Edificio 3 – Storia di un intento assurdo

TEATRO ARGENTINA, dal 16 al 21 Maggio 2023 –

Qual è il sinonimo di morire?

Cessare di vivere. 

E che cos’è vivere?

Un intento assurdo. Strano, così come definire l’uomo: niente di univoco.

E il ricordo?

Un atto collettivo.

Con paradossale musicalità, la malia della drammaturgia di Claudio Tolcachir, sottraendo alla narrazione ogni coordinata spazio-temporale, porta in scena un’umanità manchevole: dimenticata. Esiliata.

Claudio Tolcachir, autore e regista dello spettacolo “Edificio 3”

Un’umanità di “senza” , che fingono di essere “con” finché non si scopre che tutti sono “senza”: senza lavoro, senza madre, senza marito, senza casa, senza limiti, senza desiderio. A colmare (apparentemente) tutti questi “vergognosi” vuoti, uno spazio vitale iper pieno, iper ordinato, all’interno del quale ci si muove, per darsi un tono, a una vertiginosa velocità. Vertigine di cui risente anche la parola che diventa a tratti, così centrifugata, quasi un grammelot.

Una scena dello spettacolo “Edificio 3 ” di Claudio Tolcachir

Una reazione istintiva, quella di questa umanità, di fronte a ciò che sta succedendo intorno a loro: un vero disastro, un panorama a dir poco deprimente. E allora, non tentata dal cambiare contesto, quasi senza accorgersene questa piccola comunità sceglie di riunirsi col pretesto di lavorare ma in realtà senza sapere bene cosa stia facendo. Uno stringersi insieme, un restare attaccati, inventandosi ogni giorno un nuovo giorno. Un loro resistere. Un domani.

Valentina Picello

Tolcachir ci parla di uno di quei momenti di cambiamento che ciclicamente l’uomo si trova a vivere. Quelle fasi di passaggio in cui non si riesce a tenere del passato solo ciò che può essere ancora adattabile al nuovo scenario che si annuncia. Così ingombrati da scorie di passato, i personaggi in scena si vergognano per il loro non essere, ancora, come vorrebbero: adattati fertilmente al nuovo cambiamento che s’impone.

Giorgia Senesi

Nel mostrarceli in tutta la loro credibilità, il regista sa di provocare un effetto grottesco sul pubblico. E per noi, così abituati a nascondere i nostri disagi, vederli rappresentati nella loro autenticità ci fa sorridere: come fossero esagerati, fino al surrealismo. Ma l’effetto positivo, che il regista cerca e trova, è che il pubblico, provando tenerezza e compassione per quei cinque personaggi (nei quali ci viene così facile identificarci) inizia a provarla anche verso se stesso. Tolcachir sembra voler scoprire ciò che di teatrale c’è in ognuno di noi, in un approccio intimo. A tratti sentimentale.

Emanuele Turetta

Uno spettacolo seducentemente tragicomico. Così reale da sembrare surreale. E, in una prospettiva sospesa tra gioco e realtà, ci ritroviamo a commuoverci.

Rosario Lisma

Gli attori in scena Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi ed Emanuele Turetta sono così attenti, nella costruzione del loro personaggio, ai particolari anche più minuti, più accidentali, più imperfetti (ma proprio per questo più umani) da raggiungere livelli altissimi di credibilità. Sfiorando paradossalmente la poesia. 

Stella Piccioni

Un approccio, questo di Claudio Tolcachir, che diventa un’opportunità per riflettere su che ruolo può avere il teatro in tempi duri come questi. Su quanto lo spazio, le persone e le loro storie siano spunti interessanti per rivedere forme e linguaggi.  

Il tango delle capinere

TEATRO ARGENTINA, dal 2 al 14 Maggio 2023 –

Cosa tiene accese le stelle? Come si può continuare a restare in contatto con qualcuno che non c’è più ? “Evocandolo” – sembra sussurrarci questo fantasmagorico, eppur carnale, spettacolo di Emma Dante. Sì, evocandolo con il ricordo. Ma soprattutto con “la magia” della musica: quella di alcuni oggetti speciali.

Una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Ad esempio, quella del carillon, primo pegno d’amore di Lui a Lei. È questo piccolo ma dolcissimo motivo musicale ad avere il potere di infrangere le tenebre della sconfinata solitudine di Lei, oramai vedova. Accendendo ancora una volta, nel ricordo di Lei, quelle stelle che avevano fatto da sfondo al loro amore.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Ma Lei può contare anche sulla “terapeutica” musicalità del suono prodotto dalle caramelline contenute dentro quella confezione di plastica, che Lui aveva sempre con sé e che, da subito, costituirono il migliore “farmaco” alla tosse nervosa e asfissiante di Lei.

Perché comunicare non è mai facile: né con le parole, né con le emozioni. Ma attraverso la musica, invece, tutto “arriva”. La musica scioglie il corpo. E i gesti parlano. E ciò che la tosse nervosa di lei “serrava”, la musicalità del gesto così pieno di cura delle caramelline offerte da Lui, riusciva a “liberare”. Una bizzarra serie di gesti fisiologici, infatti, “traduce” l’emozione di lei in un codice fluido, “scritto” su un altro oggetto. Intimissimo. Diversamente erotico. 

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

E poi c’è la musica della loro passione: quella per il tango, il più autentico dei linguaggi. Così colmo di drammatica sensualità. Così trasgressivo, perché fondato su improvvisazioni invece che su schemi codificati e fissi. Un momento di incontro, di conoscenza, d’evasione e di forte passione. Così com’è la vita, al di là delle sovrastrutture codificanti.

Emma Dante, autrice e regista dello spettacolo “Il tango delle capinere” al Teatro Argentina

Emma Dante, autrice e regista, immerge questo suo spettacolo, ferocemente poetico, nel buio ancestrale che precede la vita ( le stelle accese) e nella magia del silenzio che precede la nota musicale (quella del carillon). E lascia parlare i gesti e i corpi degli attori, ricorrendo solo in rarissimi casi alla genesi della parola: una parola che si origina, che prende sostanza comunque dal silenzio.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Che va al di là del codice referenziale: è una parola-gesto. Le prime parole a generarsi negli attori sono infatti quelle scatenate dalla folle potenza della relazione amorosa: quelle del corteggiamento, sempre ambigue, fino all’istintivo “Tuffate !” che libera l’invito verso il corpo dell’altro.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

E poi la voluta regressione a quelle “onomatopeiche” per il nuovo sforzo di riuscire a comunicare con un diverso oggetto del desiderio: il loro figlio appena nato. Ma non si rivelano davvero efficaci: tanto che il papà è tentato al ritorno verso il gesto, questa volta estremo, per farlo smettere di piangere: “io me lo magno”.

Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Arriverà naturale il gesto delle mani della madre, a sottrarre il piccolo dalla tentazione del padre, lasciando però ancora spazio e possibilità affinché una qualche relazione si generi tra i due. Attraverso gesti via via più “calibrati” del successivo tentativo di lanciare il piccolo in un “vola vola” spericolato. La platea ride: spesso il comico e il tragico sono legati tra loro.

 Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

In questa poetica della Dante risulta non necessaria neppure una scenografia: gli attori sono la scena. E se ne hanno urgenza, sono loro a generare scenografie.

E lo stesso sembra valere anche per i costumi: sono “strati emozionali” che nel corso del tempo coprono l’istintualità. Vestendola. Il costume è anch’esso “gesto”: un “habitus” che muta se abbiamo necessità di “coprirci”. 

Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Emma Dante, nel raccontarci la danza dell’amore al ritmo binario del tango, ci rivela la bellezza insita anche nelle “storture” della vita: nella solitudine, nella morte, nella vecchiaia, nella malattia. E per qualche incantesimo noi del pubblico ne restiamo commossi. E riusciamo a vederle con “uno sguardo” diverso. Di misericordia. Forse.

Gli attori Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri sono straordinari. Proprio come la vita.


Leggi l’intervista ad Emma Dante su il Corriere.it


Bambola – La strada di Nicola

TEATRO LO SPAZIO, dal 30 Marzo al 2 Aprile 2023 –

La nostra identità è davvero espressa dal nostro nome proprio ? E come potrebbe ? Il nostro nome è scelto da altri, i nostri genitori, che inevitabilmente finiscono per caricarlo di tutte le loro aspettative. E’ un po’ come se già prima di nascere “venissimo scritti” da altri . Ma a noi resta ancora la libertà di scrivere qualcosa di “davvero nostro” .

Paolo Vanacore, autore del testo dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”

Questo ci ricorda il testo pieno di bellezza “Bambola, la strada di Nicola” scritto da Paolo Vanacore, interpretato con estroso ardore da un poliedrico Gianni De Feo e musicato dal Maestro Alessandro Panatteri.

Il Maestro Alessandro Panatteri

Nicola è il nome di ripiego di Nicoletta (Strambelli, in arte Patti Pravo) la dea adorata dalla madre di Nicola: quel tipo di donna che la mamma non era riuscita ad essere. Ma ora poteva riuscirci sua figlia: si sarebbe chiamata come lei, Nicoletta, e avrebbe ereditato la sua stessa personalità: libera, vera, autentica. La signora non lascia minimamente spazio, tra le sue aspettative, alla possibilità di poter dare alla luce un figlio. Quando accade se ne dispera. E non smette di farlo, silenziosamente, per tutta la vita.

La cantante Patty Pravo

Tra frustrazione e inevitabile assecondamento, Nicola cresce. Ma già da bambino inizia a sentire “di essere chiamato” per lasciarsi andare in un’altra direzione. Il primo segnale lo sperimenta nei momenti in cui suo padre, che non nutre invadenti aspettative su di lui e lo ama così com’è, riesce a ritagliarsi degli spazi da dedicargli. Quando cioè, soliti stendersi a terra, il piccolo Nicola ama chiudersi in posizione fetale all’interno del corpo di suo padre, come in un guscio. Quasi l’immagine di una nuova gestazione.

Un paradiso tu vivrai se tu scopri quel che hai…” . Scoprire ciò che si ha, scoprire il proprio “valore”, la propria autentica identità e potervi accedere per “realizzarsi” come persona: questo cantava Patty Pravo, un’avanguardia negli anni ’60. Ma quanta (apparente) sicurezza siamo disposti a cedere per non tradire il nostro desiderio, il nostro talento, senza farlo dipendere totalmente dagli altri ?

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Il padre di Nicola muore quando lui ha solo sette anni e dieci anni dopo sua madre sceglie di suicidarsi. Nicola resta orfano e qualcosa, già vivo in lui, inizia a prendere forma: Bambola. Un nome che Nicola sceglie pensando a quel tipo di donna cantato da Patty Pravo. Una donna che aspetta godottianamente qualcosa che deve arrivare e che con sensibilità leopardiana non può fare a meno di rivolgersi alla Luna per constatarne però ogni volta il suo disinteresse.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Una storia avvincente, personale e insieme universale, immersa nella Roma degli Anni ’60, dove nelle periferie si vivevano i fermenti dei moti di emancipazione: il femminismo, la libertà sessuale, la contestazione giovanile. Periferie laboratorio, dove Pasolini ambientava, tra l’altro, le interviste dei suoi “Comizi d’amore”. Tra le voci di un’umanità che inizia a trovare l’ardire di parlare di sessualità, intervistato è anche un Giuseppe Ungaretti che dichiara che in amore non esiste un concetto di “normalità” che lega gli uomini alla propria natura. A salvarci è solo uno “sforzo di poesia”.

Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini in “Comizi d’amore”

Poesia che Gianni De Feo dimostra di saper portare in scena: sua infatti è la capacità di utilizzare il corpo per catalizzare l’attenzione per poi scoccare il dardo dell’emozione sul pubblico. Con grande controllo di gestualità e mimica: senza mai incorrere in eccessi.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

La cifra stilistica di Gianni De Feo trova espressione in una capacità registica ed attoriale sincretica, che si avvale della complice sinergia di linguaggi diversi. La canzone, ri-arrangiata per essere messa al servizio dell’interprete ad esempio e’ una componente drammaturgica imprescindibile che, unita alla lingua da proscenio, dà vita ad una proposta di teatro canzone davvero molto interessante. Frutto della particolare affinità tra Gianni De Feo, Paolo Vanacore (autore del testo), il Maestro Alessandro Panatteri e Roberto Rinaldi (curatore delle scene e dei costumi).

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Ascolta come mi batte forte il tuo cuore

TEATRO VITTORIA, 27 Marzo 2023 –

In un effervescente Teatro Vittoria, si è tenuta ieri la serata inaugurale dell’anno dedicato a Wisława Szymborska (1923 -2012), in occasione del centenario dalla sua nascita. Ad aprire la serata la presentazione del progetto, nato due anni fa da un’idea di Andrea Ceccherelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università di Bologna) e di Luigi Marinelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma), da parte del regista Sergio Maifredi, curatore del progetto e dello spettacolo. Uomini, loro, tutti legati da grande amicizia a Pietro Marchesani, il traduttore per l’Italia delle opere di Wisława Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996.

Wisława Szymborska, poetessa Premio Nobel per la Letteratura nel 1996

Ospiti d’onore della serata, inoltre, il segretario personale della Szymborska Michał Rusinek (di cui ora gestisce la Fondazione) e la Direttrice dell’Istituto Polacco di Roma Adrianna Siennecka. L’evento inaugurale della serata rientra, infatti, nelle celebrazioni ufficiali indette dal Senato della Repubblica di Polonia.

Ultimate le presentazioni ufficiali, il calare delle luci in platea introduce il pubblico in sala all’immersione in un clima diverso: più intimo. A raggiungere il pianoforte a coda sul palco, è il pianista Michele Sganga, che per l’occasione ha composto una raccolta di brani dedicata all’energia vitale di Wisława Szymborska.

Michele Sganga, pianista dello spettacolo “Senti come mi batte forte il tuo cuore”

Un’opera variegata ma unitaria la sua, leggera e complessa, in cui movimento danzante e stasi contemplativa si rincorrono senza mai raggiungersi, in quel circolo vitale che è la danza stessa del reale. Due linee guida che il musicista, spinto da quel senso tutto szymborskiano di curiosa apertura al paradosso, segue e reinterpreta in modi diversi.

Sergio Maifredi, regista dello spettacolo “Senti come mi batte forte il tuo cuore”

La raffinata regia di Sergio Maifredi sceglie che prima che il maestro Sganga posi le sue mani sui tasti del pianoforte, entri in scena la commossa sensibilità dell’interprete Andrea Nicolini, con una rosa rossa, dal lungo gambo: omaggio e presenza stessa della poetessa. Con autentica sacralità, Nicolini la posa a terra: al centro della ribalta. “Che cosa penserebbe la Szymborska di questa nostra incontenibile gioia di ricordarla ?” – si chiede, traducendo ad alta voce i nostri pensieri. Magari direbbe, con quel sorriso reso unico dalla sua cordiale e brusca ironia, che “per caso” così tanti amici e sconosciuti si sono organizzati e dati appuntamento al Teatro Vittoria. E “cosa farà ora? Firmerà autografi, anche lì dove si trova, o si godrà una sigaretta ascoltando la sua adorata Ella Fitzgerald ?”.

Andrea Nicolini

A suggellamento di questo rituale oramai officiato, il pianista Michele Sganga trova quelle note che, sprigionandosi nell’aria, traducono e danno una qualche risposta alle nostre domande.

Ora la voce della Szymborska può “trovare scultura” attraverso la mirabile emissione vocale di Maddalena Crippa. Una lettura interpretativa, come l’avrebbe desiderata Lei, la nostra poetessa: scevra da toni solenni. Fluida, come pensata.

Maddalena Crippa

La regia di Maifredi prevede acutamente che anche Andrea Nicolini si sieda, lì sul palco, bagnato da una luce che rende sacro il suo ascolto. Successivamente si alternerà a Maddalena Crippa nella lettura, regalando un colore “a tutto tondo” al carteggio intercorso tra la Szymborska e il suo amato Kornel Filipowicz.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Nella magia di un’incantevole serata della primavera romana, è andata in scena, nel “tempio” del Teatro Vittoria, la rievocazione di quel verso libero, tipico di Wiesława Szymborską. Così complesso eppure percepito in maniera così sorprendentemente semplice. Fruibile con agio da tutti: solo la genialità della poetessa premio Nobel è riuscita a cesellarlo. Come una miniaturista.

Wiesława Szymborską, da giovane

Perché dietro quell’arguta e succinta scelta delle parole si cela una profonda introspezione intellettuale. Una lirica filosofica la sua, dove si apprezza la bellezza della certezza ma di più quella dell’incertezza. Perché il destino, fino a che non è pronto a manifestarsi, “si diverte a giocare” con gli uomini. E allora la sua poesia è la meravigliosa e incantata espressione di un “non so”, al quale però ci si può aggrappare “come alla salvezza di un corrimano”.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Perché, sebbene la parola “tutto” sia “solo un brandello di bufera”, il savoir-vivre cosmico esige da noi “un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal e una partecipazione stupita a questo gioco, con regole ignote”.

Wiesława Szymborską

Una pura formalità

TEATRO MARCONI, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

È un punto di fuga decentrato la vita, per noi che ci ostiniamo a passare gli anni che ci vengono concessi in sorte a “ricordare ciò che c’è da cancellare“. Con queste parole Giuseppe Tornatore sceglie di suggellare la chiusura dell’omonimo film al quale questa riduzione teatrale, diretta dal regista Roberto Belli, si ispira.

Scena finale del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

E affida “la rivelazione” contenuta in esse al modulare “decentrato” del canto di Gerard Depardieu:

Ricordare,

ricordare è come un po’ morire

tu adesso lo sai perché tutto ritorna, anche se non vuoi

E scordare,

e scordare è più difficile

ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare…

(“Ricordare”, testo di Giuseppe Tornatore, musica di Ennio Morricone)

Intenzione del titolo, infatti, è quella di indurci, provocatoriamente, a pensare che la morte (così come la vita) non sia altro che una pura formalità agevolmente espletabile. Qualcosa di noioso magari, ma estremamente pulito, lineare. Così semplice e innocuo da divenire quasi inconsistente.

Roman Polanski e Gerard Depardieu in una scena del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Ma è davvero così ? E se invece fosse qualcosa di vischiosamente fangoso e pesantemente rammollito da una pioggia insinuante, ossessiva e disorientante ? Un diluvio che col tempo si modula in una sorta di stillicidio ? Stillicidio che, non a caso, abita davvero la scena (curata da Eleonora Scarponi): reali perdite d’acqua, infatti, s’insinuano dall’alto e, provvisoriamente convogliate in secchi, regalano al clima drammaturgico una sinistra e suadente musicalità dalla scomposta grazia.

Una delle scene iniziali del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Claudio Boccaccini, che siamo soliti conoscere e riconoscere dalle “regie di luce” che caratterizzano i suoi spettacoli, qui è anche l’interprete di Onoff, uno scrittore profondamente in crisi che una notte si ritrova a correre, vagando disorientato, sotto un diluvio di pioggia. Da qui prende avvio lo spettacolo. E desta grande stupore, una meraviglia che ammutolisce, l’intima adesione che Boccaccini riesce a trovare per “farsi personaggio”,  restituendoci tutta la grandezza epica di “un mito” in decadenza capace ancora, tuttavia, d’illuminarsi di una metafisica aura ieratica. E ci commuove. Profondamente. E proprio nel momento in cui riesce a farci mollare ogni resistenza, ci identifichiamo in lui. Nel suo destino, che è anche il nostro. Ed è catarsi.

Claudio Boccaccini è Onoff

Complice di tale incantesimo è anche quell’intesa profonda che riesce ad instaurare con un Commissario qual è quello interpretato da un elegante e calibrato Paolo Perinelli, dalla capacità maieuticamente socratica di “tarare” ciò che non serve. Sarà infatti attraverso l’arte di fare domande (solo apparentemente da Commissario di polizia) che permetterà il parto narrativo ed esistenziale di Onoff, costringendolo a riflettere sulla portata di quei concetti dati erroneamente per scontati e sulle contraddizioni in essi serbate.  Perché solo eliminando il troppo e il vano da ciò che Onoff pensa (e che ha deciso di ricordare), potrà aiutarlo nel conquistare una nuova, autentica e “centrata” consapevolezza di sé. 

Paolo Perinelli (il Commissario)

E da spettatori ci si ritrova ad immaginare che forse sarà su questo che, dopo la nostra morte, una volta condotti in una Stazione di Polizia-Purgatorio, qualcuno ci farà riflettere: su come va cercata la nostra autentica verità. 

Andrea Meloni (Andrè)

Il “quadro” registico “dipinto” dal regista Belli trova compiutezza anche attraverso i contributi interpretativi dei tre collaboratori del Commissario. Andrea Meloni sa regalare ai panni di André il dattilografo una poeticità capace di illuminare la subordinazione verso il Commissario di un intimo e quasi incontenibile trasporto ad accogliere il “fango umano” di Onoff.  Paolo Matteucci (il Capitano) e Riccardo Frezza (la Guardia) riescono a tratteggiare, con un’interessante nota di ambiguo zelo, due insolite figure di angelici aguzzini.

Riccardo Frezza (la Guardia) e Paolo Matteucci (il Capitano)

Il linguaggio delle luci, com’è nella cifra di Claudio Boccaccini, risulta disegnato in modo raffinato e profondo, tecnicamente sobrio ma virtuoso nelle metafore visive. E soprattutto risulta capace di generare toni narrativi estremamente coinvolgenti: tra suspense hitchcockiana e dialogo morale bergmaniano

Claudio Boccaccini

Ne deriva uno spettacolo intimo e insieme aperto al dubbio; generatore di stati d’animo disposti a conversare sui quesiti connaturati alla nostra condizione umana. Un’indagine sulla vita che approda alla scoperta che comprendere è più importante che condannare.

Ed è così che uno spettacolo diventa arte lirica visiva: danza tra musica ed immagini. Riuscendo ad attraversare la pelle dello spettatore per tatuarvisi come ricordo.

Il cast dello spettacolo “Una pura formalità” di Roberto Belli

Il diario di Anne Frank

TEATRO BELLI, dal 27 Gennaio al 12 Febbraio 2023 –

Nuvole soavemente delicate soffiano, indifferenti, un folle amore dal profumo che dà gli spasimi. Ricordano quelle cantate da Domenico Modugno in “Cosa sono le nuvole” e corrono avanzando, loro sì, sopra il lucernaio di un nascondiglio, dove (apparentemente) tutto chiede immobilità.

Struggente trovata registica di Carlo Emilio Lerici è quella che fa del cielo la coordinata temporale il cui sguardo onnipresente cade su un nascondiglio clandestino, che quasi come “una nave immobile nel centro di Amsterdam naufraga lentamente senza saperlo». Così lo descriveva Natalia Ginzburg.

Carlo Emilio Lerici, regista dello spettacolo “Il diario di Anne Frank”

Un cielo che Anne Frank (una strepitosa e multiforme Raffaella Alterio, deliziosamente poetica come solo una gattina selvatica sa esserlo) riesce a guardare rintracciandovi, come in uno specchio, la fertile mutevolezza della vita: “quando guardo il cielo penso che tutto si volgerà nuovamente al bene”.

Raffaella Alterio (Anne Frank) in una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank”

La scena pluri-partita (curata con efficacia da Vito Giuseppe Zito) fa sì che quella che la Ginzburg immaginava come una nave-nascondiglio venga resa visivamente attraverso quella bellezza estetica e narrativa propria di un ciclo di affreschi. La cui sequenzialità può essere interrotta da primi piani creati dall’arbitrarietà dello spettatore o realizzati registicamente attraverso un consapevole uso della luce e un attento gioco di tende. D’incantevole poesia, la scena sotto il lucernario della lezione impartita da Otto Frank ( un magnifico Roberto Attias disperatamente metafisico) a Peter (un ermetico Vinicio Argirò di smisurata dolcezza).

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Ma cosa implica il  “nascondersi”?  Come si coniuga l’esigenza di non essere visti per poter sopravvivere, con l’esigenza tutta umana di poter sopravvivere grazie all’essere visti dagli altri ? È sempre Anne, con la sua acuta sensibilità, a veicolarci questo paradosso, quando confessa a Peter che detesta constatare che lo sguardo degli altri su di lei cada solo su quella “maledetta” stella,  cucita sui loro abiti, una volta esiliata dal cielo.

Raffaella Alterio (Anne Frank) in una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Allora fondamentale diventa “non dimenticare”: per non dimenticarsi di se stessi e per non farsi dimenticare dagli altri. Come? Continuando a ballare, a ridere, a scherzare. E ad osservare. Iniziando a scrivere, laddove non è più permesso nemmeno parlare. Fare rumore.

Il derubato che sorride/Ruba qualcosa al ladro/

Ma il derubato che piange/Ruba qualcosa a se stesso

È la freschezza incontenibile dello sguardo di Anne che il regista Lerici sceglie di assurgere a “fil rouge” di tutta la narrazione. Una fertile scelta, che fa risaltare i momenti più carichi di pathos permettendoci contemporaneamente di accoglierli in tutta la loro feroce umanità. Riconoscendola anche come nostra.

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Ad esempio quando il Sig. Van Daan ( un potente Tonino Tosto sontuosamente egoista) colto dalla disperazione della fame finisce col rubare il cibo della sempre più numerosa comunità. Scatenando  “gli appetiti” di coloro che più a fatica li stanno arginando: la Signora Frank ( un’elegantemente composta Francesca Bianco capace di trasformarsi in una pulsante erinni) e l’ultimo “migrante” accolto a bordo, il Dottor Dussen (un interessante Roberto Baldassari ossequiosamente esplosivo). 

Trova manifestazione in questo drammatico contesto anche la docile ambiguità della Signora Van Dann (un’intrigante Susy Sergiacomo) complice del marito nella sua autolesionistica sottomissione a fare “da ponte” tra lui e il resto del mondo.

Restano invece fino alla fine creature arditamente angeliche la Signora Miep (una soave Eleonora Tosto, anche voce degli incantevoli canti ebraici che sottolineano persuasivamente alcuni momenti dello spettacolo);  il suo compagno ( un Fabrizio Bordignon fiero ed altero) e Margot, la sorella maggiore di Anne, interpretata da una composta ma ricca in acume Beatrice Coppolino

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Una incandescente prova di coralità che centra la missione originaria del Diario: diffondere l’urgenza di un umanesimo capace  di contenere spinte eccessivamente antropocentriche. Urgenza che la stessa istituzione del Teatro insegna e promuove. Da sempre.

Antonio Salines nel cast del debutto del Gennaio 2020

Antonio Salines, mirabile interprete di Otto Frank al debutto di questo spettacolo tre anni fa, nonché appassionato e appassionante ri-fondatore del Teatro Belli, ne è stato un luminoso esempio, facendo palpitare quell’immagine del pittore Enrico Prampolini nella quale un giorno irresistibilmente si riflesse. Un burattinaio che si porta sulle sue spalle un teatrino. Eletta a immagine per la locandina di inaugurazione del Teatro Belli. Era il 1972.

Che io possa esser dannato/ Se non ti amo/E se così non fosse/Non capirei più niente/

Tutto il mio folle amore/Lo soffia il cielo/Lo soffia il cielo/Così

DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare. 

Il contenuto non corrisponde al titolo

TEATRO MARCONI, 12 Gennaio 2023

Gremiti gli spazi del Teatro Marconi per trattenere ed accogliere l’attesa dell’inizio della Festa del Pensiero. Apre la serata happening, un trio del Pensiero “in musica”: arte che dona la possibilità di trasformare la semplice aria in qualcosa che trasporta gli animi ben oltre i sensi. Ad accompagnare il cantautore Luigi Turinese (che presenterà il suo nuovo album “Passaggi – Il volo di Mangialardi” al Teatro Garbatella, sabato 21 gennaio alle ore 21:00) la chitarra di Adriano Piccioni e la ritmica di Piero Tozzi.

Il cantautore Luigi Torinese in un momento della Festa del Pensiero

In un raffinato gioco di affinità elettive, il pensiero in musica ha attratto (per poi di volta in volta momentaneamente sottrarsi) gli interventi del trio del pensiero critico, tesi a presentare in maniera sui generis l’ultimo libro di Giuseppe Manfridi ‘Il contenuto non corrisponde al titolo”.

Giuseppe Manfredi, autore del libro “Il contenuto non corrisponde al titolo”

L’ autore, uno dei massimi drammaturghi italiani e autore di commedie rappresentate in tutto il mondo, sceglie che a presenziare il “debutto” della sua ultima creazione letteraria sia lo sguardo dalla coinvolgente sapienza, densa di sfuggevolezza, dello storico d’arte Claudio Strinati (anche autore della prefazione del libro),

Claudio Strinati

alchemicamente coniugato allo sguardo dall’effervescente “libridinosità” dell’autore Dario Pisano.

Dario Pisano

Quest’insolita “preparazione chimica” di pensieri ha dato vita ad una serata squisitamente spiazzante; divertente e fertile di stimolanti riflessioni. Si è parlato, tra l’altro, di come l’oscillazione tra il pieno e il vuoto sia il contenuto del libro (ma non del titolo); del fatto che chi scrive lo fa essenzialmente per leggersi. E che si legge sperando di rimanere affascinati da ciò che non si capisce.

Costante la concentrazione del pubblico, che ha seguito sempre con molto interesse e partecipazione. Il libro “Il contenuto non corrisponde al titolo” raccoglie un mosaico di aforismi, brevi elzeviri, poesie e brani a tema, che alludono al paradosso secondo il quale raramente diciamo cose che davvero intendiamo dire. “Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cambiarle”, direbbe Pirandello. E nel parlare di rapporti di coppia, di linguaggio e di dinamiche creative, il libro si pone come un invito a sviluppare e ad allenare continuamente “la capacità di osservare”. Questa sì, d’aiuto per la comprensione del mondo.

La serata, ricca in fascino, si è conclusa nel cordiale Bistrot del Teatro Marconi, dove l’autore e i suoi “attori” si sono mescolati al pubblico, ancora desideroso di approfondimenti e curiosi aneddoti. 

Una compagnia di pazzi

TEATRO DE’ SERVI, Dal 15 al 27 Novembre 2022 –

Uno spettacolo coraggioso e poetico.

Narra di come in quel che resta di un manicomio (con tre malati, due infermieri e un direttore sanitario, ai margini della vita e della Seconda Guerra Mondiale) la quotidianità riesca ad avere il sapore di un’avventura: quella dell’immaginifica navigazione di un equipaggio che sa vivere di attese e di desideri infiniti. In primis l’attesa dell’arrivo della neve.

Uno spettacolo che ha il merito di presentare la follia non tanto come un insieme di comportamenti che deviano dalla “norma”, quanto piuttosto come comportamenti che sanno rivelarci qualcosa di “vero” sull’essere umano. Cosa significhi essere “liberi”. Cosa significhi “amare” davvero, al di là degli stereotipi. Come possa essere straordinariamente terapeutica una carezza. Come “il divino”, il “genio”, si manifesti inaspettatamente attraverso la musica e la danza.

Perché tutti noi sappiamo ciò che siamo ma non ciò che potremo essere.

E quando finalmente la neve arriva, “la neve pesa e in testa fa male”: tutti sentono che è arrivato il momento di “lasciar andare la fune che unisce alla riva”. Di lasciar andare il destino. Di lasciare che tutto fluisca. “La salvezza non si controlla. Vince chi molla”. Un nuovo viaggio si palesa. O si lascia immaginare.

Il testo e la regia dello spettacolo sono di Antonio Grosso, acuto osservatore stregato dai piccoli microcosmi dell’esistere, che è presente anche in scena nel ruolo di Francesco, uno dei due infermieri.

Antonio Grosso

Tutti gli attori danno prova di una recitazione che rifugge dai facili eccessi. Una recitazione semplice e naturale, che imprime una meravigliosa dolcezza al gesto. Non passa inosservata l’affascinante mimèsi di Gioele Rotini: folle, in ogni vibrazione del corpo e dello sguardo.

LO SPETTACOLO SARA’ IN SCENA FINO AL  27 NOVEMBRE AL TEATRO DE’ SERVI

Er corvaccio e li morti

TEATRO VASCELLO, 31 Ottobre 2022 –

È un mozzico la vita: n’affacciata de finestra. La morte ? Un modo de pijà la vita. Na’ malìa. Una fascinazione. Eh sì, la morte ha il suo bel fascino: un misto e un alternarsi tra potere malefico e irresistibile seduzione.

Er corvaccio e li morti” di Graziano Graziani è il testo da cui nasce l’omonimo spettacolo

E’ una sorta di esistenzialista romanesco Er corvaccio, ovvero il becchino del cimitero immaginato da Graziano Graziani. E che Lisa Ferlazzo Natoli, con arguzia, sceglie di affidare al polimorfismo (e quindi al fascino) di Lino Guanciale.

Lisa Ferlazzo Natoli – Lino Guanciale – Graziano Graziani

Lui entra in scena come “un flâneur de noantri”: mani in tasca e naso all’insù. “Spettinato”: lunga la barba, sciolta la cravatta. Bighellonando. Senza programmi. Vaga, più o meno oziosamente, per le vie del cimitero come fossero quelle di una città. Senza fretta. Tutto lo incuriosisce in questo microcosmo nero, dal fumoso fascino evanescente. Una città nella città.

E, da curioso e accogliente “osservatore urbano”, ha raccolto una miriade di osservazioni sociali, personali ed “estetiche” che, attraversando i sonetti di Graziano Graziani, Lino “Er corvaccio” ci offre. Alla ricerca di “quelle parole curative” per descrivere la morte, che nel tempo sono andate perse.

È un affresco di tipologie umane, il suo, alcune completamente scomparse. C’è l’arrotino, che lavorava “andando in bicicletta” ma che poi s’infilza proprio col coltello che sta lavorando; l’ombrellaio, “che se piove merda, l’ombrello non basta”; Er colletto bianco, che in vita moriva di monotonia e sta meglio ora che sta “sdrajato”; Er politico, che dice che “commannà è mejo che fotte” e la pissicologa, quella che quanno tu je dici che pensi de esse te stesso fino n’fonno, lei te dice che semo armeno in tre”. Perchè le città, incluse quelle dei morti, devono essere il luogo della condivisione: senza la condivisione non esiste la città. E il racconto delle “catastrofi esistenziali” dei morti possono essere accolte nella città dei vivi evitando sia lo scoramento che la rassegnazione. Perchè la “catastrofe” è immanente ad ogni nostra giornata. E noi ne siamo sedotti. Per natura.

Qui, in “Er corvaccio e li morti”, Lino Guanciale ci regala, con la preziosa complicità dei due ammalianti musicisti Gabriele Coen e Stefano Saletti, un brioso arcobaleno di colori vocali ed espressivi. Con prodigalità. Guidandoci dentro i sonetti di Graziano Graziani come lungo stradine di una città, pavimentate dal turpiloquio del romanesco (vocazione riconosciutagli anche dal celebre linguista Luca Serianni) ma soprattutto seducendoci al lusso della Poesia, che è quello di non avere un senso.

Perché alla fine la Vita è “un passar per buche: la figa, la fiasca e la morte”.