David Copperfield sketch comedy -un carosello dickensiano

TEATRO VASCELLO, dal 28 Marzo al 2 Aprile 2023 –

È un inno all’istrionismo questo adattamento del “David Copperfield” dickensiano a cui dà vita il visionario regista Marco Isidori.

I sette attori-giocolieri in scena (ognuno con una pluri-partitura) volutamente indulgono in una recitazione enfatica, volta a suscitare plateali emozioni. Eccezionali le loro doti sceniche: un’atletica prestanza fisica si unisce ad una scultorea plasticità vocale, entrambe costantemente mutevoli. In bilico: così com’è la vita.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Una recitazione, la loro, proprio perché contestualmente variegata, ricca e magnetica: capace di esaltare fisicamente il testo. Sono loro stessi testo. Un testo in cui lo spettatore può concedersi il lusso di perdersi, lasciandosi trasportare. Senza preoccuparsi di capire.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Perché i personaggi sono parte di un tutto e tutto diventa personaggio. È un grande gioco: il gioco del teatro, del tutto per tutto. Gioco che i Marcido chiudono non con il malinconico disincanto de “La tempesta” shakespeariana ma con il grato ” Quant’è bello svanire ! ” .

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Dall’estroso caos della pittrice e scenografa Daniela Dal Cin, dove spesso accade che scena e costume si fondino e confondino, ha preso forma una macchina scenica sui generis. Calibratissima sempre. Sui tre lati del palco si sviluppa, a delimitare lo spazio scenico, una struttura metallica che apre a varie suggestioni: da un militare ripostiglio di armi in asta, a un’ordinatissima cabina-armadio di “personaggi” che, qui, hanno trovato un autore. Un dietro le quinte a vista: spartano ma caratissimo. In scena, invece, ci sono “le persone”, consapevolmente disposte, in tuta da lavoro con scritta “Marcidos at work”, ad essere in-vestite dai “personaggi”.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Il genio di Daniela Dal Cin li ha immaginati bidimensionali come ombre, alle quali la densità grottesca del tratto fumettistico dona tridimensionalità. Voluto è lo iato tra essere e apparire ma soprattutto esaltata è la frammentarietà della natura umana, alla quale il gioco del teatro riesce a dare un’unità. Temporanea. Sempre da ricalibrare sul prossimo equilibrio da riconquistare.

Il cast dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori agli applausi

Perché la vita è come una sarabanda: una danza figurata con la morte. Da replicare più volte, con improvvisazioni, secondo uno schema. Come in un carosello. Una continua e diversa “declinazione” è il gioco della vita . E del teatro. Una filosofia, quella del “clinamen ” epicureo, che questa storica compagnia ha assunto a giocosa identità ontologica .

Uno spettacolo che si riconferma una fantasmagorica opera d’arte totale, dove gli attori, abitati dalla percezione delle più varie identità umane, danno vita a partiture musicali incardinate dentro spazi di visione. Leggibili, al di là delle sovrastrutture di senso.

Bolle di sapone

TEATRO INDIA, 12 Marzo 2023 –

Vi siete mai accorti che dal Teatro India salgono delle bolle di sapone ? Fateci caso. Sono bolle della storia: quella che poteva essere ma poi non fu.

Con questa suggestione ha avuto inizio ieri la visita-spettacolo “Bolle di sapone – Storia e storie che s’intrecciano, tra passato e futuro” .

Spazi interni ed esterni del Teatro India

Non tutti sanno forse che l’area dove si dispiegano gli spazi interni ed esterni del Teatro India era quella della famosa azienda “Mira Lanza”, che nel 1924 prese origine dalla fusione di due antiche aziende concorrenti: la veneziana “Mira” e la torinese “Lanza”. 

Pubblicità televisiva della Mira Lanza

La visita-spettacolo, promossa dal Teatro di Roma ed ispirata da un testo del drammaturgo Luca Scarlini, è un continuo gioco tra passato e futuro, tenuti insieme da una parola chiave: “recupero”, promessa e poi destino di quest’area.

Luca Scarlini

Qui, ad esempio, nel 46 a.C. Cesare diede dimora alla maliarda Cleopatra, la quale trasformò questi spazi detti “Orti di Cesare” in una corte reale, sul modello di quella di Alessandria d’Egitto.

Qui, Papà Pio IX (1792 -1878) intuì, nonostante il suo noto conservatorismo, che potesse nascere “una nuova Roma”: prospettiva che sembrò prendere reale concretizzazione ai tempi della giunta Nathan (1907), la quale provò a riequilibrare il centro d’interesse primario della città, spostandolo dal Vaticano verso la zona Prati-Trionfale. Ma qualcosa non andò per il verso giusto …

Ernesto Nathan

E anche Pier Paolo Pasolini ne “Il pianto della scavatrice” ne lascia una suggestiva testimonianza:

Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi

I due forni in pirite, lo stabilimento d’acido solforico ora arena esterna e lo stabile delle docce ora bar-ristorante

Durante la visita-spettacolo si scopre inoltre che la scenografia post industriale degli spazi esterni del Teatro India è impreziosita, in una sorta di teatro nel teatro, da parti di scenografie relative a fastosi allestimenti passati:

come lo scudo in bronzo utilizzato per “L’ Edipo a Colono” di Mario Martone

o la miriade di piedi che tappezzano la parete esterna dell’edificio del Teatro (installati sempre in occasione dell’allestimento di “Edipo a Colono” di Mario Martone). E molto altro ancora.

Interno dell’arena estiva, ex stabilimento dell’acido solforico, qui utilizzato per la produzione di detersivi e detergenti

Si passa poi, alla visita delle sale interne del Teatro India che, caratterizzate dalla favorevole comunicazione tra spazi interni e spazi esterni, permettono un intrigante gioco di colpi di scena.

Il retro dell’ingresso al Teatro India

I tre giovani attori del Teatro di Roma, Sylvia Milton, Silvia Quondam e Antonio Bannó, ben lungi dall’essere stati delle semplici guide, ci hanno regalato una visita piena di bellezza, d’immaginazione e di meraviglia, iniziandoci alla percezione di quei sentori di esoticità e di mistero che il nome “India” evoca.

Antonio Bannó, Silvia Quondam e Sylvia Milton al termine della visita spettacolo

Un destino da “cantiere”, e quindi di continuo sogno, è quello che abita questo luogo, predisposto a soffiare sempre nuove, evanescenti ma preziose bolle di sapone. E in fondo, non siamo forse anche noi “della materia di cui son fatti i sogni”? E la nostra piccola vita non è forse “circondata da un sogno” ?

Il Tevere, fuori dal Teatro India

Bolle di sapone
Visita-spettacolo al Teatro India
Storia e storie che si intrecciano, tra passato e futuro
Testo di Luca Scarlinicon Francesca Astrei, Antonio Bannò, Dario Battaglia, Antonietta Bello, Flavio Francucci, Gloria Gulino, Sylvia Milton, Alice Palazzi, Lorenzo Parrotto, Silvia Quondam, Giulia Trippetta, Diego Valentino Venditti


PROSSIMO APPUNTAMENTO

sabato 27 maggio, ore 11.00


biglietti
12,00 € intero
10,00 € gruppi
6,00 € studenti
PER GRUPPI – solo su prenotazione
prenotazioni e informazioni
tel. 06.684.000.346 e-mail, dal lunedì a venerdì
visiteguidate@teatrodiroma.net

solo su prenotazione compatibilmente con la programmazione del Teatro
Teatro di Roma – Ufficio Promozione

Uscita d’emergenza

MARCONI TEATRO FESTIVAL, 30-31 Luglio 2022 –

Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.

Pacebbene e Cirillo

Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.

Claudio Boccaccini

Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.

Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.

Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.

Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.

Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo. 

Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)

Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.

Manlio Santanelli

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.