Teresa la ladra

TEATRO PARIOLI, dal 22 al 26 Marzo 2023 –

Un cono di luce bagna solo Lei. Il resto è immerso nel buio. Finalmente, qui sulla scena, Teresa (una fantasmagorica Mariangela D’abbraccio) riceve quell’attenzione accogliente e piena d’interesse di cui nella vita non è mai stata oggetto. Neanche quando è venuta alla luce: al momento del parto la madre la credeva morta e il padre voleva buttarla nell’immondizia. È stata la sua sana prepotenza di sopravvivenza a farla urlare con tutto il fiato, che non sapeva neppure di avere in gola, per reclamare il diritto ad esistere. Sua mamma era spesso triste e anziché parlarle, la picchiava. E così erano soliti fare i suoi fratelli più grandi.

Una scena dello spettacolo “Teresa la ladra” di Francesco Tavassi

Mentre parla di loro, alcuni ragazzi entrano in scena: sono dei “nuovi fratelli, ovvero i musicisti dell’orchestra dal vivo che, abbracceranno, attraverso la musica, le parole di Teresa. Lei è bella: ingenua e insieme selvatica. Soprattutto è una donna con un destino da clandestina, da randagia. Ma più di tutto è coraggiosa: questo la fa bella davvero. La sua geografia mentale la rende irresistibilmente interessante: nel bene e nel male.

Per sopravvivere sarà costretta a rubacchiare, perchè in tempo di guerra, a volte non basta essere disponibili a lavorare. E noi, nonostante tutto quello che lei ci racconta, restiamo dalla sua parte. Perché Teresa difende sempre la propria integrità morale ma soprattutto non smette di cercare e di farsi domande per capire quanti volti può avere la libertà: leggera come una febbre e pesante come un’angoscia.

Mariangela D’Abbraccio in una scena dello spettacolo “Teresa la ladra” di Francesco Tavassi

Quella di Teresa è una storia individuale che sa diventare patrimonio universale: la sua, come la nostra, è una vita spesa nella ricerca dell’affermazione della propria identità personale. Teresa siamo noi, tutti noi. Noi che ci sentiamo ladri quando osiamo preservare la nostra più pura essenza; noi che rubiamo scampoli di libertà per riuscire ancora a respirare. Noi che guardandola, ritroviamo nei suoi occhi la nostra luce.

Francesco Tavassi, il resista dello spettacolo “Teresa la ladra”

La regia di Francesco Tavassi porta in scena un adattamento del testo di Dacia Maraini Memorie di una ladra” del 1972 , che tanto appassionò Pasolini per il sapiente lavoro su una lingua popolare d’antan, unendo parole e musica; gesti tormentati ma anche pieni di delizia. È una partitura tutta costruita sul ritmo e sulla velocità, seppur in un corposo ritratto d’epoca di circa due ore, all’interno del quale Teresa è immersa e travolta, senza mai però restarne succube o sottomessa.

Dacia Maraini, autrice del libro “Memorie di una ladra” , al quale si ispira lo spettacolo “Teresa la ladra”

Sta forse nella sua particolarissima genesi il segreto dell’energia travolgente di questo romanzo. Mentre conduceva un’inchiesta giornalistica sulle condizioni nelle carceri femminili italiane, nel 1969 Dacia Maraini incontrò una detenuta dalla personalità straripante, Teresa Numa: “Le ho parlato per due minuti e ho capito che era il personaggio che cercavo”. Non potendo intervistarla a causa dei regolamenti carcerari, la Maraini ha aspettato qualche mese che la donna uscisse di galera e ha raccolto per circa un anno la sua drammatica (ma anche grottesca e avventurosa) testimonianza sulla sua vita e la sua carriera di ladra e truffatrice: una storia picaresca, l’ha definita a ragione la Maraini, che ha frequentato poi la signora Teresa fino alla sua morte, avvenuta qualche anno fa. 

Dacia Maraini, “Memorie di una ladra”, BUR

Lo spettacolo di Tavassi mantiene del romanzo anche la forma della testimonianza orale: sono state volutamente lasciate ripetizioni, contraddizioni, riflessioni e il linguaggio è colorito, sgrammaticato, ricco di neologismi non voluti. Un vero capolavoro di Neorealismo straccione e grottesco che ha ispirato il film ” Teresa la ladra ” diretto nel 1973 da Carlo Di Palma e interpretato da una indimenticabile Monica Vitti e da Stefano Satta Flores

Locandina del film di Carlo di Palma “Teresa la ladra” con Monica Vitti

Ora, da qualche anno ormai, il testo è stato adattato a monologo teatrale e portato in scena con lusinghiero successo da Francesco Tavassi e da Mariangela D’Abbraccio sui palcoscenici di tutta Italia. Sinergicamente la scrittrice, l’attrice e il regista hanno pensato che la musica e le canzoni potessero essere uno strumento espressivo utile a completare il racconto rocambolesco di Teresa, facendo di questo spettacolo una sorta di operetta musicale, di teatro-canzone.

Sergio Cammariere, il musicista che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo “Teresa la ladra”

E’ stata dunque fondamentale la collaborazione di Sergio Cammariere , che ha scritto una vera e propria colonna sonora oltre a delle canzoni originali su testi della stessa Maraini. Mariangela D’Abbraccio è la Teresa che oltre a raccontarsi canterà la sua storia accompagnata da un gruppo di musicisti, in una formazione suggerita dallo stesso Cammariere. Prende forma così uno spettacolo funambolico così come la vita di Teresa.

Mariangela D’abbraccio, interprete di Teresa nello spettacolo “Teresa la ladra”

Mariangela D’Abbraccio, lasciandosi plasmare dallo sguardo della Maraini, sempre così affascinato dalla “diversità” e quindi dall’unicità dell’essere umano, riesce nell’arduo tentativo di restituirci tutta “la tenerezza” di una donna come Teresa. E fa sì che quello sguardo carico di tenerezza noi riusciamo a regalarlo anche a noi stessi.

Revolution

È un elogio della “parola” modellata sui ritmi dell’hip hop, il musical ispirato alla storia di Alexander Hamilton e diretto d Maurizio Purifico. Quella “parola” la cui libertà d’espressione fu una della conquiste più preziose sancite dalla prima Costituzione scritta: quella degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789.

Particolare di una banconota da 10 dollari raffigurante Alexander Hamilton

Ed è intorno ad una vera e propria “fame di parole” che il musical prende forma, rivelando un’interessante fedeltà all’intima esigenza di Hamilton di ricorrere alla parola scritta per affrancarsi e contemporaneamente affrancare chi, come lui, si trovava a subire ingiustizie sociali, perché minoranza. Parole portatrici di ideali, per restare fedele ai quali non ha temuto di andare incontro alla morte: “Morire è facile, Vivere è la sfida! “.

Matteo Corvatta (Hamilton) in una scena del musical “Revolution”

Una perfetta storia, quella di Hamilton, da hip hop: lo stile musicale e culturale che ben permette di esprimere la propria identità e che fa della libertà, luogo astratto dei diritti, una realtà concreta come quella della nostra dimensione interiore.

Una scena del Musical “Revolution”

I testi, curatissimi e incredibilmente densi, sono una vera e propria valanga di parole, che trova in questo genere musicale capace di trasmette più parole al minuto di qualsiasi altro, un perfetto veicolo d’espressione.

Una scena del Musical “Revolution”

Il sipario di “Revolution” si apre su una scena dominata da una struttura praticabile a ponte (che ricorda quello di una nave) esaltata da un sapiente disegno luci. Il “ponte” rappresenta il mezzo per andare al di là del nostro solito mondo, verso una dimensione diversa, “una terra promessa dove i frutti sono di tutti”.

Una scena del Musical “Revolution”

Come dovrebbe avvenire anche nella vita, nel Musical “ogni particolare” risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo. Qui in “Revolution” la narrazione storica, inclusiva di preziosi punti di vista al femminile, si avvale di una potente sinergia costituita da vigorose prove attoriali e brillanti esposizioni canore che, unite a persuasive coreografie, danno vita ad uno splendido esempio di coralità.

Una scena del Musical “Revolution”

Con notevole acume il regista Maurizio Purifico identifica il titolo del suo musical in uno dei diritti sancito nella Costituzione americana del 1789: quello alla Rivoluzione appunto . Un diritto che non dovremmo mai dimenticare di esercitare nei momenti necessari. Insieme. Perché “Unione” fa rima anche con “Rivoluzione”.

Una scena del Musical “Revolution”

Perché le rivoluzioni, coraggiosamente volute o ineluttabilmente subite, segnano un nuovo punto di partenza, avendo preparato il terreno per un’evoluzione. Questo lo splendido messaggio con il quale ci si alza, pieni di fervore, dalla poltrona del teatro a fine spettacolo. E che ci si porta a casa.

Una scena del Musical “Revolution”

Questo è il potere civile del Teatro quando si ha l’opportunità di assistere ad uno spettacolo qual è “Revolution”.

Backstage : il regista Maurizio Purifico insieme alla Compagnia alcuni momenti prima dello spettacolo

Agnello di Dio

TEATRO PARIOLI, dall’11 al 15 Gennaio 2023 –

Uno spettacolo sulla vocazione a desiderare.

Sul prurito provocato da certi dubbi riguardo il “chi siamo” e  sul che “cosa desideriamo” davvero. Fuori da ogni condizionamento esterno. A cosa siamo “chiamati?”. Qual è il nostro talento? Perché tutti ne abbiamo uno: è una certezza. 

Fausto Cabra (il padre) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La vocazione ad “osservare”, ad esempio, è il talento di Daniele Mencarelli, autore di questa sua prima drammaturgia ma già da tempo scrittore di successo e vincitore, tra gli altri,  anche del Premio Strega Giovani 2020. Proprio questa vocazione lo porta a calare nella realtà quotidiana interrogativi chiave sul nostro modo di stare al mondo. In questo testo, fluidamente denso, l’autore ci porta a mettere a fuoco tematiche che, per natura, siamo portati a preferire tacere. 

Daniele Mencarelli, autore del testo dello spettacolo “Agnello di Dio” di Piero Maccarinelli

Che cosa si nasconde dietro il desiderio di un ragazzo di diciotto anni di voler mettere al rogo tutto ciò che gli è stato insegnato, così da sentirsi finalmente libero?  Ma libero da cosa?  Sia il padre, convocato con il figlio in Presidenza, sia la Rappresentante scolastica, sollecitano domande alle cui risposte poi reagiscono con disincanto. Piuttosto minimizzano. Non riescono ad entrare in empatia con il disagio del ragazzo. Come mai? Forse perché, più coinvolti di quanto lascino trasparire, gli interrogativi sollevati dal ragazzo hanno pungolato anche i loro 18 anni scegliendo però di non ascoltarli? E ora, forse, proprio questo evento porta a riaprire una ferita che ci si illudeva di aver dimenticato.

Viola Graziosi (la Preside) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La raffinata regia di Piero Maccarinelli sa valorizzare ciò che nel testo chiede luce, rispettandone le ombre. All’ingresso del pubblico, il sipario è già aperto e la scena ci si offre al buio, in tutta la sua ambiguità, bagnata solamente dalle luci di sala. Poi le posizioni s’invertono: ora noi del pubblico accettiamo di lasciarci avvolgere dalle nostre ombre così da permettere l’arrivo della luce su ciò che si lascerà svelare sulla scena. Anche le note del magnificamente scarno “Miserere” composto dal celebre Maestro Antonio di Pofi ci invitano  a partecipare, a comprendere e a perdonare.

Piero Maccarinelli: il regista dello spettacolo “Agnello di Dio”

In un ufficio particolarmente elegante e stiloso, la Preside di una prestigiosa scuola cattolica paritaria (una Viola Graziosi che sa come lasciar trapelare le contraddizioni del suo personaggio lasciando che a parlare le diverse lingue siano le mani, la voce e lo sguardo) convoca un padre yuppie ( lo interpreta in tutte le sue sfaccettature il talentuoso Fausto Cabra) accompagnato dal figlio diciottenne, allievo della scuola (un intenso Alessandro Bandini). Le tensioni dell’ incontro saranno continuamente sospese dall’entrata in campo di Suor Cristiana (una deliziosamente musicale Ola Cavagna).

Viola Graziosi (la Preside) con Ola Cavagna (Suor Cristiana) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

Lo spettacolo si chiude circolarmente con le note del “Miserere” del Maestro Antonio di Pofi, suggellando una chiusura spiazzante. Un’autentica prova di “maturità”.

Una compagnia di pazzi

TEATRO DE’ SERVI, Dal 15 al 27 Novembre 2022 –

Uno spettacolo coraggioso e poetico.

Narra di come in quel che resta di un manicomio (con tre malati, due infermieri e un direttore sanitario, ai margini della vita e della Seconda Guerra Mondiale) la quotidianità riesca ad avere il sapore di un’avventura: quella dell’immaginifica navigazione di un equipaggio che sa vivere di attese e di desideri infiniti. In primis l’attesa dell’arrivo della neve.

Uno spettacolo che ha il merito di presentare la follia non tanto come un insieme di comportamenti che deviano dalla “norma”, quanto piuttosto come comportamenti che sanno rivelarci qualcosa di “vero” sull’essere umano. Cosa significhi essere “liberi”. Cosa significhi “amare” davvero, al di là degli stereotipi. Come possa essere straordinariamente terapeutica una carezza. Come “il divino”, il “genio”, si manifesti inaspettatamente attraverso la musica e la danza.

Perché tutti noi sappiamo ciò che siamo ma non ciò che potremo essere.

E quando finalmente la neve arriva, “la neve pesa e in testa fa male”: tutti sentono che è arrivato il momento di “lasciar andare la fune che unisce alla riva”. Di lasciar andare il destino. Di lasciare che tutto fluisca. “La salvezza non si controlla. Vince chi molla”. Un nuovo viaggio si palesa. O si lascia immaginare.

Il testo e la regia dello spettacolo sono di Antonio Grosso, acuto osservatore stregato dai piccoli microcosmi dell’esistere, che è presente anche in scena nel ruolo di Francesco, uno dei due infermieri.

Antonio Grosso

Tutti gli attori danno prova di una recitazione che rifugge dai facili eccessi. Una recitazione semplice e naturale, che imprime una meravigliosa dolcezza al gesto. Non passa inosservata l’affascinante mimèsi di Gioele Rotini: folle, in ogni vibrazione del corpo e dello sguardo.

LO SPETTACOLO SARA’ IN SCENA FINO AL  27 NOVEMBRE AL TEATRO DE’ SERVI

La signorina Giulia

TEATRO VASCELLO, Dall’ 11 al 16 Ottobre 2022 –

Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?

Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più fretto­losamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresen­tarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.

Leonardo Lidi

August Strindberg

Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore. 

All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.

Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che sol­tanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.

Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.

Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.

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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico del Ginesio Fest.

Tutto

TEATRO INDIA, 16 -17 Giugno 2022 –

In scena un ufficio amministrativo come spazzato da un tornado. Le scrivanie sono vuote: né scartoffie, né oggetti da tavolo le frequentano più. Alle pareti, superstiti perché “incastrati” in una reticolare struttura di design, gli oggetti più voluminosi: sedie, un bianco albero di Natale, uno stereo old style.

Gli impiegati sono anche loro dei sopravvissuti: abitano lo stesso spazio ma sono altrove. I loro pensieri si sovrappongono ai loro dialoghi.  Parlano di un’esuberanza di documenti (invisibili) da spostare, da togliere, da sottrarre alla vista, più che da ordinare: come se non avesse più senso farlo. Parlano della necessità di “nascondere” documenti per poi farli ricomparire: così, solo per risultare necessari.

È noncuranza burocratica, o una necessaria illusione per sentirci inseriti (finanche “incastrati” come le sedie nel reticolo alle pareti)  in una realtà che non ci ospita davvero? Che cosa è necessario nascondere per regalarci linfa vitale? Perché il regista ha deciso di togliere gli oggetti a cui siamo ormai così tanto abituati? Che cosa ha riattivato in Omar perdere il documento 5605589?  Oppure, l’assenza è solo sintomo di una realtà “matrigna” ? Nella quale siamo involontariamente gettati? Un po’ come ne “Il cappotto” di Gogol?


È in scena un microcosmo ma il regista Tommaso Capodanno ci vuole parlare di un macrocosmo regolato dallo stesso disordine, dallo stesso caos. Un altro tornado travolgerà la scena e trasformerà l’ufficio in una sala da pranzo con una lunga tavola “natalizia”. È infatti una nuova nascita. Una delle infinite nascite, destinate a susseguirsi nel tempo. Nascite che però non dicono chi siamo, né da dove veniamo.

Noi del pubblico ridiamo: non percepiamo la tragicità di questa visione della realtà. L’assurdità, sì. Siamo spiazzati, disorientati. Persi. In imbarazzo.  E l’imbarazzo ci porta a ridere. A piangere attraverso le risate. Dapprima perché ci sembra una realtà lontana dalla nostra, ridicola proprio perchè di altri; poi invece scopriamo, imbarazzatissimi, di esserci dentro anche noi.

Un testo (quello di Rafael Spregelburd, insignito per due volte del Premio Ubu per la drammaturgia straniera) che disorienta e dal quale siamo tentati di prendere le distanze, per non cadere nella disperazione. Ma il regista Tommaso Capodanno e gli interpreti in scena Matteo Berardinelli, Maria Chiara Bisceglia, Eleonora Pace, Tommaso Paolucci e Sabatino Trombetta hanno trovato il modo per “incastrare” con freschezza e ferocia lo spettatore in un necessario tornado interiore di domande: “qual è il tuo compito?”, “come si riconosce un popolo?”, “com’è non aver paura?” “come si fa?”. Ma soprattutto: riuscirà Hegel ad entrare in classe ? 

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.

Sani !

TEATRO QUIRINO, Dal 5 al 10 Aprile 2022 –

Uno spettacolo costruito sull’accordo tra parola e musica, per rivedere, rifondare e quindi celebrare i momenti di crisi che costellano la nostra esistenza. Crisi collettive, come quelle dell’emergenza climatica e della transizione ecologica ma anche personali, autobiografiche. Da affrontare con coraggio e fantasia, per riuscire ad apprezzare “il nuovo” senza bloccarsi ad aspettare che ritorni quello che era ma che non sarà più.

Quell’atteggiamento cantato da Sergio Endrigo ne “Il dolce paese“: brano che apre e chiude lo spettacolo. È il “beve un bicchiere e tira a campà, per vivere in fretta e scordare al più presto gli affanni e i problemi di tutte le ore. Tanto c’è il sole e c’è il mare blu” contro il “non lo so come si fa, ma voglio provarci” degli artisti. È la scelta di salutare con la parola “sani” anziché con la parola “ciao”. Con la prima si esprime la voglia di “gettare ponti”; la seconda allude invece al rendersi “servo”, “schiavo” dell’altro. Uno spettacolo che ci invita ad accogliere, ad aiutare, ad ospitare. Perché la “libertà” e l’ “altro” si danno in una sincronia inaggirabile. 

Uno spettacolo dove Marco Paolini sceglie di far circolare storie, idee, esperienze. Eccentricamente. Perché il teatro ha il compito di aiutare a far scattare la scintilla nella mente e nel cuore degli spettatori, che a loro volta possono diventare attori sulla scena della vita.

La presenza scenica di Paolini trasmette molto efficacemente, attraverso la voce, i gesti e le parole, la necessità di un cambiamento. Perché cambiamento significa speranza.

Lorenzo Monghuzzi, che accompagna ed enfatizza la narrazione di Paolini con la complicità dell’armonica a bocca e della chitarra classica, sa come graffiare, solleticare o rendere balsamo i concetti, per tradurceli in emozione.

Dietro i due cantori, una cattedrale di carta, dove i vuoti dominano sui pieni. Perché così sono i “ponti”, quei sani collegamenti cioè che sanno di dover essere pronti a trovare sempre nuovi equilibri. Come sembrano ricordarci le carte da gioco ancora appoggiate e in attesa di “entrare in gioco”. Disponibili, accoglienti, generose: pronte e desiderose di aiutare.

Leggi l’intervista Marco Paolini su Il Corriere della sera