Come tu mi vuoi

TEATRO QUIRINO, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Elma ! Lucia ! Lucia ! Elma ! Elma ! Lucia !

Nomi, ossessivamente, risuonano sulla scena. Quale migliore inizio poteva immaginare il regista Luca De Fusco per affrontare questo testo così meravigliosamente ostico di Luigi Pirandello ?

Luca De Fusco, regista dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

I nomi propri, infatti, sono il miglior veicolo per affrontare il tema, così caro a Pirandello, delle molteplici identità che ci abitano. Perché pur definendosi “propri” i nostri nomi sono sempre decisi dagli altri. E soprattutto sono carichi delle “loro” aspettative. Il nostro nome proprio non è nostro, sfugge al nostro potere, alla nostra volontà. È un po’ come essere dei copioni scritti da altri.

Lucia Lavia (Elma) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

La protagonista di questo dramma, invece, un nome osa darselo autonomamente: Ignota. Più che un nome è una condizione, di cui è consapevole. Questa la sua vera identità: essere sconosciuta a se stessa e agli altri. Alcuni la chiamano Elma, altri Lucia. Da qui il senso del titolo: sono come tu mi vuoi. “Fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi ! “.

Lucia Lavia (Lucia Pieri) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

Non si sa quindi quale sia la vera identità della donna al centro della trama: è Elma, una lasciva ballerina da locali notturni, oppure Lucia Pieri, moglie borghese scomparsa nel nulla e ricercata dal marito Bruno? Intorno al dilemma ruotano i dialoghi della pièce, che approda a un amaro finale.

Lo smemorato di Collegno

Questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano, può aver tratto ispirazione da un celebre fatto di cronaca, avvenuto in Italia alla fine degli anni ’20, quattro anni prima della stesura di questo testo: il caso giudiziario dello «smemorato di Collegno», ovvero l’ambigua questione dell’identità di un uomo, ricoverato nel manicomio di Collegno, che una famiglia rivendicava con il nome di Giulio Canella e un’altra con quello di Mario Bruneri. Pirandello però negò sempre che “Come tu mi vuoi” avesse preso spunto da quel rebus: amava sottolineare provocatoriamente che piuttosto è stata la cronaca a copiare il suo precedente lavoro “Così è (se vi pare)”, che si conclude con l’iconica frase della signora Frola: «io son colei che mi si crede».

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Un tasso di innovazione drammaturgica molto elevato porta il regista Luca De Fusco a inglobare una molteplicità di contributi nel linguaggio spurio e multi-sistemico del teatro . Questa la sua cifra stilistica perché questa per lui è la forza del Teatro. È il suo un teatro alla Robert Wilson, dove confluiscono fortemente influenze cinematografiche e dove protagonista indiscussa è la luce.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

In questo spettacolo, nello specifico, De Fusco sceglie di dare una lettura dei personaggi non caricaturale ma “esistenzialista”. Complici i preziosi contributi della nota scenografa Marta Crisolini Malatesta e del maestro della luce Gigi Saccomandi. Una tale appassionata sinergia dà vita ad una messa in scena portentosa, dove un telo “vela” la quarta parete per aprirla ad uno sguardo più intimo e conturbante: quello dei pensieri e delle emozioni più inconfessabili. Spudoratamente sezionati e ossessivamente replicati sulla “retina” dei nostri occhi.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

E moltiplicati serialmente da una scenografia di specchi, che come un ipnotico ventaglio ci allontana, in realtà avvicinandoci, le molteplici identità dei protagonisti. Scorre nello spettatore il ricordo della scenografia utilizzata nel 1948 da Orson Welles per “La signora di Shanghai”, così come la trasformazione dell’Ignota defuschiana in una dark lady, alla maniera in cui Welles volle trasformare Rita Hayworth. E ancora, il messaggio intrinseco del film, così vicino a questo testo pirandelliano: squali che divorano se stessi in un cupo mondo coinvolto in inesplicabili complotti. Un universo di inganni dominato dall’ambiguità delle persone e dei sentimenti.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Il ruolo di prima attrice di questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano viene affidato dal regista De Fusco a una delle stelle nascenti del panorama attoriale italiano: la giovane Lucia Lavia. Conosciuta per l’indefessa determinazione e per l’appassionato impegno, Lucia Lavia dimostra di continuare ad affinare le proprie capacità artistiche e la sua intelligenza teatrale, spaziando tra codici recitativi e drammaturgici differenti. La sua interpretazione risulta profondamente intensa: graffiante e insospettabilmente tenera; erotica e struggentemente malinconica. Una Femme fatale venata dalla tragicità di un Pierrot. La sua capacità di restituire una ricchezza di sfumature così umanamente eccessive, emoziona e commuove.

Lucia Lavia

Suoi affiatati compagni di scena si rivelano Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.

Leggi l’intervista rilasciata al Corriere della Sera

Leggi l’intervista rilasciata a Repubblica

Il contenuto non corrisponde al titolo

TEATRO MARCONI, 12 Gennaio 2023

Gremiti gli spazi del Teatro Marconi per trattenere ed accogliere l’attesa dell’inizio della Festa del Pensiero. Apre la serata happening, un trio del Pensiero “in musica”: arte che dona la possibilità di trasformare la semplice aria in qualcosa che trasporta gli animi ben oltre i sensi. Ad accompagnare il cantautore Luigi Turinese (che presenterà il suo nuovo album “Passaggi – Il volo di Mangialardi” al Teatro Garbatella, sabato 21 gennaio alle ore 21:00) la chitarra di Adriano Piccioni e la ritmica di Piero Tozzi.

Il cantautore Luigi Torinese in un momento della Festa del Pensiero

In un raffinato gioco di affinità elettive, il pensiero in musica ha attratto (per poi di volta in volta momentaneamente sottrarsi) gli interventi del trio del pensiero critico, tesi a presentare in maniera sui generis l’ultimo libro di Giuseppe Manfridi ‘Il contenuto non corrisponde al titolo”.

Giuseppe Manfredi, autore del libro “Il contenuto non corrisponde al titolo”

L’ autore, uno dei massimi drammaturghi italiani e autore di commedie rappresentate in tutto il mondo, sceglie che a presenziare il “debutto” della sua ultima creazione letteraria sia lo sguardo dalla coinvolgente sapienza, densa di sfuggevolezza, dello storico d’arte Claudio Strinati (anche autore della prefazione del libro),

Claudio Strinati

alchemicamente coniugato allo sguardo dall’effervescente “libridinosità” dell’autore Dario Pisano.

Dario Pisano

Quest’insolita “preparazione chimica” di pensieri ha dato vita ad una serata squisitamente spiazzante; divertente e fertile di stimolanti riflessioni. Si è parlato, tra l’altro, di come l’oscillazione tra il pieno e il vuoto sia il contenuto del libro (ma non del titolo); del fatto che chi scrive lo fa essenzialmente per leggersi. E che si legge sperando di rimanere affascinati da ciò che non si capisce.

Costante la concentrazione del pubblico, che ha seguito sempre con molto interesse e partecipazione. Il libro “Il contenuto non corrisponde al titolo” raccoglie un mosaico di aforismi, brevi elzeviri, poesie e brani a tema, che alludono al paradosso secondo il quale raramente diciamo cose che davvero intendiamo dire. “Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cambiarle”, direbbe Pirandello. E nel parlare di rapporti di coppia, di linguaggio e di dinamiche creative, il libro si pone come un invito a sviluppare e ad allenare continuamente “la capacità di osservare”. Questa sì, d’aiuto per la comprensione del mondo.

La serata, ricca in fascino, si è conclusa nel cordiale Bistrot del Teatro Marconi, dove l’autore e i suoi “attori” si sono mescolati al pubblico, ancora desideroso di approfondimenti e curiosi aneddoti. 

Cenerentola remix

TEATRO INDIA, Dal 22 novembre al 4 dicembre 2022 –

È una Cenerentola che strizza l’occhio a Pirandello e a Shakespeare quella della rilettura che ieri sera Fabio Cherstich, talento teatrale e operistico (classe 1984), ha mandato in scena in prima nazionale al Teatro India.

Fabio Cherstich

Nel prologo si avverte lo spettatore di come le parole possano essere pericolosamente utili, continuamente attraversate come sono da umani fraintendimenti. Sembra quasi di sentir parlare il Padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello: “abbiamo tutti dentro un mondo di cose…crediamo di intenderci ma non ci intendiamo mai !”.

La Cenerentola di Cherstich (una tenera e ostinata Annalisa Limardi) è un’adolescente di oggi, che sceglie di cedere la magia del personaggio disneyano per calarsi in un una realtà disincantata. Ma qui le succede di “fraintendere” le parole che sua madre le lascia in eredità, poco prima di morire. Questo fraintendimento dall’amletico sapore del “dormire … morire” renderà l’assenza materna molto ingombrante fino a condurla verso una pericolosa ossessione che rischierà di privarla del diritto a vivere, sognare, desiderare.

Impronterà le sue giornate a obbligarsi di ricordare sua madre ogni cinque minuti, credendo così di evitare che muoia davvero. La postura mentale peggiorerà dopo qualche mese allorché Cenerentola si accorgerà di aver saltato uno dei suoi ossessivi rituali di commemorazione. A quel punto per espiare la colpa decide di sottoporsi docilmente ad sogni forma di sopruso operato su di lei da parte della Matrigna (una sfaccettatissima Giulia Sucapane) e delle due sorellastre (shakespearianamente interpretate da uomini: due briosissimi Giuseppe Benvegna e Alessandro Pizzuto).

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

A ridestarla dalla sua vocazione allo sterile sacrificio, sarà una fata avanguardista (una super smart Evelina Rosselli) che Cherstich priva di immagine facendola palesare epifanicamente solo come “voce” insediata negli elettrodomestici, unici “interlocutori” quotidiani di Cenerentola. Sarà proprio questa voce fatata, dall’accento spiccatamente romanesco, a solleticare Cenerentola all’insolito piacere dell’attesa e al delizioso dolore del “friccichio de core”.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

E così accadrà: Cenerentola andrà al ballo ma sarà lei ad attirare le attenzioni del Principe, nel quale si rifletterà come in uno specchio. Lui è un adolescente timidissimo e impacciato che, come lei, vive un problematico rapporto materno. Sarà lui a scappare dal ballo per correre verso un improbabile appuntamento telefonico con una madre irraggiungibile. Vorrebbe tanto regalare a Cenerentola qualcosa ma non venendogli nulla in mente finirà per regalarle una sua scarpa. Lei apprezzerà molto l’insolito dono ma, ormai inserita in un progressivo processo di crescita e di emancipazione, si sentirà libera di non sposarlo ma di amarlo come amico.

Uno spettacolo deliziosamente profondo. Estroso e vero. Adatto ad un pubblico nuovo ed eterogeneo. Momento di condivisione culturale e forma di intrattenimento intelligente.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

Interessante l’uso dello spazio scenico; ancor più la gestione delle luci: quasi tutto avviene a vista, anche a sottolineare il bisogno tutto umano di “controllare” il naturale fluire delle cose. Tutti gli attori si calano con geniale disincanto in questa realtà scevra da “zuccherosa’” magia. Giocosamente raffinate sono le musiche del M° Pasquale Catalano. Efficace la scelta di far entrare nella rappresentazione il padre di Cenerentola (assente nella fiaba originale) che, quasi come sua figlia, diventa un servitore della casa. Ad interpretarlo è l’espressivo Julien Lambert.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

La sua presenza è anche un riferimento all’evaporazione dell’attuale figura del padre, in realtà invece custode dell’applicazione della “legge” che permette il generarsi di un salutare desiderio di crescita nel figlio. Perché Cenerentola soffre non solo del lutto della mamma ma anche quello dell’inesistenza di un riferimento paterno. Così come il Principe: il cui padre, il re, ha come unica preoccupazione quella di organizzare feste.

Merito di questo spettacolo è quello di saper veicolare con calviniana leggerezza temi fondamentali della vita ai quali l’arte, e quindi il teatro, ha la capacità di avvicinarci. Promuovendo “un incontro” capace di sovvertire il nostro rapporto abituale con la realtà.

Il berretto a sonagli

TEATRO QUIRINO, Dall’8 al 20 Novembre 2022 –

Perché scegliere di apparire per nascondersi, finendo per diventare invisibili e quindi annientarsi ? Ma perché così fan tutti: “pupi siamo! Pupo io, pupo lei, pupi tutti…ogni pupo vuole portato il suo rispetto non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori”. E si sa: solo se ci adeguiamo immolandoci allo sguardo degli altri, si viene accettati.

Una rara edizione del 1925 de “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello

Non è un sipario ma una “soglia”, quella tenda grigia che pare continuare fino a ricoprire tutto il proscenio. Il grigio è il colore del punto di vista: muta di significato a seconda di come lo guardiamo, proprio perché si presta ad essere un punto di sosta e di valutazione del mondo circostante. Perfetto per mandare in scena la poetica pirandelliana.

Buio: la tenda s’illumina di ombre. E noi del pubblico possiamo “spiare” cosa succede dietro questo apparente confine. Sono persone che corrono, che si affannano vorticosamente, come fantocci e poi se ne vanno: solo una donna resta ancora lì dentro. Sola. Sembra persa in un limbo tutto suo. Ma poi anche lei se ne va. “Cosa sarà successo?!?” -ci chiediamo noi del pubblico. “E poi?”.

Sono attimi in cui la curiosa morbosità di entrare e invadere la vita degli altri si fa insistente. E ci fa sollevare la tenda, questa “soglia” che per civiltà deve essere flebile e quindi oltrepassabile. Ci si rivela così un’invasione di spazi, interni ed esterni. Una subdola promiscuità: apparentemente elegante ma decadente (le scene sono di Alessandro Camera). Sulla destra notiamo un’altra tenda grigia: un’altra “soglia” e una scala che qualcuno, un fantoccio, ha usato per salire e arrivare a spiare in cima alla tenda. Da fuori, oltrepassando anche questa soglia. Ma non è il solo: altri stanno “spiando” ciò che accade in questo interno. Siamo sempre noi del pubblico che, senza la complicità della tenda frontale, per poter vedere senza essere visti ci siamo spostati dietro e di lato alla scena.

È la storia di un tradimento scoperto ma che la tradita vuole denunciare, contrariamente alle “convenzioni civili” che pretendono che chiuda gli occhi e non veda. Cosicché neanche gli altri vedano. 

La regia di Gabriele Lavia, ricca in acume, ci conduce con felpata eleganza (complice lo stesso palco drappeggiato da un’altra “soglia”) nei meandri di questa ipocrita geografia umana. Accarnandosi poi in un personaggio chiave, Lavia è anche un magnifico Ciampa, l’altro tradito che, da attento utilizzatore della “corda civile”, farà di tutto per evitare di indossare quel berretto a sonagli che “civilmente” la società fa calzare a chi ha perso la propria dignità risultando “un becco”, un cornuto.

Il disegno luci e le musiche seducentemente ossessive (sono del celebre compositore Antonio Di Pofi) enfatizzano quell’inclinazione sociale perbenista, che voluttuosamente s’infila serpeggiando in ogni fessura del privato. Sono inclini al “voyeurismo” anche i proiettori, qui diventati lampioni curiosi d’illuminare le vicende che avvengono in questo interno: uno squilibrato, ma apparentemente elegante, salotto di velluto rosso. Il canapè, avendo perso un sostegno, declina verso terra e così le poltrone, laddove non sono rovesciate.

Un macrocosmo che si riflette nel microcosmo della padrona di casa: Beatrice Fioríca, la moglie tradita del Cavaliere (una fascinosa Federica di Martino, ricca di evanescente plasticità). Anche lei, come il mobilio, subisce la forza di gravità delle apparenze civili. Con sgangherata eleganza si lascia cadere sul canapè e vi si spalma come fango. Finché un guizzo nervoso non la ridesta e repentinamente, come un felino, si rialza per reagire. Almeno finché la forza di gravità civile non la vince di nuovo.

Ad informarla della relazione extraconiugale del marito è la Saracena, l’accattivante androgina Matilde Piana, che Lavia fascia in un elegante tailleur da viaggio, capo d’abbigliamento maschile declinato sulla donna proprio in quegli anni che aprono il Novecento (i costumi sono ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume &Moda). A compensare l’effetto eversivo e “incivile” della Saracena su Beatrice, c’è Fana ( una Maribella Piana di grande potenza espressiva) la vecchia serva di Beatrice, devota custode dei vizi della società. Il segreto, dice, è quello di cucirsi la bocca e di offrirli a Dio.

Ma non basta: pur attraversata dagli alti e bassi delle sue spinte emotive, Beatrice va avanti nel suo progetto di denuncia. E né la leggerezza dei passi di danza in cui la ingloba suo fratello Fifí ( un Francesco Bonomo deliziosamente elegante nella sua superficialità); né l’esibizione del modello di “donna civile” che Ciampa porta forzatamente al cospetto di Beatrice (sua moglie Nina, una sensuale Beatrice Ceccherini, dark lady dagli occhi bassi) , riusciranno a placarla.

E il delegato Spanò (un Mario Pietramala ieratico e intrigante certificatore di ridicole verità) arriva in casa per raccogliere la denuncia. La notizia giunge anche alle orecchie della madre di Beatrice (una Giovanna Guida disperatamente compassata) ma, anziché pentirsi e fare un passo indietro, Beatrice va avanti. Finché non sarà proprio un perverso guizzo dello scrivano Ciampa a capovolgere la situazione (un maliardo Gabriele Lavia che riesce a struggere lo spettatore nonostante la subdola e paradossale precarietà decadente del personaggio) . 

Con “Il berretto a sonagli”, il più amaro dei testi di Pirandello, Gabriele Lavia realizza qualcosa di speciale: “che induce”. Perché ci si conosce, grazie al vedersi rappresentati in scena.

La prima de “Il berretto a sonagli” al Teatro Quirino di Roma


Qui l’intervista a Gabriele Lavia su “Il berretto a sonagli” e non solo.


Lo scrittojo di Pirandello

TEATRO INDIA, dal 13 al 22 Ottobre 2022 –

Tutto nasce dal caos. Tutto è un continuo flusso in divenire. Come quello del mare che “fino ai piedi vieni con un sommesso fragorío a stendermi le spume, mansueto. Come un mercante di merletti… Bravo! Uno ne stendi, e tosto lo ritrai, ed ecco un altro, e un altro ancora… Scempio fai cosí della tua grandezza, ignavo?” (Guardando il mare, dalla raccolta “Fuori di chiave”, 1905 ). Così prende avvio il multiforme spettacolo scritto (assieme a Roberto Scarpetti), pensato e diretto dall’estroso Roberto Gandini per la Piccola Compagnia del Laboratorio Integrato Piero Gabrielli, in scena al Teatro India fino al 22 ottobre p.v.

Immensi teli bianchi cangiano nel blu oltremare, accolgono il vento gonfiandosi e poi sinuosamente ondeggiano. Portano a riva il rumoreggiare di voci di misteriose creature: “Dove siamo? Che facciamo? Che imbarazzo! Quando arriva?” . L’onda s’infrange, si ritira; ed ecco scendere dal fondo della platea queste creature gettate sulla sabbia dalla furia del mare della vita. Ad accoglierle sul palco, modellato dalle onde in “terrazzamenti”, Pirandello e Fantasia. Sono quattro creature immerse ancora nel caos, anche fuori dall’acqua: litigano per prendere parte all’apertura dell’udienza domenicale, che Pirandello è solito concedere ai suoi “speciosissimi” personaggi nel suo studio.

Invadono così la scena, costituita da “terrazzamenti” praticabili che ospitano un palcoscenico multiplo, dove convivono più scene contemporaneamente. Un teatro che parla agli occhi e non solo alle orecchie (le scene sono del noto “ricercatore di combinazioni” Paolo Ferrari). Un teatro che permette il trasformarsi del mondo sul palcoscenico. E fuori da esso: Gandini, seguendo Pirandello, interpreta ‘visivamente’ sulla scena ciò che i testi letterari suscitano. E poi abolisce il concetto di quarta parete, coinvolgendo attivamente il pubblico alla vita agita dagli attori sulla scena, in una critica dinamica “a specchio”. E’ quello che si richiede alla neo-nata figura del “regista”.

L’austera ed efficace eleganza dei costumi è di Tiziano Juno, che sottolinea con le sue scelte anche l’elogio del tailleur da donna, che vede il suo nascere e diffondersi proprio in quegli anni. Gli attori danno prova che è possibile brillare di luce propria per fondersi in un “unicum” sinfonico di gesti, di parole e di intenso ascolto.

Roberto Baldassarri

Roberto Baldassarri è un Luigi Pirandello (molto attento anche alle posture dell’uomo Pirandello) che con elegante accoglienza include costruttivamente il pubblico nella rievocazione della vita sulla scena, andando oltre le emicranie provocategli da quell’eccesso di vitalità dei personaggi non ancora colti nella loro unicità e non ancora coordinati “registicamente”. È un Pirandello quello di Gandini che non esclude momenti di fragilità, come quando il proprio vissuto rischia di specchiarsi in quello della Figliastra dei Sei Personaggi in cerca d’autore.

Fabio Piperno

Fragilità brillantemente superata grazie al contributo del suo sagace “aiuto regista”, Fantasia, abitato dal cruccio di non potersi scegliere il proprio nome: destino che accomuna tutti i personaggi ma anche tutti gli esseri umani. Fabio Piperno si rivela dando prova di elegante duttilità anche come “alter ego” dell’autore Pirandello. Tra le due “maschere”, potente è l’ascolto.

Stesso cruccio sul nome ha il Dottor Fileno de La tragedia di un personaggio, il più ambizioso dei personaggi presenti all’udienza, insoddisfatto dell’ascolto ricevuto dal precedente autore che non ne ha saputo valorizzare la grandezza. L’ambizione del personaggio è poeticamente superata dalla splendida meraviglia che trabocca dallo sguardo dell’interprete (Edoardo Maria Lombardo) e dalla particolare metrica, incalzata da efficacissime micro pause.

Edoardo Maria Lombardo

Vitali pause, o meglio sarebbe dire “vitali evasioni uditive”, ha inaspettatamente scoperto di vivere il Ragionier Belluca de Il treno ha fischiato, impossibilitato a gestire diversamente l’opprimente e dolorosa esistenza quotidiana. Tanto alienante nella quotidianità quanto creativamente liberatoria all’udir l’allucinazione del fischio del treno. Dell’interprete (Danilo Turnaturi )non si può non apprezzare l’ottima espressività corporea, fatta di piccolissimi ma efficacissimi dettagli.

Danilo Turnaturi

Incontenibile e quindi non facilmente arginabile è anche il desiderio vitale, fatto di sospiri e spasmi, della Sig.ra Perella de L’uomo, la bestia e la virtù (reso con efficacia “acrobatica” da Francesca Astrei) che, laddove non riesce a trovare un contenimento nei gesti, al minimo solletico emotivo, sbuca fuori con veemenza in un potentissimo gorgoglio vocale, quasi un grammelot, dove la parola corre “molto molto” più velocemente del pensiero. Interessante registicamente anche la sua prossemica.

Francesca Astrei

Simile difficoltà trova Pirandello nel concedere uno “spazio di rispetto” alla storia, dai risvolti incestuosi, della Figliastra dei Sei personaggi in cerca d’autore, qui interpretata da Antonietta Bello, la cui inespressa voglia di tenerezza viene, in un’interessante analisi del personaggio, celata con notevolissimo fascino, in un’alterigia felina. Sempre suggerita. Mai sfacciata.

Antonietta Bello

Ma proprio quando il caos iniziale sembra prendere una forma, un qualche ordine, è lo stesso Pirandello a seminare dubbi. Anche tra il pubblico. E così, come si fa con i mandala, arriva il momento di dare spazio al nuovo, al mutevole ed incessante fluire.

I personaggi, come surfisti attendono l’onda in arrivo, per un attimo la cavalcano e poi si fondono ad essa. I teli blu oltremare tornano a gonfiarsi e ad inglobare tutto ciò che incontrano. È la straziante bellezza del mistero della vita.

Il regista Roberto Gandini e il suo gruppo di lavoro al completo

Il vero scrittoio di Pirandello è visitabile presso la dimora romana di Pirandello in via Antonio Bosio, 13 B.

Il Caso Tandoy

TEATRO QUIRINO, dall’11 al 16 Ottobre 2022 –

Nell’elegante e raffinato spazio del Teatro Quirino, ieri sera il sipario si è aperto per presentare al pubblico, attento ed esigente, una rievocazione meta teatrale del “caso Tandoy”, errore giudiziario degli anni ’60, tra i più macroscopici. Lo spettacolo è scritto e diretto da una delle più prestigiose firme della televisione italiana, Michele Guardì, che qui lasciandosi guidare da un afflato pirandelliano riesce a dare vita ad una commedia “civile” capace di suscitare nello spettatore sia quel fastidio che si declina fino alla rabbia più accesa, che inaspettati momenti di comica leggerezza.

Michele Guardì

Desiderio degli “autori”, l’uno demiurgo “dello” spettacolo (Guardì) e l’altro protagonista meta teatrale “nello” spettacolo (Gianluca Guidi) è quello di regalare una nuova e finalmente autentica immagine dei protagonisti coinvolti nella vicenda, “violentati” dagli errori della giustizia e dall’accanimento dei giornali di gossip. In risposta alla “perversione” con cui è stato condotto a suo tempo il caso di cronaca, sulla scena domina una recitazione “spudoratamente” frontale. I flashback storici sono affidati ad un sipario nel sipario, quasi campi lunghi dalla suggestione cinematografica.

Stilosa ed efficace la scenografia del rinomato Carlo De Marino che sagacemente, nel costruire quasi tutto il mobilio della scena con cataste di quotidiani (dalle cassettiere, agli armadi, fino all’appendiabiti), fa del mezzo di comunicazione del quotidiano l’unità di misura dell’ “analisi” che fu fatta, a suo tempo, del caso Tandoy. Mattatori della scena sono Gianluca Guidi (l’autore sul palco) e Giuseppe Manfridi (il procuratore incaricato delle indagini). Geniale, la scelta di affidare alla straordinaria peculiarità di questi due interpreti la conduzione delle fila della narrazione, che s’inebria del compenetrarsi dello stile melodioso di Gianluca Guidi alla metrica cantilenante e poi ossessiva fino al parossismo di Giuseppe Manfridi.

Gianluca Guidi – Giuseppe Manfridi

Carismatica la loro presenza scenica: fertilmente accogliente quella di Gianluca Guidi, autore che sollecitato dalla “fantasia” sente il bisogno “civile” di scrivere una commedia che restituisca autenticità alle persone coinvolte nel caso; efficacemente ostinata ed ottusa la presenza scenica del procuratore incaricato delle indagini Giuseppe Manfridi, bloccato sulla pista passionale, “fondata” sul continuo fiorire di lettere anonime e altri improbabili indizi. Atteggiamento maliziosamente condensato nel “corruscante” intercalare “cherchez la femme”. Insomma un binomio attoriale davvero ferace; integrato, con diverso entusiasmo, da un cast composto da: Noemi Esposito, Marcella Lattuca, Marco Landola, Antonio Rampino. Con la partecipazione di Gaetano Aronica, con Caterina Milicchio e con Roberto M. Iannone (nel ruolo di Tandoy).

Uno spettacolo che è un prezioso esempio di teatro civile, perché il Teatro anche questo è e deve essere: l’incontro e il confronto con gli avvenimenti che attraversano la nostra società e che non devono essere dimenticati. Né abbandonati a spiegazioni superficiali e tendenziose. Come avvenne per il “caso Tandoy”, presentato nella prima nota giornalistica come “un duplice omicidio che non trova precedenti negli annali della cronaca”. Ma non era vero. Nel 1960 altri due episodi resero Agrigento protagonista di eventi sconcertanti: il “convegno internazionale” promosso da un gruppo di intellettuali ( tra cui Jean-Paul Sartre, Leonardo Sciascia e Giorgio Napolitano) sulle condizioni igieniche da Terzo Mondo di Palma di Montechiaro e la dichiarazione di Indro Montanelli a “Le Figaro” sul gravoso obbligo “di accordare ai Siciliani la qualità di italiani”. Questo lo scenario in cui avvenne l’uccisione del Commissario Cataldo Tandoy: tra Terzo Mondo e sicilianità offesa. E questo spettacolo è un invito a ricordare e ad approfondire. Sempre.

L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

Sei personaggi in cerca d’autore

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”. Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro. Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima. A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico. Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia. Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.