L’Oreste guarda la Luna dal suo “osservatorio astronomico”. Ne cerca la complicità, come Leopardi. Con l’Oreste lei ci sta. Ma solo nei sogni, nella sua immaginazione. La Luna è l’Amore: quello che l’Oreste non ha mai sperimentato, se non a senso unico. Poi però c’è quello per sua sorella Mariù (Marilena).
Ma lei è morta, come Ifigenia: offerta in sacrificio da suo padre, un po’ come fece Agamennone. La mamma dell’Oreste non riuscì a perdonare suo marito e lo uccise, novella Clitemnesta. Ma per l’Oreste tutto questo fu troppo. Qualcosa in lui si ruppe. E allora uccise sua madre, come l’Oreste della tragedia greca.
Sulla Terra le cose sono così “strane” che l’unico antidoto è dimenticarle. Far finta che non siano esistite. Far finta che tutto sia più leggero, immune allo schiacciamento a cui lo sottopone la forza di gravità. Come fossimo astronauti.
All’eccessiva densità della vita, l’Oreste resiste attraverso l’Immaginazione: il suo microcosmo è abitato da entità metafisiche che prendono vita, per noi del pubblico, grazie all’immersività di un’ accattivante grafic novel che abita il fondale e che nasce dalla mano di Andrea Bruno, uno dei migliori illustratori italiani.
Andrea Bruno
Ed è bellissimo vedere come l’Oreste, un magnifico Claudio Casadio, sappia coniugare il suo corpo, i suoi gesti ma soprattutto la sua voce al mondo della grafica che dà vita alla sua immaginazione. E, insieme, alle poche presenze amiche lì all’ “osservatorio astronomico” (il centro psichiatrico di Imola, dove è ricoverato). Ne scaturisce una contaminazione di generi – grafic novel + theatre – efficacissima.
Lì all’ “osservatorio astronomico” l’Oreste ha un amico, l’Ermes, che un po’ come il dio greco gli fa da “padre” e come il grillo parlante di Collodi gli ricorda “i confini” della realtà. Ma soprattutto gli fa compagnia fino alla fine: fino al fantasmagorico viaggio da Imola a Lucca e poi da lì in Russia fino alla Luna.
Perché l’Oreste riuscirà a essere dimesso dal suo “osservatorio astronomico” ma, nonostante le indicazioni del suo psichiatra, per reinserirsi nella vita ci saranno problemi. Già al bar dove si ferma a bere il caffè: la sua tazzina non riesce ad allinearsi nella direzione della catena delle altre tazzine. La sua volteggerà, fuori dal coro.
E allora farà ritorno nel suo “osservatorio astronomico” e da qui, presa coscienza che “la vita è uno schifo”, che lui non ne ha colpa ma che questo non conta niente, troverà un altro modo per fare il suo anelato viaggio. Decollerà. E arriverà sulla Luna. Mariù lo sta aspettando.
Claudio Casadio
Claudio Casadio riesce a trascinarci nell’assaporare l’ebrezza della vera libertà, che non esclude l’angoscia delle inevitabili umane vertigini. La sua mirabile capacità interpretativa trova massima espressione attraverso il testo che il celebre “scrivano” Francesco Niccolini gli ha cucito addosso su misura.
Francesco Niccolini
La regia del poliedrico Giuseppe Marini realizza uno spettacolo di denuncia poetica, dalla straziante bellezza. Ci guida in uno sguardo verso “la diversità”, solleticandoci quella necessaria misericordia che, sola, potrà salvarci.
Giuseppe Marini
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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman Stagione 2022 2023 “L’ORESTE” di Francesco Niccolini con CLAUDIO CASADIO illustrazioni di Andrea Bruno regia di Giuseppe Marino scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio costumi Helga Williams musiche originali Paolo Coletta light design Michele Lavanga aiuto regia Gaia Gastaldello direttore di scena Sammy Salerno tecnico video Marco Schiavoni collaborazione alla drammaturgia Claudio Casadio voci di Cecilia D’Amico (sorella) Andrea Paolotti (Ermes) Giuseppe Marini (dottore) Andrea Monno (infermiere)
A pochi giorni dal debutto del nuovo spettacolo di Alessandro Fea, “7 Sogni ” – in scena al Teatro Porta Portese il 15 e il 16 Aprile – ho avuto il piacere di intervistare il poliedrico musicista, autore e regista, per scoprire qualche preziosa anticipazione sull’evento.
Alessandro Fea
“ 7 Sogni “ è uno spettacolo ricco di suggestioni, di significati e di significanti. Molte, quindi, le domande che desidererei sottoporgli. Inizio dal titolo:
Perché, Alessandro, è importante parlare di ‘sogni” in questo momento? E perché proprio 7 ?
La scelta del numero 7 e’ legata a un gioco che coinvolge i protagonisti in scena. Non voglio andare oltre per ora: gli spettatori si appassioneranno a scoprirlo nel corso dello spettacolo.
Il “sogno” è il potere che si trova a gestire ciascun personaggio: il loro diverso modo di stare al mondo fa sì che ciascuno ne immagini uno proprio.
La capacità di sognare è, per me, centrale nella vita di noi esseri umani. È uno straordinario potere di cui disponiamo, capace di innescare in noi un meccanismo di reazione-azione ontologicamente terapeutico.
Per dimostrarlo ho scelto personaggi “ai margini”, allo stremo, messi all’angolo dalla cosiddetta società “civile”. Persi sì ma solo apparentemente perdenti o impossibilitati a qualunque reazione. Sarà invece proprio la loro capacità di “sognare una svolta”, di investire in una “presuntuosa” sfida, a regalare loro la più audace voglia di vivere e di reagire.
Mi è sembrato utile ricordare a noi tutti, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo, dov’è che va cercato il fulcro delle nostre esistenze. Da dove si originano le nostre migliori energie.
Trovo molto bella, Alessandro, la scelta di rendere protagonisti degli “esiliati”. Come nasce questa tua esigenza?
Dalla ricerca di una verità di vita. Perché per esperienza personale, e poi lavorativa, mi sono trovato spesso in contesti lontani dalle mie origini, io che sono nato in una Roma borghese. E lì, proprio in quei contesti così “diversi”, ho capito e imparato quanto la vita a volte non offra possibilità di scelta ad alcune persone.
Mi riferisco a situazioni sociali di povertà, di disabilità, di prostituzione. Ma nascere in certi contesti piuttosto che in altri, ti “investe” anche di un imprinting speciale. Paradossalmente, dove c’è “meno” ho sempre trovato “il più“: una umanità “talentuosamente” portata a valorizzare le piccole cose e la preziosa unicità delle relazioni umane. Lungi dall’essere un giudizio, trovo che questa sia la pura realtà.
E dare voce a chi non riesce ad averla, credo sia un dovere per chi come me scrive e sente l’esigenza di dare un volto alla sofferenza. Sono consapevole che risulta “scomodo” parlare di certi argomenti e focalizzare l’attenzione su certe situazioni sociali “al limite”. Preferibile, per i più, ghettizzarle in luoghi lontani dagli occhi.
Ma se penso a figure come Lou Reed che per una vita hanno scritto di periferie, di droga, di emarginati, sapendo trovare il modo di farne “poesia”, allora perché non prendere esempio promuovendo questo impegno sociale a voler dare voce a chi non ha la possibilità di urlare ?
Che cosa rappresenta oggi la periferia, Alessandro ?
La periferia di oggi è diversa da quella descritta da tanti autori anni fa. Oggi, almeno a mio avviso, le città sono sempre più “costruite a blocchi” talmente isolati ed autonomi da divenire “micro città” nelle città stesse.
Al degrado urbano e sociale sempre più marcato dovrebbe rispondere una forte esigenza a far convivere culture diverse. C’è invece una grande difficoltà giovanile a trovare lavoro. C’è una crisi di valori sociali e morali altissima: complice anche la devastante presenza di Internet nelle nostre vite, che tende ad annullare il distacco tra realtà e finzione.
Colori sonori
Che tipo di musica hai composto per accompagnare queste storie?
Un po’ sulla scia dello spettacolo “Anna e altre Storie”, come cornice sonora sono andato su suoni “attuali”. Mi sono ispirato a brani recenti, ai suoni industriali, alle voci italiane dell’ultima generazione che gridano dolore esprimendo con insofferenza le problematiche da cui sono afflitte.
Non parlo di Trap (che non amo affatto) ma di giovani autori che si esprimono in maniera decisamente interessante in quanto appassionati verso nuove ricerche sonore e testuali. Mi è piaciuto relazionarmi con loro attraverso il mio stile. Trovo che si sia creato così un fertile flusso tra me e loro. Uno stimolante scambio generazionale tra un musicista boomers e nuove leve.
Il “suono” del dramma, della sofferenza, l’urlo che ne viene fuori, ha una base forte. Suoni diretti, duri, quando questo è il messaggio da veicolare. Morbidi, romantici quando serve altro. Come sempre accade nei miei spettacoli, la musica è quel “personaggio” in più che parla con gli attori.
E ora parliamo della tua compagnia “Sofis”: cosa racchiude questo nome? Qual è lo spirito che la guida ? Cosa vi unisce ?
Il nome è nato come omaggio a mia figlia Sofia nata ormai 20 anni fa. Lo spirito che ho sempre cercato di avere è quello di scrivere storie urbane, vere. Ho sempre sperato che potessimo diventare un piccolo punto di riferimento nell’immenso mondo teatrale, con il nostro stile, il nostro linguaggio.
Considero il lavoro per la compagnia un vero e proprio “viaggio”. Un viaggio bellissimo in cui ogni singolo elemento che va, che viene, che entra, che esce, si possa trovare a suo agio e possa dare così il proprio contributo con tutto l’entusiasmo che cerchiamo sempre di mettere in tutto quello che facciamo.
La prima regola per me è sempre quella di creare un clima dove non ci siano “prime donne” ma tutti al servizio di tutti, me compreso. Un lavoro collettivo, di continuo scambio, di crescita continua, fatta di preziose osservazioni critiche, indispensabili per correggere il tiro.
E questa filosofia negli anni ha pagato: lavorare in un clima siffatto evidenzia infatti l’ unicità dei singoli attori. E li aiuta a crescere, non solo sul palco. Vengono valorizzate a 360 gradi le caratteristiche migliori di ciascuno, perché è la forza del gruppo a renderlo possibile. Esattamente come in questo spettacolo.
Mi piacciono molto i concetti di “solidarietà da branco” , di “istinto ferale” e quello di “fare cerchio”. Parliamone.
Come detto sopra, è la forza del gruppo la vera leva. Un gruppo che può anche litigare, avere crisi di qualsiasi tipo ma alla fine trova sempre il modo di compattarsi. E che quando si verifica “un attacco esterno” riesce sempre a trovare energie, quasi inimmaginabili, per combatterlo.
Esplicando un vero e proprio spirito di sopravvivenza ancestrale, dove l’umanità, il vero senso di umanità, vince, vive. Esiste. Valore esistenziale che non sempre nella società di oggi riesce a trovare espressione, soprattutto quando invece invita a chiudersi nel proprio singolo egoismo.
In un orizzonte che accecato dall’egocentrismo dà vita a “isole” umane più che a “reti” relazionali. Mentre invece è proprio nell’aiuto che solo il “branco” può offrire, che ci si ritrova davvero. Nella propria essenza. E si cresce. Ci si evolve. Nel confronto, nello scontro, nel dialogo.
Ti ringrazio Alessandro. Ora non resta che venire a vedere il tuo spettacolo !
Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.
Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.
Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.
Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”
Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.
Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales
Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.
È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.
Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.
Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.
In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.
Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.
Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.
“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.
E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .
Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.
E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .
Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?
La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.
Lorenzo Sabene
Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.
Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.
E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.
Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.
Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.
Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”
Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.
Francesco D’Alfonso
Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.
Ieri sera, per la prima de “La dodicesima notte (o “Quel che volete”) di William Shakespeare, il palco del Teatro Olimpico si è travestito, o meglio, ha preso le sembianze di quello del Globe Theatre. La regista Loredana Scaramella, storica collaboratrice del maestro Gigi Proietti, salita sul palco prima dell’inizio dello spettacolo per suggellare l’emozione del riavvio della programmazione della stagione del Globe presso il Teatro Olimpico, ha realizzato un adattamento del testo shakespeariano intorno al tema centrale del “tempo”.
Loredana Scaramella
Un enorme orologio (le scene sono di Fabiana Di Marco) campeggia appeso al piano superiore della scenografia e si riflette sul palco attraverso la disposizione circolare di dodici sedie, che ospitano gli attori. Tutti, sempre presenti in scena. L’orologio-macrocosmo, appeso in alto, si carica esteticamente “a batteria” (al suo interno ospita il batterista e la sua strumentazione) ma metaforicamente “a carica”, nel senso che è al personaggio di Feste, il Matto, ad essere delegato il movimento di carica e pausa della messa in scena, attraverso la sola lancetta delle ore (come nei primi orologi meccanici del Rinascimento).
Carlo Ragone
Nella ripresa del neoplatonismo, così in voga ai tempi di Shakespeare, l’uomo, ricollocato al centro dell’Universo, è artefice del suo destino (homo faber ipsius fortunae) e può controllare e governare le cose del Mondo. Così anche il Tempo. Sul palco-microcosmo sono gli stessi attori a occupare da protagonisti le sedie-meccanismo del quadrante delle dodici ore, che danno forma alla dodicesima e ultima giornata dei festeggiamenti (iniziati con il Natale e proseguiti fino all’Epifania). Il periodo festivo per eccellenza, nell’Inghilterra elisabettiana. Non c’è tempo da perdere, quindi !
Lo spettacolo si apre all’alba della dodicesima e ultima giornata di festa con un naufragio che si trasmuta oniricamente in una festa sregolata. Coerentemente al “Quel che volete” del titolo dell’opera, viene messa in scena un’onirica contaminazione di materiali e di generi, dando volutamente ospitalità a quelle spinte del desiderio che portano all’allegro coesistere di confusioni e ambiguità. Come in un libero gioco di sentimenti ed azioni. Il tempo della giornata scorre ad un ritmo sempre più accelerato verso una mezzanotte frenetica, che sancisce la fine della festa e l’avverarsi dei desideri.
Ma… “forza e coraggio, che la vita è un passaggio!”. Il carattere dissacratorio e totalmente libero dell’eccezionalità di questo periodo, di questo “spazio temporale curvo”, si è momentaneamente concluso. E il consueto giro delle ore e dei giorni è pronto a ricominciare.
Rinascimentale la scelta di “profanare” i brani musicali (musiche a cura di Adriano Dragotta, canzoni originali di Mimosa Campironi, eseguite dal vivo dal quartetto William Kemp): un mix di brani di classica e punk-rock, eseguiti dall’orchestra ospitata al secondo piano della scenografia e avvolta in un velatino, a rendere ancora più onirica la visione e quindi l’ascolto.
Rockeggianti i fascinosi costumi dei personaggi più altolocati: dalla dark Olivia in total black e capelli rosso fuoco, al Conte Orsino dal torso nudo ornato da imbracature in pelle sadomaso bondage, esaltate dal contrasto con un soprabito gotico-barocco. Molto simile, ma privo di soprabito, il costume di Feste il Matto, un Carlo Ragone che brilla per un “elegantemente folle” uso del corpo.
Geniale l’idea di rendere i due fratelli gemelli Viola e Sebastiano degli avatar in quotidiani abiti pop (tutti i costumi nascono dall’estro di Susanna Proietti).
L’alternanza metrica scelta da Shakespeare, il pentametro giambico (sciolto o rimato) misto a prosa è riproposta qui ma con un’originalità che vira al musical. Il risultato è decisamente efficace. Complice un disegno luci raffinatamente psicadelico (il light designer è Umile Vainieri). Tutti i meccanismi dell’ “orologio attoriale” risultano ben sincronizzati, sia nei tempi reali che in quelli onirici, contribuendo efficacemente alla realizzazione di uno spettacolo di fantasmagorica bellezza.
Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.
Pacebbene e Cirillo
Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.
Claudio Boccaccini
Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.
Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.
Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.
Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.
Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo.
Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)
Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.
Vi è mai capitato di sognare gli articoli della Costituzione della Repubblica Italiana? Non è mica così strano! Basta partire da qualche episodio che ci è capitato durante il giorno, da qualche conversazione. Questa è l’idea brillante che ha sviluppato il regista e autore del testo Alessio Pinto: la Costituzione non è niente di incredibile. Permea la vita di ogni giorno.
Ma forse proprio perché così vicina, non riusciamo a notarla, a riconoscerla. A rispettarla. Ecco che allora può essere d’aiuto provare a immaginare che effetto farebbe la nostra Costituzione su qualcuno che viene da un’altra realtà, da un’altra quotidianità. Vediamo cosa ci rimanda il suo “specchio”. È così che Alessio Pinto immagina sulla scena un gruppo di ragazzi di diversa provenienza geografica, che condividono, apparentemente, solo uno spazio, un appartamento.
Un giorno, però, a condividere le spese (e non solo) arriverà un’insolita Lady, straniera alla Costituzione della Repubblica Italiana. Sarà lei, attraverso il suo diverso sguardo, ad illuminare le contraddizioni del nostro modo di “vivere” la Costituzione. Anzi sarà l’occasione per riscoprire i valori (dimenticati) alla base del nostro vivere in comunità. Rispettandoci davvero nelle nostre diversità. Proprio per le nostre diversità: così ricche di bellezza. Ma soprattutto riscoprendo il valore dei valori: la solidarietà.
Il regista sceglie poi, con efficace suggestione, di sottolineare i valori inalienabili contenuti nei primi dodici articoli della Costituzione, associandoli alla magia contenuta in alcuni testi, sapientemente selezionati, di David Bowie. Ed è lo stesso Alessio Pinto ad interpretarli con la complicità della sua inseparabile chitarra: affascinante menestrello.
I quattro interpreti sulla scena Giulia Martinelli, Danilo Brandizzi, Marta Marino e Alessandro Giova brillano nel tenere e sostenere l’incalzante ed effervescente ritmo della narrazione, punteggiato da momenti di comicità, ben colti e resi. Registro importantissimo e insieme delicato, quello della comicità, per veicolare con efficace leggerezza la necessità di modificare atteggiamenti sociali ed etici “viziati”. Perché il teatro è anche questo.
Come si sopravvive ad una caduta? Si può “discernere nel cadere”?
Vibrante e pura, Donatella Finocchiaro veste i panni di una Goliarda Sapienza passionale e onirica, vestita da notte e di notte. Sbuca di nascosto da una quinta, ci viene a cercare, ci prende per mano e come in una ripresa in soggettiva ci apre il teatro della sua mente: allucinato e insieme crudelmente lucido. Così, spudoratamente: come le regole della buona dizione esigono di fare, per pronunciare correttamente quelle maledette “e” aperte. Che ti scardinano la mascella. E non solo.
Con il desiderio impellente di raggomitolarsi vicino a noi della platea, come era solita fare con la madre, nel letto. Lei, però, senza guardarla. E ci avverte che la conditio sine qua non per sopravvivere lì, nel suo teatro mentale, è accettare il caos, dove tutto vive e coesiste nello stesso luogo. Dove i vivi e i morti stanno insieme. Adattando la vista alla foschia che avvolge tutto. Nel disperato tentativo di riallacciarsi alle proprie radici, che l’avviluppano ma insieme la sostengono; che l’aggrovigliano ma anche la nutrono. Ma soprattutto affermando e confermando la propria estraneità ad ogni pregiudizio morale.
Al termine di questo notturno prologo, Iuzza (vezzeggiativo usato dalla famiglia al posto di Goliarda) entra nel sipario e ci conduce nella stanza della sua casa, dove l’analista (un fragile e immenso Roberto De Francesco) si reca tutti i giorni all’ora di mezzogiorno. Lui, quello che si ostina a chiamarla “Signora” e che ha cercato di organizzare il suo caos dentro categorie assolute, cercando di imporle la sua personale verità. Scoprendo poi nel corso del setting di essere anche lui, però, un paziente bisognoso.
Da qui l’idea registica di Mario Martone, resa con efficacia scenografica da Carmine Guarino, di immaginare uno stanza “a specchio”: rendendo così anche scenograficamente una particolare dinamica relazionale tra paziente e terapeuta (e più in generale umana). Avendo difficoltà a vedere le nostre ombre e persino le nostre virtù, la vita ci regala relazioni. L’altra persona ci fa da specchio, riflettendo la nostra immagine e dandoci la possibilità di ritrovare noi stessi. Da questo meccanismo non è immune neanche il terapeuta.
Come nella vicenda di Goliarda Sapienza, i problemi personali del terapeuta spesso approdano nel suo studio, vestiti dei panni dei propri pazienti. Condizione umanissima, che il regista sceglie di sottolineare senza giudicare, riconoscendogli tutta la dignità che merita. Non a caso, infatti, attraverso l’elegante adattamento di Ippolita di Majo, il registra Mario Martone costruisce una narrazione nella quale ripercorre la terapia con Ignazio Majore, rinomato freudiano dell’epoca, ma lo fa mettendo in scena uno sguardo che, grazie alla sovrapposizione della scrittura di Goliarda Sapienza, va via via rischiarandosi e insieme infoscandosi.
E lo specchio s’infrange: ne sentiamo il rumore; ne vediamo gli effetti. Perché così è la vita: coerenza-repellente. Martone, sulla scia del più profondo sentire della Sapienza, fa di questo spettacolo un inno all’incoerenza, così indissolubilmente legata alla natura umana. La sua è una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi (che a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”).
Terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: uno problematizza l’altro, uno analizza l’altro. Da questa esperienza selvaggia, Goliarda Sapienza raccoglie i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Citto Maselli, il compagno che l’aveva indirizzata nelle mani di Majore, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere.
Ferita ma furiosamente viva, intuisce che ora la sua terapia funzionale e salvifica, è la scrittura. Capace di restituirle una libertà, che non esclude le trappole dell’umano, dolorosamente necessarie. Così, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee ma soprattutto del diritto alla morte. E così, scendendo in platea, per farsi prossemicamente più vicina a noi, ci invita a “pensare”, prima ancora di “dirlo” (cioè di ridurlo nelle convenzioni del linguaggio) che muore solo chi ha vissuto.