro. Un presidio culturale, quello da loro fondato a Rocca Priora, davvero prezioso.
Ieri sera 9 Marzo ha debuttato nell’eclettico spazio teatrale di Teatrosophia “La Reine de Marbre”: il nuovo spettacolo, scritto da Francesco Baj e diretto da Flavio Marigliani, portato in scena dalla Compagnia del Teatro Multilingue. L’unica compagnia a creare spettacoli multilingue, che mescolano più lingue all’interno della stessa pièce, senza nulla togliere alla comprensione del testo. La Compagnia del Teatro Multilingue è nota per il successo di “Mrs Greene e Goodbye Papà“, la cui tournée li ha portati ad esibirsi a Madrid, Bristol, Kingston e più volte a Londra.
Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Ne “La Reine de Marbre” è impossibile non apprezzare il bel lavoro sul corpo, proprio della Commedia dell’Arte, portato in scena dai tre attori: Mayil Georgi Nieto,Marta Iacopini e Flavio Marigliani. La mimica trova espressione non col giuoco della fisionomia, spesso come in Arlecchino ricoperta dalla maschera, ma con l’atteggiamento dell’intera figura. Della Commedia dell’Arte ritroviamo anche quell’elemento, al tempo di portata dirompente e rivoluzionaria, che fu l’attribuzione di parti femminili a donne.
Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Ma in un divertissement di commedia e assurdo qual è “La Reine de Marbre” l’autore Francesco Baj ha il merito di “re-interpretare” alcuni meccanismi propri della Commedia del’Arte: Arlecchino ad esempio qui diventa “El Capitán Arlecchino”, affamato e vanaglorioso militare che non tiene sempre in viso la sua maschera in cuoio. Inoltre, uno dei due ruoli femminili è affidato a Madonna Angelica, che è la principale figura femminile del poema cavalleresco “Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo, e del seguente “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. E qui Madama Angelica è dotata di una bellezza soprannaturale come i suoi poteri: è infatti esperta di medicina e arti magiche, che in scena esercita avvalendosi del suo telo azzurro.
Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia)in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Ma qui lei ha anche paura, vorrebbe fuggire e sarà la Petite Lucrecia, donna di personalità e con una propria autonomia di pensieri e d’azione, a saper reggere il peso di determinate situazioni: come quella dell’affrontare e reagire alla tempesta. La Petite Lucrecia ricorda molto la Lucrezia Di Siena che nel XVI secolo fu la prima donna, documentata, a esibirsi in una compagnia teatrale legata alle nuove formule spettacolari della Commedia dell’Arte.
Lucrezia Di Siena
Un personaggio di elevata cultura, in grado di comporre versi: come qui ne “La Reina de Marbre”, dove scandalizza per le sue idee. Si pone e propone, infatti, interrogativi filosofici per indagare se viene prima il maschile o il femminile, la musica o la parola, il rumore del mare o il nostro orecchio. Crede, la Petite Lucrecia, che il mondo vada vissuto e non solo teorizzato e incasellato in principi morali. Perché “la giustizia sta nel saper guardare dal punto di vista migliore”.
Mayil Georgi Nieto (Madonna Angelica) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia)in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
In scena, due quinte centrali e distanziate sul fondo. E poi in proscenio una panchina, dal sapore del teatro dell’assurdo, esaltato dal sotto clima di attesa e di ciclicità di quell’inizio di narrazione ” c’era una volta una regina che disse alla sua serva – Raccontami una storia …”. Che comunque permette di avanzare, da fermi.
Dove la presunta fine del mondo portata dalla tempesta appare un nuovo inizio, un nuovo mondo. Un mondo di attesa. È un fatto naturale, né una maledizione, né una benedizione. Un’opportunità. Forse. “L’inferno esiste sulla terra solo se lo inventiamo noi”. Forse. La natura è superiore all’uomo o viceversa? Chi dà origine alla civiltà? È possibile un mondo democratico basato sulla fratellanza ?
Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Questi sono solo alcuni degli interessanti spunti sui quali la pièce ci invita a riflettere. Meravigliosa poi l’idea di rendere l’incontro con i migranti naufraghi attraverso l”utilizzo di barche di carta dei colori della pelle degli uomini delle diverse nazionalità, utilizzandole per dare vita a suggestive scenografie e coreografie.
Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Uno spettacolo godibilissimo e prezioso, dove si narra di un veliero alla deriva nel Mediterraneo. El Capitán Arlecchino e due dame di compagnia di una regina decapitata nel XVIII secolo, Madonna Angelica e Petite Lucrecia, sono i sopravvissuti di una tempesta senza precedenti che li porta a scontrarsi con le barche dei migranti in rotta verso l’Europa. Fanno naufragio in una Grecia devastata dagli incendi, pescano plastica dal mare e, pur di sopravvivere in un mondo a loro sconosciuto, si reinventano democratici del XXI secolo vendendo i simboli della democrazia ai bagnanti sulle spiagge.
Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani
Che sia una donna “pericolosa” lo si intuisce immediatamente: non ha bisogno di cercare la luce, piuttosto la rifugge. È lei la luce. E l’ombra. Non ha bisogno di particolari scene per esprimersi: è lei l’espressione. In lei tutto recita: dai denti alle sopracciglia.
Beatrice Schiaffino (La Papessa) in una scena dello spettacolo
Ci cerca. Ma ci ha già sentiti nel buio. Si presenta. Ma è più un’apparizione. Non è solo una donna. Non è solo un uomo. È un’epifania. Ci parla di lei, quella che fu ( forse ) La Papessa: del suo essere, non essendo stata. Non è stata docile: unica dote che ad una donna si richiedeva. No: lei ha sempre cavalcato l’estro del pensiero indipendente. Coltissima ma sempre selvatica, come le erbe: quelle voci della terra con le quali sua madre entrava in comunicazione. Le erbe: alfabeto di un altro mondo.
Beatrice Schiaffino in una scena dello spettacolo“La Papessa” di Carmen Di Marzo
Fin dall’inizio cogliamo in lei un’impetuosa impazienza. Quella di chi sta contenendo l’urgenza di infiammare questo incontro, aspettando il momento in cui il nostro coinvolgimento arriva ad essere più potente. Per trasferirci “l’oracolo” che questo incontro suggella: fare della propria vita ciò che si brama essere. Sfidando il rischio, servendosi dell’astuzia, rubando con gli occhi, prima che con la mente. Affamati di sapere. Ebbri di conoscere. Ingordi di vita.
Beatrice Schiaffino in una scena dello spettacolo“La Papessa” di Carmen Di Marzo
Non sarà un caso se nella cartomanzia “La Papessa” rappresenta la conoscenza segreta: quella che riesce a penetrare nella dualità tra l’universo materiale e l’universo spirituale. Se nell’alchimia rappresenta l’attrazione. Se ne I Ching è in analogia con il segno V (L’Attesa) e il segno XLIV (Il Farsi Incontro). Se nella magia è la conoscenza per operare bene.
Petre Pater Patrum, “Papissa Pandito Partum“
La Papessa Giovanna si narra sia stata l’unica figura di papa donna, che avrebbe regnato sulla Chiesa col nome pontificale di Giovanni VIII, dall’855 all’857. È considerata dagli storici alla stregua di un mito o di una leggenda medievale, alimentata dal potere temporale francese in conflitto col papato. Raccontano che La Papessa sia rimasta incinta del suo amante. Durante la solenne processione di Pasqua nella quale il Papa tornava al Laterano dopo aver celebrato messa in San Pietro, mentre il Corteo Papale era nei pressi della basilica di San Clemente, la folla entusiasta si strinse attorno al cavallo che portava il/la Pontefice. Il cavallo impaurito reagì violentemente provocando a “Papa Giovanni” un travaglio prematuro. Scoperto il segreto, La Papessa Giovanna fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo attraverso le strade di Roma e lapidata a morte, nei pressi di Ripa Grande, dalla folla inferocita. Fu sepolta nella strada dove la sua vera identità era stata svelata: tra San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano.
Il rito
Parte essenziale della leggenda è un rito mai svoltosi, ma fantasticato e ripreso, in chiave anti-romana, da autori protestanti del Cinquecento: s’immaginò che ogni nuovo papa venisse sottoposto ad un accurato esame intimo per assicurarsi che non fosse una donna travestita (o un eunuco). L’esame avveniva con il nuovo papa assiso su una sedia di porfido rosso, nella cui seduta era presente un foro. I più giovani tra i diaconi presenti avrebbero avuto il compito di tastare sotto la sedia per assicurarsi della presenza degli attributi virili del nuovo Papa. «D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa / pe ttastà ssotto ar zito de le vojje / si er pontefisce sii Papa o Papessa» – scriveva Giuseppe Gioachino Belli, nella sua poesia “La papessa Ggiuvanna”). Pur trattandosi di una storia leggendaria, a essa hanno dato credito letterati come il Boccaccio (nel De mulieribus claris, 1362) e il Petrarca (nelle Vite dei pontefici e imperatori romani, 1370 ca.), oltre a numerosi storici e autori di cronache e, in fondo, fino alla Riforma protestante questa credenza non è stata efficacemente messa in dubbio.
Beatrice Schiaffino
Questo appassionato e appassionante monologo, interpretato da una ieratica e numinosa Beatrice Schiaffino, è curato nella regia da un’altra donna “pericolosa”, dal famelico istinto: Carmen di Marzo.
Carmen Di Marzo, regista dello spettacolo “La Papessa”
Il testo è di Andrea Balzola; le musiche originali di Alessandro Panattieri; i costumi di Loredana Redivo. Le fotografie di scena di Claudio Polvanesi.
Il poliedrico regista Andrea Baracco, sempre così interessato all’umanità che si nasconde dentro quei personaggi che sembrano meno predisposti ad accoglierla, è il curatore di questo interessantissimo progetto della Compagnia Mauri-Sturno “Interno Bernhard. Qui, lo spettatore, pur rischiando di essere fagocitato da insoliti esempi di umanità, coglie l’occasione di entrare a conoscere i loro “ambienti vitali”.
Andrea Baracco, il regista dello spettacolo “Interno Bernhard”
Nel primo dei due testi di Thomas Bernhard, immenso e irrinunciabile autore del Novecento non solo tedesco, ci troviamo al cospetto di un duplice paradosso umano: un intellettuale sceglie di ricevere in casa propria, rinunciando al plauso ufficiale, coloro che lo insigniranno della laurea honoris causa per aver scritto un Trattato su come poter salvare il mondo: eliminandone l’umanità.
Roberto Sturno e Stefania Micheli in una scena di “Interno Bernhard”
L’autore del Trattato (un efficacissimo Roberto Sturno), pur consapevole che l’insigne premio gli verrà conferito da chi in realtà non ha letto l’opera o non l’ha compresa (vista la paradossale soluzione proposta e teorizzata in essa) non rinuncia al piacere, e quindi a quella parvenza di calore, comunque insito nell’attesa di un’insolita cerimonia privata.
Per poi trasformarla in una pubblica denuncia della perdita di confidenza degli umani con gli elementi della natura. Nessuno “vive”: ci si limita a trovare bello “esistere”. Tirare avanti. Per questa tragicomica consapevolezza, “il riformatore” preferisce isolarsi nel suo microcosmo mentale, oltre che fisico: un asfittico e opprimente ambiente plumbeo, quasi una cappellina cimiteriale sul cui trono/sepolcro campeggia un uomo vivo e morto, profondamente sensibile e solitario. Dove non è più tollerata aria “nuova” ed è ritenuto avvilente dover sprecare di prima mattina la parola “fuori”.
Qui, anche il tempo sembra aver trovato una misurazione autonoma: sono scritte parietali dove lo spostarsi di un raggio di luce fa da lancetta digitale. “Il riformatore” del caos non vive-sepolto in solitaria: viene accudito da una donna, con la quale è in continua opposizione: quasi un’urgenza per poter accendere una qualche scintilla vitale. Per fare entrare calore: oltre che con i soliti pediluvi.
Perché tutto gli rovina lo stomaco: la cucina, la filosofia e la politica. È un’ossessione di assoluto quella che sovrasta l’ineluttabile imperfezione dell’esistenza, per Thomas Bernhard. E che tramuta la commedia in tragedia. E viceversa. Non resta, quindi, che concepire la vita come un acrobatico esercizio di resistenza artistica.
Roberto Sturno e Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Suonando “all’interno Minetti””, lo spettatore viene apparentemente accolto nella apparentemente calda hall di un hotel. Dove, Minetti (un trascendentale Glauco Mauri), ormai attore vecchio e disincantato, arriva in un 31 dicembre. Da trent’anni viaggia per teatri con la sua inseparabile valigia, dove custodisce la maschera di Re Lear. Anche nella hall di questo hotel, Minetti si confronterà con due giovani donne che ricordano in qualche modo le due figlie di Re Lear.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Ma in verità la hall è (anche) il foyer di un teatro dove Minetti attende di essere convocato, anche questa sera del 31, per andare in scena con il suo personaggio. Il direttore del teatro non arriverà ma l’occasione dell’attesa sarà colmata da un racconto ammaliato e ammaliante sull’arte dell’attore. Una sorta di insolita lectio magistralis, dove “l’interno” fisico lascia penetrare quello mentale in un gioco di scambi, dove i personaggi del teatro osmoticamente passano nel foyer/hall e gli ospiti dell’hotel penetrano sul palco. Perché questa è l’arte di vivere: un’arte mai disgiunta dalla paura. Dove si va sempre cauti nella direzione opposta alla meta.
“Siamo venuti per niente, perché per niente si va -direbbe De Gregori- e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, che ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”. Lo spettatore pretende di essere divertito e l’attore è tentato di assecondarlo. E invece no: va turbato. L’attore è inquietudine. L’attore deve terrificare.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
E intanto il direttore del teatro non arriva. Ma “più aspetti, più diventi bello” – dice Minetti. Qualcosa accadrà. Qualcosa di terrificante ma indubbiamente necessario. Che collega spettacolarmente e narrativamente le due facce (“Il riformatore del mondo” e “Minetti”) dello stesso “interno”.
Andrea Baracco, Glauco Mauri e Roberto Sturno
“Il direttore del teatro” arriverà: agli applausi. Lunghissimi. E, così come gli attori, sembra dirci: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi…”.
Arriva con la pioggia: lei stessa si fa pioggia. Una melodia al pianoforte ne riproduce il ritmo e il peso. La vediamo scendere dietro una finestra illuminata e poi entrare in sala, catturata dal mistero di una tela bianca. La fissa, poi prende in mano il pennello. E, liberando le emozioni che la invadono, le traduce in canto: sarà la voce a guidare la mano, dal tratto davvero molto interessante.
Rosanna Fedele interpreta una Frida Kalho (i testi infuocati dello spettacolo sono tratti dal libro di Pino Cacucci “Viva la vida!“) quotidiana nella sua eccezionalità, vestita in tuta sportiva, a sottolineare ancor più che “Siamo tutte Frida”. Può capitare a chiunque di vivere un amore che è “un lento avvelenamento” e tardare ad allontanarsene, perché è insieme “arsura e pioggia”. E poi disprezzarsi per come ci si è lasciate martoriare.
Attraverso un uso ammaliantemente icastico della voce, che Rosanna Fedele modula in simbiotico accordo al corpo e allo sguardo, la sua Frida inizia a confidarci il primo incontro con la morte, efficacemente riprodotta dall’inventiva di Alessandro Baronio. Accetta di “danzare” con lei quel giorno dell’incidente in autobus: ne esce in brandelli e il suo corpo risulta “un rompicapo per chirurghi senza fretta”. Le dicono che non si sarebbe più alzata da quel letto. E invece lei riprende a camminare.
Ma non fu un miracolo: solo un diverso passo di danza con la Morte che, poco dopo, riprendendo lei a guidare la danza, le sottrae tutti e quattro i figli. Un dolore immenso, il più grande. Ora, rivivendolo, cerca di incanalarne la potenza dilaniante nel disegnarne i loro quattro ritratti. Immaginandoli, non avendoli mai conosciuti. Ma non è sufficiente: il dolore sfugge agli argini. E allora li canta (i testi delle canzoni sono di Rosanna Fedele, musicati da Paolo Bernardi).
Ritorna poi al suo Diego, al loro primo incontro mentre lui dipinge “eterni murales” e lei gli propone di visionare “senza inutili complimenti” i suoi dipinti. Ma qualcosa torna ad eccedere in Rosanna/Frida: un dolce e straziante ricordo la spinge a lasciare un segno dell’amore che la pervade sul murales di scena. Ma è inutile: è troppo invadente e lei non oppone più resistenza.
Si lega allora a lui, anche fisicamente grazie al guizzo registico di Andrés Rafael Zabala, e si fonde al mascherone di Diego Rivera, creato per l’occasione sempre da Alessandro Baronio. L’elefante e la colomba: così scrivono i giornali il giorno successivo al loro matrimonio. Ma lei non ha dubbi: è la sua personale rivoluzione. È la sua ossessione: “Diego nelle mie urine; nella punta della matita; nell’immaginazione; nella malattia…”. Un legame che “stringe” fino alla lacrime: “io ho avuto tutto, malgrado me”. Torna a rifugiarsi nel canto ma la sua è ora una preghiera, un’invocazione disperata: “ma che diritto ho io di volerti diverso!”. La stanchezza la invade: non sente più la forza di attaccarsi alla vita come una sanguisuga. Si scioglie. In pioggia.
Uno spettacolo incantevole in un luogo incantevole: per non dimenticare Frida Kahlo. Per non dimenticare le donne.
Lo spettacolo è fruibile anche sulla piattaforma a pagamento CHILI TV
I PROTAGONISTI
Rosanna Fedele
Una vita all’insegna dell’eclettismo. Disegnatrice, stilista, pittrice, cantante e attrice. Si dedica con successo al doppiaggio e alla recitazione. E’ protagonista di diversi cortometraggi e pubblicità e nel 2015 è protagonista del film “A Dark Rome” di A. R. Zabala che ottiene riconoscimenti e premi a livello internazionale (MFF di New York, Marbella International Film Festival per citarne alcuni). L’amore per la musica e il canto restano una costante sin dall’infanzia. Il trasporto, in gioventù, per i film “musicali” si tramuta in passione per il jazz. Nel 2010 si dedica alla realizzazione del suo primo album “What is it For?”, titolo del brano originale contenuto nel disco distribuito dalla Philology Records per la Revelation Series. Il desiderio di espressione personale si fa sempre più forte. “Sogni Diversi”, un album in uscita a dicembre 2015, in collaborazione con il Paolo Bernardi Quartet, è il risultato di questo percorso nel quale la cantautrice mette in musica i propri sentimenti, dove le sonorità jazz sono di sostegno alla complessità e alla bellezza della lingua italiana: un omaggio alle proprie radici, alla propria terra.
Il pianista Paolo Bernardi
Nato a Roma, ha compiuto studi musicali classici, diplomandosi in pianoforte presso il conservatorio “Respighi” di Latina; successivamente, ha affrontato lo studio della musica jazz sotto la guida di validi maestri, quali Cinzia Gizzi, Riccardo Biseo, Rita Marcotulli e della composizione con Luigi Verdi, Alfredo Santoloci e Javier Girotto. Si diploma in Musica Jazz e successivamente consegue la laurea di II livello in Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, sotto la guida del M. Paolo Damiani col massimo dei voti e la lode. Ha, all’attivo, numerose registrazioni pubblicate da DODICILUNE, PHILOLOGY, ISMA RECORDS,SINFONICA JAZZ–NUOVA CARISH,SIFARE,collana L’ESPRESSOREPUBBLICA con un progetto di Massimo Nunzi. Nel 2008 nasce il PAOLO BERNARDI QUARTET. Con tale formazione si esibisce in prestigiosi locali romani e in rassegne nazionali significative, ottenendo un consistente riscontro positivo di critica. Laureato, con lode, presso l’università “La Sapienza” di Roma in Lettere moderne con indirizzo musicale, è giornalista pubblicista freelance.
Lo scenografo Alessandro Baronio
Alessandro Baronio, artista romano, umanista, animalista, sognatore, emozionato, “viaggiatore di sogni deragliati”, Alessandro Baronio è stato scenografo teatrale e ha lavorato per Xfactor, per Elisa nel suo tour, per Marco Mengoni, Nina Zilli, Anna Oxa, Angela Finocchiaro solo per citarne alcuni. E’ designer, ceramista, fotografo, restauratore e si occupa, tra le altre cose, di laboratori didattici con materiali di recupero per ragazzi delle scuole. Attento alla forma, attento al valore artistico del progetto cerca di coniugare sempre qualità e sostenibilità.
Il regista Andrés Rafael Zabala
Andrés Rafael Zabala, nato in Argentina e cresciuto fra l’Austria e l’Italia, è laureato in Cinema e Tv e diplomato operatore di ripresa. Nella sua carriera ha curato la regia di spot pubblicitari, video aziendali, documentari,e reality show per Canale 5, RAI 2, Studio Universal, Tele+ e Sky. In qualità di filmmaker, ha all’attivo nove cortometraggi che si sono aggiudicati importanti riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio indipendente “A Dark Rome”, oltre ad essere stato selezionato in dieci festival nazionali e internazionali, ha vinto il premio “Best Thriller on 2015” al Macabre Faire Film Festival di New York. Andrés Rafael Zabala svolge da alcuni anni, parallelamente alla sua attività di regista, l’attività di docente di Regia e Cinematografia. Nel 2020 è uscito il suo libro “Registi disobbedienti – La cinematografia di ieri e di oggi oltre le regole”. (Edizioni Efesto – 2020). Dopo la “La prima notte” scritta e diretta da lui stesso, “Siamo tutte Frida” è la sua seconda regia teatrale. L’ultimo lavoro cinematografico “Malleus” sarà presentato a Febbraio 2023 al Festival di Londra.
Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?
Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più frettolosamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresentarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.
Leonardo Lidi
August Strindberg
Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore.
All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.
Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che soltanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.
Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.
Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.
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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico delGinesio Fest.
TEATRO INDIA, 17 giugno ore 21.00 – 19 giugno ore 15.00 (maratona) – 20 giugno ore 21.00 –
“La locandiera” del regista Antonio Latella (Premio Ubu nel 2001 e Premio Gassman nel 2004) è un inno a ciò che di diverso, di “straniero” e quindi di unico brilla in ciascun personaggio. “Fra voi e me vi è qualche differenza”: così l’incipit allo spettacolo. Per esaltare ciò al massimo grado, Latella veste tutti i personaggi in maniera identica. Come dentro una divisa che li uniforma tutti: giacca nera, sotto-giacca nero, bermuda nero e calze nere che svettano, con più o meno audacia, da scarpe scure. Tutti: uomini e donne; servi e padroni.
Tutti si originano dalla stessa “forma”, dando vita però, ciascuno, a qualcosa di meravigliosamente diverso. È un “muro” di legno quello che delimita il proscenio. Forse, la porta della locanda. Al suo interno ospita due aperture, due “buchi della serratura”: quelli delle sagome vettoriali di un uomo e di una donna.
Da qui i personaggi si affacciano, sostano, si incastrano. Solo quando trovano il giusto impeto, sbucano, sfondano, oltrepassano “la forma”, rompono lo stampo che li unifica. Aprono. Si aprono. E quale migliore modalità di differenziazione esiste se non quella che si esprime nel sedurre, nel corteggiare?
Latella sceglie di mettere in scena allora una presentazione collettiva dei pretendenti della locandiera: come in una “giostra”, in una parata. Dove però tutti hanno già il loro “fazzoletto”: sarà la dama a scegliere se e da chi accettarlo. La locandiera: lei che “incatena, parla bene ed è di ottimo gusto”. Lei che “ha qualcosa di più delle altre: unisce gentilezza e decoro come nessuna mai”.
Il corteggiamento, la giostra, è fatta prevalentemente di parole. Ma se è vero che “il punto g” è nelle orecchie, è vero anche che la locandiera è una donna concreta: “mi piace l’arrosto. Del fumo non so che farmene … mio piacere è vedermi servita e vagheggiata”. Soprattutto “vagheggiata”: inseguita irresistibilmente nella sua volubilità.
Il suo gioco infatti sarà, almeno finché le sarà concesso, quello di scegliere di non scegliere. Quale piacere più grande si può ricavare, se non seducendo per farsi sedurre dal più scontroso e misogino degli ospiti della locanda? E poi lasciarlo andare. Rischiando. Ma non fino in fondo. Obbedendo, e forse lasciandosi schiacciare, dal consiglio paterno di sposare Fabrizio. Un’eredità, una “forma”, dalla quale la locandiera non riesce a plasmare qualcosa di diverso e quindi unico. Solo suo.
I giovani attori incantano lo spettatore dando prova di sapersi misurare in un originale uso dell’eredità dei frizzi e dei lazzi della commedia dell’arte. Sapendo punteggiare il mare di parole con accattivanti pause e dardeggianti sguardi. Delizioso contrappunto quello messo in scena dalle due commedianti Ortensia e Dejanira: nuove, fresche e conturbanti baccanti.
Qualcuno ci sta spiando, laggiù in fondo al palco. Oltre il palco. La scena è senza argini: si dà senza pudore. Il sipario c’è ma ha perso la sua funzione: ne resta solo una parte ed è relegato verso la metà del palco, raccolto solo sul lato sinistro. Il suo rosso acceso è l’unica nota di colore in uno spazio indefinito.
Anche le luci sono dislocate: lasciano l’alto e s’incarnano su due treppiedi che dominano la scena: loro i primi personaggi che si palesano. Il flusso luminoso non è libero, a differenza dello spazio in cui sono immerse. È contenuto, delimitato e indirizzato verso la destra del proscenio, verso qualcuno o qualcosa che deve arrivare E poi c’è sempre quella donna laggiù, in fondo, oltre il fondale.
Ci osserva, uno ad uno, mentre prendiamo posto in sala. Ci legge. Sembra saperne più di noi. È una presenza imbarazzante. Ma ad un certo punto non resiste. E avanza verso di noi: scalza, dal crine sciolto, indossando (ancora) un costume d’epoca. Arriva fino in proscenio: ci guarda tutti, si spoglia del soprabito e lo stende a terra. Come a deporre le armi. Solo ora le luci si abbassano e si diffonde la prima Variazione Goldberg: “Aria”. La donna ci rivela che quello che stiamo condividendo con lei è un particolare momento del giorno: “l’ora che volge al crepuscolo”, quella in cui s’incontrano solo persone alle quali “manca qualcosa”. Come noi. Come colui che si sta avvicinando da fuori, rasentando il muro, dal quale con difficoltà e di malavoglia si stacca.
La donna si dichiara, con spavalda e seducente umiltà, come colei che possiede la capacità di soddisfare i desideri altrui. Ma anche lei può e vuole desiderare. E per farlo ha bisogno “che le sia chiesto” di soddisfare quel particolare desiderio. Questa è la sua “mancanza”, di cui è consapevole, e che anela fino ad esigere di soddisfare. Come “la sporgenza cerca l’incavo”. In una geometria di prossemici avvicinamenti e fughe, sui quali sono costruite le stesse Variazioni Goldberg, qui interpretate da Glenn Gould.
Una geometria che non rifugge l’ampio spettro delle emozioni, anzi le esalta, le scova, toccandone ogni possibilità espressiva. Ma occorre saper modulare “le altezze” dalle quali si guarda. Lei attacca, dall’alto della sua consapevolezza, sfoderando tutte le sue arti di seduttiva venditrice. Ma lui le resiste. Sebbene riconosca che lo sguardo di lei “potrebbe far venire a galla il fango”, si trincera dietro i canoni dell’omologazione. Ora, però, è avvenuto questo incontro e nulla è più come prima.
Nonostante ciò, resiste alla forte spinta eversiva: si posiziona più in alto e si gloria di “saper dire no”. E lei, di “conoscere tutti i sì”. Ovviamente non succede nulla e la venditrice retrocede all’indietro, di spalle, senza voler riconoscere e offrire la propria vulnerabilità. Torna a quel che resta del suo sipario e da lì ricava nuova energia per risorgere dalle due ceneri, come solo la fenice sa fare. E così farà più volte, per tutti i “no” che lui le dirà.
Fino a che non inizierà a guardarlo da “una nuova altezza” concedendogli di non guardarla, di immaginare “di chiederle” di esaudire il suo desiderio nella solitudine tipica di un campo di cotone. Ancora un “no”: lei è troppo “strana”. “Laddove mi aspetterei pugni, arrivano carezze”- si difende lui. Ma la donna sa aspettare e sa che ognuno ha i suoi tempi per riconoscere dignità ai propri desideri. E solo quando lei, iniziando a scendere dal suo piedistallo, si confesserà “povera” per il bisogno che la abita costantemente, anche lui allenterà le redini.
Troveranno un piano comune sul quale incontrarsi senza difese, dove riuscire a scambiarsi la propria pelle, quella più sospettosa. Perché il desiderio ci vuole disarmati, poveri, aperti. E i proiettori che prima erano indirizzati solo sull’ “altro”, con fare inquisitorio, ora la donna li indirizza verso il sipario: il luogo del “noi”, che ci vede tutti inclini ad abbassarci fino al più profondo degli inchini. Per poterci, poi, librare alti come aquile. E poi di nuovo anelanti del “basso”: condizione indispensabile per poter spiccare davvero nuovi e intrepidi voli. Altissimi.
Magnifica, la scelta del regista Andrea De Rosa di affidare ad una donna la parte del “venditore”. I sospetti verso chi è interessato a creare o scoprire bisogni in noi sono amplificati esponenzialmente da ciò che risulta più difficilmente traducibile: la natura femminile. Lo straniero più straniero. La più ricca di variazioni. Ma anche nell’uomo abita una donna difficile da tradurre (anche per una donna).
Federica Rosellini e Lino Musella ne sono stati enigmatici ed illuminanti interpreti. Uno spettacolo sulla potenza vitale dell’incontro. Perché ciò che dà sapore alla vita è il carattere rivoluzionario di certi incontri. Come il teatro ci insegna da sempre.