Medea

TEATRO ARGENTINA, 19 Maggio 2022 –

Un vero e proprio elogio dell’imperfezione, quello che è andato in scena ieri sera al Teatro Argentina: una preziosa occasione per percorrere nuove strade e trovare nuove soluzioni. Imperfezioni da capire ma soprattutto da ammettere senza pudore. E magari risolvere. Perchè “sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna, che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto” (da Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam).

Ideata e diretta da Dario D’Ambrosi, la Medea di Euripide ci si offre in una particolarissima versione: quella interpretata dagli attori diversamente abili della Compagnia stabile del Teatro Patologico, a conclusione del Corso universitario sperimentale di Teatro Integrato dell’Emozione. Il Corso, realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, coinvolge circa cinquanta ragazzi disabili psichici e fisici, provenienti da tutte le zone di Roma. Nel 2017 questo Corso, unico al mondo, è stato presentato presso la Sede delle Nazioni Unite a New York, in occasione della celebrazione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. Un’ iniziativa che promuove la formazione di una rete di supporto integrato, capace di dare inizio ad una rivoluzione in ambito assistenziale. Ma soprattutto sociale e politico.  Gli interpreti sono affiancati, sulla scena, da attori professionisti, tra cui Sebastiano Somma, Almerica Schiavo insieme a Paolo Vaselli e Marina Starace.

L’ adattamento di Dario D’Ambrosio (fondatore, presidente e direttore artistico dell’Associazione Teatro Patologico) pone al centro dello spettacolo il rapporto tra corpo e linguaggio, veicolato dalla musica dal vivo, che accompagna i momenti in greco antico. Perchè il linguaggio musicale non è un tappeto ma un vero e proprio intervento corporeo, capace di arricchire le suggestioni evocate da un lingua antica e musicale, come il greco antico. Le musiche originali sono di Francesco Santalucia mentre la direzione del Coro e delle Percussioni è affidata a Francesco Maria Crudele, in arte Papaceccio. Potentemente poetico l’intervento al flauto traverso: quasi una visione di Ian Anderson dei Jethro Tull.

Lo spettacolo, che emana un forte senso di coralità, si articola per “quadri” che visualizzano quei momenti della tragedia di Euripide che più si caricano di pathos contraddittorio, dove cioè il desiderio di potenza e il terrore dell’impotenza convivono. Degli interpreti è impossibile non apprezzare la sacralità dei gesti, la precisione coreografica, la concentrazione e la presenza scenica.

Curatissimi e potentemente evocativi i costumi di Raffaella Toni.

Lo spettacolo ha fatto il giro del mondo, calcando palcoscenici internazionali come: il Quartier Generale delle Nazioni Unite di New York (ONU), l’Auditorium Umberto Agnelli di Tokyo, il Winton’s Music Hall di Londra, il Parlamento Europeo di Bruxelles, e ancora il Market Theater di Johannesburg (Sudafrica) e il Teatro Cafè La Mama di New York.

Con vivo auspicio, ci si augura che questo prezioso corso universitario sperimentale possa essere trasformato in corso ufficiale e diffuso nelle Università di tutta l’Italia.

Recensione dello spettacolo NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE di Bernard-Marie Koltès – regia di Andrea De Rosa

TEATRO INDIA, Dal 17 al 29 Maggio 2022 –

Qualcuno ci sta spiando, laggiù in fondo al palco. Oltre il palco. La scena è senza argini: si dà senza pudore. Il sipario c’è ma ha perso la sua funzione: ne resta solo una parte ed è relegato verso la metà del palco, raccolto solo sul lato sinistro. Il suo rosso acceso è l’unica nota di colore in uno spazio indefinito.

Anche le luci sono dislocate: lasciano l’alto e s’incarnano su due treppiedi che dominano la scena: loro i primi personaggi che si palesano. Il flusso luminoso non è libero, a differenza dello spazio in cui sono immerse. È contenuto, delimitato e indirizzato verso la destra del proscenio, verso qualcuno o qualcosa che deve arrivare E poi c’è sempre quella donna laggiù, in fondo, oltre il fondale.

Federica Rosellini

Ci osserva, uno ad uno, mentre prendiamo posto in sala. Ci legge. Sembra saperne più di noi. È una presenza imbarazzante. Ma ad un certo punto non resiste. E avanza verso di noi: scalza, dal crine sciolto, indossando (ancora) un costume d’epoca. Arriva fino in proscenio: ci guarda tutti, si spoglia del soprabito e lo stende a terra. Come a deporre le armi. Solo ora le luci si abbassano e si diffonde la prima Variazione Goldberg: “Aria”. La donna ci rivela che quello che stiamo condividendo con lei è un particolare momento del giorno: “l’ora che volge al crepuscolo”, quella in cui s’incontrano solo persone alle quali “manca qualcosa”. Come noi. Come colui che si sta avvicinando da fuori, rasentando il muro, dal quale con difficoltà e di malavoglia si stacca.  

Federica Rosellini e Lino Musella

La donna si dichiara, con spavalda e seducente umiltà, come colei che possiede la capacità di soddisfare i desideri altrui. Ma anche lei può e vuole desiderare. E per farlo ha bisogno “che le sia chiesto” di soddisfare quel particolare desiderio. Questa è la sua “mancanza”, di cui è consapevole, e che anela fino ad esigere di soddisfare. Come “la sporgenza cerca l’incavo”. In una geometria di prossemici avvicinamenti e fughe, sui quali sono costruite le stesse Variazioni Goldberg, qui interpretate da Glenn Gould.

Federica Rosellini

Una geometria che non rifugge l’ampio spettro delle emozioni, anzi le esalta, le scova, toccandone ogni possibilità espressiva. Ma occorre saper modulare “le altezze” dalle quali si guarda. Lei attacca, dall’alto della sua consapevolezza, sfoderando tutte le sue arti di seduttiva venditrice. Ma lui le resiste. Sebbene riconosca che lo sguardo di lei “potrebbe far venire a galla il fango”, si trincera dietro i canoni dell’omologazione. Ora, però, è avvenuto questo incontro e nulla è più come prima.

Federica Rosellini e Lino Musella

Nonostante ciò, resiste alla forte spinta eversiva: si posiziona più in alto e si gloria di “saper dire no”. E lei, di “conoscere tutti i sì”. Ovviamente non succede nulla e la venditrice retrocede all’indietro, di spalle, senza voler riconoscere e offrire la propria vulnerabilità. Torna a quel che resta del suo sipario e da lì ricava nuova energia per risorgere dalle due ceneri, come solo la fenice sa fare. E così farà più volte, per tutti i “no” che lui le dirà.

Federica Rosellini

Fino a che non inizierà a guardarlo da “una nuova altezza” concedendogli di non guardarla, di immaginare “di chiederle” di esaudire il suo desiderio nella solitudine tipica di un campo di cotone. Ancora un “no”: lei è troppo “strana”. “Laddove mi aspetterei pugni, arrivano carezze”- si difende lui. Ma la donna sa aspettare e sa che ognuno ha i suoi tempi per riconoscere dignità ai propri desideri. E solo quando lei, iniziando a scendere dal suo piedistallo, si confesserà “povera” per il bisogno che la abita costantemente, anche lui allenterà le redini.

Lino Musella e Federica Rosellini

Troveranno un piano comune sul quale incontrarsi senza difese, dove riuscire a scambiarsi la propria pelle, quella più sospettosa. Perché il desiderio ci vuole disarmati, poveri, aperti. E i proiettori che prima erano indirizzati solo sull’ “altro”, con fare inquisitorio, ora la donna li indirizza verso il sipario: il luogo del “noi”, che ci vede tutti inclini ad abbassarci fino al più profondo degli inchini. Per poterci, poi, librare alti come aquile. E poi di nuovo anelanti del “basso”: condizione indispensabile per poter spiccare davvero nuovi e intrepidi voli. Altissimi.

Federica Rosellini e Lino Musella

Magnifica, la scelta del regista Andrea De Rosa di affidare ad una donna la parte del “venditore”. I sospetti verso chi è interessato a creare o scoprire bisogni in noi sono amplificati esponenzialmente da ciò che risulta più difficilmente traducibile: la natura femminile. Lo straniero più straniero. La più ricca di variazioni. Ma anche nell’uomo abita una donna difficile da tradurre (anche per una donna).

Il regista Andrea De Rosa

Federica Rosellini e Lino Musella ne sono stati enigmatici ed illuminanti interpreti. Uno spettacolo sulla potenza vitale dell’incontro. Perché ciò che dà sapore alla vita è il carattere rivoluzionario di certi incontri. Come il teatro ci insegna da sempre.

Teatro India


Recensione di Sonia Remoli

Glory Wall

TEATRO VASCELLO, Dal 10 al 15 Maggio 2022 –

Immaginate un muro bianco che delimita il proscenio: una quarta parete che chiude, e quindi censura, la scatola teatrale, impedendo la visione e l’interazione globale con l’attore. Nessun regista, ne’ tecnici a garanzia.

Sopperite alle mancanze con le risorse della vostra immaginazione: dove vedete un singolo foro da cui sbuca una bocca aperta o un braccio, immaginate l’intero corpo dell’attore. Moltiplicate per mille un foro e con l’aiuto della fantasia createvi uno spazio dove corpi pulsanti, interagiscano liberamente.

E, a questo fine, permettete a quel che resta del Coro di entrare in questa storia nelle vesti di un prologo digitato sul muro e di ascoltare con benevola pazienza i paradossi che vi saranno presentati. E con molta arguzia giudicarli.

Questo è il potere dell’arte: ” …perché uno spettacolo sulla censura, la censura lo censura”. 

“Quando la Biennale Teatro 2020 mi ha commissionato uno spettacolo sulla censura, mi sono trovato davanti ad un muro” – dice Leonardo Manzan, il regista che con “Glory Wall” si è aggiudicato il premio Miglior spettacolo.

Manzan non sceglie mezze misure ma la pura provocazione, il muro contro muro, alludendo così al corpo contro corpo. Utilizza cioè un approccio che parte dalla serietà, passa per la ridicolizzazione e arriva alla dissacrazione, al fine di poter vivere e far vivere davvero il tema della censura.

Da qui la scelta di coprire, chiudere, censurare il palco con un muro sulla quarta parete per spostare tutta l’attenzione sul pubblico. Nascondendogli di proposito il corpo dell’attore e negandogli la garanzia del lavoro di creazione ordinata del regista e dei tecnici.

Scegliere di proporre uno spettacolo che si svolge dietro ad un muro, significa iniziare a sperimentare la necessità di perdere, almeno un po’, il controllo sulla situazione. Il risultato che arriva è quello di sentirsi più importanti e più liberi: effetti collaterali della censura.

Uno spettacolo “scomodo” nel senso letterale del termine: dove si mette in difficoltà sia l’attore che lo spettatore. Un gioco sì ma un gioco serio, radicale, intelligente, ironico. Perché quando si censurano gli altri, si sta censurando anche se stessi.

E allora tutto si riduce a frammentarietà: il corpo si riduce a piccole parti anatomiche (bocche, dita, braccia, ecc.) che interagiscono con il pubblico da liberi frammenti di vuoto: i piccoli fori del muro. Senza la libertà, caotica e quindi anche angosciosa, del vuoto creativo che scatena l’immaginazione, la fruibilità della realtà si riduce a un’ordinata sterilizzazione.

“Ma noi, vogliamo fare davvero quello che possiamo?”. Vogliamo immergerci nel caos, aperti, in attesa di essere accesi? “Qualcuno ha da accendere?”

Gli amici di Peter

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 15 Maggio 2022 –

“La verità non è facile da dire”.

Che cosa “ci accade” veramente? Che cosa vogliamo davvero?

Queste le domande sulle quali Stefano Messina, regista di una profonda e brillante commedia, sceglie di farci riflettere. Così come con elegante coerenza Alessandro Chiti, che ne cura la scenografia, riesce ad alludere con efficacia.

Ciò che ci appare chiaro e nitido in realtà non lo è. La verità, come sosteneva Arthur Schopenhauer, è ricoperta da un velo, difficile da attraversare. “Ci vuole arguzia” – sembra volerci suggerire il regista: ecco allora che in apertura dello spettacolo, a mo’ di prologo, la testa di un attore riesce ad individuare una feritoia e da lì sbuca, penetrando il velo del sipario. E così riusciranno a fare anche i suoi amici: acrobaticamente in verticale, sfruttandone morfologicamente l’opportunità.

Perché è con profonda leggerezza, complicità ed altruismo che possiamo riemergere da situazioni disperate, da “stagnaro ignaro”. C’è sempre un modo per “far benzina”, anche quando la macchina si arresta nel bosco: questo è il segreto nascosto nell’allegro e spensierato jungle da avanspettacolo che apre e chiude l’interessante adattamento proposto dal regista.

E dove i suoi attori, come “vecchi guitti”, sanno farsi coinvolgenti interpreti, calandosi nei diversi ruoli nei quali siamo chiamati “a giocare” ogni giorno. Tutti i giorni. Per tutta la vita.

Recensione dello spettacolo VENERE E ADONE – Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti sogni – di e con Roberto Latini –

TEATRO VASCELLO, Dal 6 all’8 Maggio 2022 –

L’amore nasce dal caso e può diventare un destino. Per un caso Venere s’innamora perdutamente di Adone: per baciarla, suo figlio Cupido, le si avvicina troppo e per errore una freccia parte dal suo arco. È un amore non ricambiato quello di Venere ma che ugualmente altera il respiro, fa ansimare, produce pensieri ossessivi, mette le ali, fa cadere.

Roberto Latini

Di ferro sono le ali immaginate dal regista Roberto Latini, collegate ad una cassa toracica anch’essa di ferro. Così come l’arco, che nasce da una fusione con l’asta del microfono, metamorfico oggetto di scena. Questo è il suo Cupido: appesantito, rigido e insieme languido. Innamorato della sua mamma. Quasi geloso. Anche lui patisce un amore non ricambiato, anche lui ansima e parla dell’angoscia della libertà, come nella celebre aria di Händel:

“Lascia ch’io pianga

Mia cruda sorte

E che sospiri la libertà!”

E che sospiri

E che sospiri la libertà!”

Roberto Latini

I suoi piedi poggiano su di “un indegno tavolato” ridotto, o amplificato, a una minuscola pedana ospitante la sua tecno-orchestra, replicante ossessive, lacerate e distorte sonorità. È il tormento dell’amore, che ci trova e ci lascia disarmati. Senza parole, senza un senso: “mi è cresciuto dentro un vuoto … come mai, non so dirlo, non so dirlo, ancora”. È l’ambivalenza del potere dell’impotenza, che ci strugge e ci affascina. E ci sorprende a dire sempre “ancora”. Così si chiude il primo capitolo del racconto del regista.

Roberto Latini

Latini immagina che ciascuno dei personaggi coinvolti nel mito desideri raccontare la propria narrazione al pubblico. La ricerca di questa intimità è necessaria, urgente e sentita da tutti, anche dal cinghiale che ferì mortalmente Adone. Con un guizzo di genialità, Latini lo fa entrare in scena nelle vesti di Riccardo III, cinto da una corona di freccette. È l’antagonista dell’arciere Cupido. Lui che pare centrare ogni bersaglio che si prefigge ma che alla fine resterà vittima di una freccia altrui.

Pronuncia il suo più famoso monologo con il ritmo trotterellante di un solitario cinghiale prima che punti il bersaglio e galoppi lungo la sua rossa e rettilinea traiettoria (qui immaginata come un lungo red carpet) ad azzannarlo. Latini ci restituisce l’immagine di un uomo immerso nel risuonare ossessivo della parola RE, suffisso di altre parole, come ad esempio re-spiro, anche lui, a suo modo, vittima di un amore negato, a causa delle sue forme.

E allora, quasi come in un quadro di Chagall, scopriamo un uomo leggero nella sua pesantezza, maneggiare un arco come un violino e viceversa. Un uomo sprofondato e sollevato nel seguire ossessivamente la parola MI, se stesso: mi accorgo, mi fingo e poi però ti spingo, ti infilzo, ti piango, t’ammazzo. E ti abbraccio.

Al suo uscire entra un tipo in vestaglia di seta, con fantasie giapponesi (ovviamente sempre il metamorfico Latini) . Si siede su un Chesterfield gonfiabile. Ai suoi piedi una glacette di plastica (un secchio), in distratto ascolto di una specie di karaoke di pensieri, proiettati su schermo. Una lettera d’addio. La brutta copia di un commiato d’amore. È Adone. Dietro di sé Venere, che lo invoca da un giradischi che suona:

“… c’è solo mezza luna stanotte

Niente può accadere

Perfino lontano da niente succede qualcosa.

Ma non qui…”. 

“Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”. E quella che vediamo nel capitolo successivo è una Venere ridotta quasi alla condizione di barbona. Coperta di stracci, ha perso l’eleganza del suo incedere. E trascina un carrello della spesa in cerca di cibo. Perché l’amore è mancanza: Eros nasce in una notte d’amore rubato da Penia (la dea della povertà) a Poros (colui che è la Via), dormiente ubriaco, compagni nel mendicare briciole, alla fine di un banchetto al quale non erano stati invitati. Qui, nel carrello della spesa di Venere, c’è solo qualcosa di secco, ricordo o speranza di ciò che poteva essere vivo e pulsante.

Il racconto si chiude con il capitolo intitolato “Chiunque”, affidato ad un cane telecomandato: in amore noi non abbiamo nessun controllo di noi stessi. Qualcun altro ci accende. E ci spegne.

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Roberto Latini non smette di sorprendere come interprete e come regista. La sua è una sensibilità piena di estro che incanta e scuote la platea (di giovanissimi).


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IN EXITU – di Giovanni Testori – regia di Roberto Latini

TEATRO VASCELLO, dal 3 al 5 Maggio 2022 –

Quella che il talentuoso regista, attore e drammaturgo Roberto Latini porta in scena al Teatro Vascello di Roma fino a stasera, è la via crucis  a cerchi concentrici della “passione” del tossico omosessuale, della Milano degli anni ’80, protagonista dell’ultima opera di Giovanni Testori “In exitu” .

Roberto Latini

La scena si apre e si chiude con il passaggio di dolci raffiche di soffi vitali (e mortali) che sconvolgono bianchi teli.  Quasi a ricordarci che osmotico è il passaggio tra la vita e la morte. E che basta una luce che entra di taglio per proiettare ombre su quel bianco abbacinante.

Il protagonista Rivolsi Gino entra in scena, ovvero in un bagno della Stazione Centrale (suggestivamente evocata da un fumoso binario in proscenio), con una postura che non lascerà quasi mai per tutto lo spettacolo e che lo rende quasi la personificazione dell’asta-microfono che non smetterà di impugnare.

Roberto Latini

Come lei  resta piegato a 45 gradi  fino a raggiungere, nei momenti di maggiore travagliamento fisico e mentale, anche angolazioni più feroci. Quasi come in un virtuosismo allucinogeno da star del rock. Pavimento del peso delle sue parole, un frammentato tappeto di materassi nei quali affonda e sprofonda con una fatica che riesce a vivere anche lo spettatore.

Sarebbe bastato abbassarli ma invece lui li sfila via e li tiene in mano, i pantaloni. Le sue gambe, per noi, sono il suo volto (che invece resta quasi costantemente rivolto verso il basso, per la contorsione posturale): dalla loro tensione nervosa e muscolare ricaviamo segnali con i quali entrare in empatia. Fino a diventare panicamente “goccia” con la sua “goccia” ; respiro con il suo respiro. 

Roberto Latini

I suoi passi, o meglio il suo affondare e il suo sprofondare, sono i suoi pensieri: ossessivi, compulsivi. Strazianti come una confessione, o accorate come una preghiera, le invocazioni alla madre, al padre, agli angeli, al water. E insieme comico-grottesche: vagamente, a tratti, petroliniane. Assurdamente comiche.

Nonostante l’incomprensibilità: orrendamente insopportabile, anche fisiologicamente. Un pastiche  di inflessioni dialettali, di termini dedotti dallo spagnolo, dal francese, dal latino, e non pochi neologismi. Lo sperimentalismo linguistico testoriano, viene ulteriormente approfondito da Latini, con particolari ricerche di vocalità e di linguaggio.

Una lingua lacerata ma sempre sorprendente e straordinaria. Continuamente strappata metricamente, in disequilibrio. Flagellata. Straniera. Intraducibile ma respirabile. E alla fine, come in un’emanazione divinamente umana, comprensibile: “quanti l’indomani si affrettarono ai treni, lo videro coperto da un lenzuolo bianco. La barella attraversò tutta la stazione con una sorta di luce, che pareva sollevarsi dal cadavere”.

Roberto Latini 

Come deposto dalla croce, quel che resta di una fusione chiasmica tra Riboldi Gino e Latini Roberto, ci si offre nel massimo della gratitudine: con il più estremo degli inchini.

Come a dire “tenez !” ( Prendete !).

Tra sacralità eucaristica e sacra laicità sportiva, alla fine del rito teatrale si rivela l’ostensione della parola-palla da tennis.

A noi, ora, il servizio.

Qui maggiori informazioni su Roberto Latini


Recensione di Sonia Remoli

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.

Le canzoni di Pasolini

TEATRO VASCELLO, Dal 21 al 24 Aprile 2022 –

Intermittenze del cuore: così Pier Paolo Pasolini amava definire le canzoni.

Lo conosciamo come poeta, innanzi tutto, ma la sua vastità d’interessi lo portò ad essere anche romanziere, saggista, regista cinematografico, autore teatrale, sceneggiatore, pittore. E poi c’è la musica. Pasolini suonava il violino ed ebbe un periodo di infatuazione totalizzante per la musica, in Friuli, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale. Era ossessionato da Johann Sebastian Bach, nella cui musica trovava il punto di congiunzione tra i due poli di una dialettica della passione, opposti e contraddittori ma sempre in relazione. Sarà poi negli anni Sessanta, ormai cittadino di Roma, a dedicarsi alla scrittura di testi per canzoni: quelle che lui definisce “poesia folclorica” e che raccoglie nella poderosa antologia della poesia popolare “Canzoniere italiano” . Ma è solo l’inizio di un lungo percorso di collaborazioni e di esplorazioni musicali.

In occasione dei 100 anni dalla nascita, dopo i debutti a Casarsa e a New York, dal 21 al 24 Aprile il Teatro Vascello offre la possibilità di rivivere la magia delle “intermittenze del cuore” pasoliniane attraverso lo spettacolo-concerto “Le canzoni di Pasolini”: quattordici pezzi arrangiati dal Maestro Roberto Marino e interpretati a tutto tondo da Aisha Cerami e da Nuccio Siano, che ne firma anche la regia.

Le appassionanti e appassionate voci dei due protagonisti, sono accompagnate dal Maestro Roberto Marino al pianoforte, da Andrea Colocci al contrabbasso e da Salvatore Zambataro alla fisarmonica e al clarinetto. Sul fondale, la video proiezione, realizzata dal regista cinematografico Daniele Coluccini, fa scorrere preziose immagini di archivio che raccontano la vita di Pasolini.

La figlia del grande scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, amico di Pasolini e divulgatore delle sue opere, definisce questi brani “vere e proprie storie: “cantare Pasolini significa interpretare dei ruoli”. In queste serate i ruoli che lei interpreta sono quelli di prostitute: donne di strada ma ribelli e forti. “Tecnicamente queste canzoni sono una sfida – continua l’interprete – prevedono pathos e delicatezza. Essendo canzoni-personaggio occorre lavorare molto sui cambi di registro”. Nel caso del “Valzer della toppa” il tono trasmette tutta la forte energia vitale del mondo di borgata:

“Me so’ fatta un quartino | m’ha dato alla testa, | ammazza che toppa!… An vedi le foce! | An vedi la luna! | An vedi le case!… Me so’ presa la toppa | e mò so’ felice!”. 

Ne la “Ballata del suicidio”, invece, la vitalità e l’energia del mondo di borgata sono ormai soppresse e la voce della donna è schiacciata e rassegnata, incapace di reagire alla durezza della vita e al mutamento che investe e cancella il suo mondo. 

Ad aprire lo spettacolo la voce del poeta nei versi della sua “Meditazione orale” sulle note di Ennio Morricone, in un’incisione del 1970 realizzata da Roma Capitale. Poi, l’avvio dello snodarsi della selezione dei brani, a testimonianza del profondo rapporto di Pasolini con la musica. Canzoni scritte per il cinema, canzonette scritte per puro piacere, poesie messe in musica. Alcuni brani sono molto famosi come i titoli di testa del film”Uccellacci e uccellini”, interpretati dalla voce di Domenico Modugno, così come il brano “Che cosa sono le nuvole?” . Tutti portano la firma di grandi musicisti: da Morricone, Hadjidakis e Umiliani a Endrigo, Modugno e De Carolis.

L’interpretazione e gli arrangiamenti dei quattordici brani (tra cui cinque inediti del Maestro Roberto Marino) riescono a trascinare perdutamente lo spettatore, attraverso il percorso storico-emozionale proposto da questo incantevole spettacolo-concerto. 

Così, nel pieno rispetto del valore che Pasolini attribuiva al pensiero musicale, dove alla musica e ai suoni annidati nelle parole risiede la capacità di oltrepassare i confini visibili del reale, evocarne il mistero e condurre l’espressione a un livello così complesso e profondo da fargli dire : ” …vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare ….”.

La classe

TEATRO QUIRINO, dal 19 al 24 Aprile 2022 –

Società per Attori   Accademia Perduta Romagna Teatri   Goldenart Production
presentano


LA CLASSE


di Vincenzo Manna
regia GIUSEPPE MARINI

con
CLAUDIO CASADIO  ANDREA PAOLOTTI  BRENNO PLACIDO
EDOARDO FRULLINI  VALENTINA CARLI  ANDREA MONNO
CECILIA D’AMICO  GIULIA PAOLETTI

scene Alessandro Chiti

costumi Laura Fantuzzo
musiche Paolo Coletta
light designer Javier Delle Monache

regia GIUSEPPE MARINI

Siamo davvero così al sicuro in “una classe” ? A che prezzo ?

Un giovane insegnante di Storia (un ardente in entusiasmo Andrea Paolotti) si trova in aula quelli che sono risultati i peggiori della “classe” (gli esplosivi Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Andrea Monno, Cecilia d’Amico, Giulia Paoletti), i più in-disciplinati, gli in-classificabili e, come tali, relegati “fuori dalle mura” di una convenzionale nomenclatura scolastica. Microcosmo di un più ampio macrocosmo: quello che coinvolge la città, tesa prepotentemente a “separare” quello zoo di umanità diversa che non è più sufficiente relegare vicino al fiume e che si sta confinando dentro alte mura.

Ma “classificare” significa davvero mettere ordine?

All’apertura del sipario, il regista Giuseppe Marini ci presenta una duplice situazione: uno spazio chiaro e definito, quello del proscenio, e poi uno spazio retrostante (delimitato da un velatino) nebuloso, oscuro, confuso.

Dal proscenio avanza il Coro (un intenso Claudio Casadio), a dare avvio allo spettacolo con un insolito e arguto Proemio, incentrato su una metafora zootecnica: quella del comportamento delle galline, una “classe” così insospettatamente simile a noi uomini. Appartengono le galline al genere dei volatili ma non sanno volare: non solo a causa delle loro ali troppo piccole ma anche perché vivono nel “sospetto”. Cercano una vita tranquilla e per questo vivono in gruppo, organizzate in ruoli ben definiti. Appena qualcosa esce fuori dai confini di quella che loro hanno individuato come “normalità”, il gruppo diventa crudelmente razzista. Ad esempio, se una gallina si ammala si inizia a bullizzarla: beccandola. Continuamente. Fino a condurla verso la morte. A quel punto, se riescono, la portano definitivamente “fuori”; altrimenti è il gruppo delle “sane” a spostarsi. Lo fanno per “proteggere” il gruppo della malattia.

Il velatino se ne va e ci si rivela un’aula dallo stile architettonico razionalista, al cui interno regna il caos. Le pareti imbrattate e ingiallite di ombre e di polvere ricordano le “Delocazioni” di Claudio Parmiggiani; fogli di carta e libri, ormai stracciati, perdono il loro posto sui banchi per finire a terra, a costituire un nuovo pavimento, calpestato con noncuranza. Mutano le funzioni dei banchi, sui quali ci si siede, e delle sedie divenute poggia-piedi. Entrambi pronti ad essere ripetutamente cavopolti, rovesciati.

Una scenografia, quella di Alessandro Chiti, che sa rendere con efficacia, anche estetica, il taglio che il regista Claudio Marini ha scelto di dare allo spettacolo e che può essere racchiuso nello scambio di battute tra l’insegnante e un’allieva: -“Hai visto gli altri?” -“Chi sono gli altri?”

Uno spettacolo attualissimo, profondo, elegantemente crudo, accattivante. 

Interessante la struttura narrativa: una successione di quadri temporali ed iconografici, costruiti quasi come capitoli di un libro. Salvato dall’essere stracciato e buttato a terra. Un libro che ci invita a liberarci dai sospetti, “aperto” alle diversità e quindi alla libera espressione del nostro desiderio. Il solo che ci rende divinamente umani: capaci di “volare” .

Vite a scadenza

TEATRO BELLI, Dal 12 al 14 Aprile 2022 –

Cosa sarebbero gli uomini senza la morte? Senza l’attesa angosciosamente incerta del suo progressivo o balenante incedere? 

Il rosso di un immenso quadrante d’orologio infiamma la scena buia: è immediatamente riconoscibile la densità della cifra registica di Claudio Boccaccini. Un’umanità di sagome in controluce si impossessano dello spazio scenico: “partorite” ed espulse dal liquido amniotico, iniziano a rianimarsi con una gestualità dapprima ancora acquatica ma poi automatica, sfociante in una corsa fine a se stessa. Individuale.

Boccaccini, seguendo il progetto di Elias Canetti (Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), mette in scena una possibile umanità a cui è stata tolta l’incertezza del momento in cui la morte vincerà sulla vita. Un’umanità “partorita” con una data di scadenza: chi nasce sa quando morirà. Ma a quale prezzo?

Il numero di anni di vita sostituirà i nomi propri e sarà vietato comunicare agli altri la propria età effettiva. In un mondo dove tutti conoscono il tempo a loro disposizione, dove è sospesa ogni imprevedibilità, dove solo le “cifre alte” possono concludere qualcosa, le persone non sentono più l’urgenza di comunicare, di pensare, di amare. E rischiano di morire di noia.

Si cercano ma la loro è una vicinanza solo spaziale, sottolineata per contrasto dalla selezione musicale, calibrata dal regista Boccaccini, che arriva a rendere insospettatanente laceranti dilemmi etici ed esistenziali. Andando oltre il racconto, il regista infatti punta in primis all’azione drammatica, che arriva al cuore del pubblico prima ancora che al cervello.

In questa operazione è sostenuto efficacemente sia dal suo gruppo di interpreti, dei quali non si può non apprezzare la sintonia che li plasma, nonché il prezioso binomio di freschezza e insieme di profondità d’interpretazione; sia dall’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

Esalta la chiusura dello spettacolo la forza di un Coro, dove la musica originale di Alessio Pinto si coniuga ad un testo che, con una pirotecnica miscela di perfidia, tenerezza, rabbia e surrealtà, ci propone l’idea di un’umanità armonicamente forte e gioiosa.