W.A.M. – Ironia della morte

TEATRO BELLI, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

Arduo accogliere o tollerare la multiforme singolarità di Wolfgang Amadeus Mozart: tutto coesiste in lui. L’enfant prodige che sottostà all’ossessione paterna di continue esibizioni “circensi” è anche un eccentrico buffone che di punto in bianco prende a saltare e a far capriole come un bambino capriccioso;

Il piccolo Mozart all’età di 6 anni durante un concerto nel castello di Schönbrunn. Alla sua destra la famiglia imperiale. Alla sua sinistra il padre e il principe-vescovo di Salisburgo.

l’artista che si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, totalmente immerso nello spirito del genio, è insieme un uomo misconosciuto, ignorato e confinato in un isolamento crescente; il compositore dallo stile chiaro, trasparente ed equilibrato è lo stesso da cui emerge anche una voluttuosa violenza.

Una sintesi del Grand Tour di Mozart, che in 3 anni ha sostato in 88 città

Se arduo è accoglierla, ancor più arduo è tentare di “rappresentarla” autenticamente, questa assoluta singolarità multiforme mozartiana. Ma lo spettacolo di Claudio Boccaccini ci riesce.

Claudio Boccaccini, il regista di “W.A.M. – Ironia della morte” al Teatro Belli di Roma

Proprio come in un palcoscenico psichico sul quale le rappresentazioni vanno e vengono in diversi stati in una multiformità irriducibile, così sulla scena cesellata dallo sguardo registico di Boccaccini, la vibrante drammaturgia di Carlo Picchiotti, interpretata dall’estro poetico di Patrizio Pucello e raffinatamente enfatizzata dal canto lirico del soprano Olimpia Pagni, fa sì che nei nostri occhi riesca ad entrare, a qualche livello, la consapevolezza visiva ed emotiva della capacità unificatrice dell’attività creativa .

A differenza della “coscienza” infatti, che tende a scindere le personalità contrastanti del genio Mozart, la creatività “incosciente” ci consente di tenerle tutte insieme, ri-collegandole in forme sempre nuove.

Perché la musica in generale, e quella di Mozart in particolare, non chiede di essere “capita”. Ma vissuta emotivamente. Il suo alfabeto musicale parla di noi, della “nostra condizione” umana, così fragile e insieme così misteriosamente affascinante. Ma soprattutto ci parla del bisogno che tutti abbiamo di essere “visti” dall’altro e apprezzati proprio nelle nostre più insolite singolarità. Perché sono loro a renderci “unici”.

Patrizio Pucello è Wolfgang Amadeus Mozart in “W.A.M. – Ironia della morte”

Così come “unico” è il tipo d’incontro che il pubblico, in una sorta di teatro nel teatro, si è trovato a vivere ieri sera, nell’intimità del Teatro Belli. Un convegno d’amore, quello che ci ha organizzato “a sorpresa” W.A.M. (un istrionico Patrizio Pucello).

Ci ha preceduti, facendo sì che sul palco, solo la sua giacca avvolgesse la schiena di una poltroncina e solo la sua musica trovasse carne nel corpo e nella struggente voce di una giovane donna (l’ammaliante soprano Olimpia Pagni).

Olimpia Pagni, il soprano in “W.A.M. – Ironia della morte”

Lui farà capolino solo dopo, per spiare le nostre reazioni. Poi entrerà per guardarci bene in faccia e, riconoscendoci tutti, uno ad uno, noi volubili aristocratici viennesi (perché questi sono i panni che ci troviamo a vestire noi del pubblico), troverà l’ardire per dare sfogo apertamente, senza filtri, a tutta la frustrazione che noi gli abbiamo alimentato e che lui per una vita ha represso.

Un convegno d’amore non esclude l’odio: è solo l’altra faccia dell’amore. E ieri sera W.A.M. ha deciso di “consumare” l’odio (un po’ come prescrisse a Tamino il vecchio prete del Tempio della Saggezza) con un altro tipo di rapporto d’amore. Con noi che, seppure sempre così disattenti ed insensibili ai suoi sinceri “corteggiamenti” musicali, continuiamo ad essere maledettamente irresistibili per lui.

Ci dice che ha deciso di morire. Ma è ironico: è un gioco d’amore il suo, una disperata e goliardica manipolazione. Fertile, però: quasi un rito di iniziazione che, solo, può preludere ad un nuovo inizio. Perché la morte, metaforicamente inserita in un processo di purificazione, non va temuta.

E, un po’ come ne “Il flauto magico”, il silenzio diventa una delle prove a cui deve sottoporsi il pubblico-aristocrazia viennese.

Potrà esserci, allora, un nuovo inizio. E risplendere potrà “un nuovo giorno, senza più ombra né velo”.

Tra noi.

Ora.

Illustrazione di Zoa Studio dedicata a W.A.M.

Patrizio Paciullo, l’interprete di W.A.M., attraverso una forte presenza scenica e una recitazione ricca e magnetica, risulta efficace nell’esaltare la feconda ispirazione creativa della drammaturgia di Carlo Picchiotti.

Carlo Picchiotti, l’autore del testo “W.A.M. – Ironia della morte”

Uno spettacolo, che si rivela un piccolo gioiello di cura, di attenzioni e di amore verso “l’uomo Mozart”, prende forma dal cesello del regista Boccaccini, che dà prova di saper dove e come “decorare”: imprimendo, da rovescio, i volumi degli sbalzi o incidendo da dritto variegati dettagli.

Claudio Boccaccini, il regista di W.A.M. insieme a Patrizio Pucello, l’interprete

Una pura formalità

TEATRO MARCONI, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

È un punto di fuga decentrato la vita, per noi che ci ostiniamo a passare gli anni che ci vengono concessi in sorte a “ricordare ciò che c’è da cancellare“. Con queste parole Giuseppe Tornatore sceglie di suggellare la chiusura dell’omonimo film al quale questa riduzione teatrale, diretta dal regista Roberto Belli, si ispira.

Scena finale del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

E affida “la rivelazione” contenuta in esse al modulare “decentrato” del canto di Gerard Depardieu:

Ricordare,

ricordare è come un po’ morire

tu adesso lo sai perché tutto ritorna, anche se non vuoi

E scordare,

e scordare è più difficile

ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare…

(“Ricordare”, testo di Giuseppe Tornatore, musica di Ennio Morricone)

Intenzione del titolo, infatti, è quella di indurci, provocatoriamente, a pensare che la morte (così come la vita) non sia altro che una pura formalità agevolmente espletabile. Qualcosa di noioso magari, ma estremamente pulito, lineare. Così semplice e innocuo da divenire quasi inconsistente.

Roman Polanski e Gerard Depardieu in una scena del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Ma è davvero così ? E se invece fosse qualcosa di vischiosamente fangoso e pesantemente rammollito da una pioggia insinuante, ossessiva e disorientante ? Un diluvio che col tempo si modula in una sorta di stillicidio ? Stillicidio che, non a caso, abita davvero la scena (curata da Eleonora Scarponi): reali perdite d’acqua, infatti, s’insinuano dall’alto e, provvisoriamente convogliate in secchi, regalano al clima drammaturgico una sinistra e suadente musicalità dalla scomposta grazia.

Una delle scene iniziali del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Claudio Boccaccini, che siamo soliti conoscere e riconoscere dalle “regie di luce” che caratterizzano i suoi spettacoli, qui è anche l’interprete di Onoff, uno scrittore profondamente in crisi che una notte si ritrova a correre, vagando disorientato, sotto un diluvio di pioggia. Da qui prende avvio lo spettacolo. E desta grande stupore, una meraviglia che ammutolisce, l’intima adesione che Boccaccini riesce a trovare per “farsi personaggio”,  restituendoci tutta la grandezza epica di “un mito” in decadenza capace ancora, tuttavia, d’illuminarsi di una metafisica aura ieratica. E ci commuove. Profondamente. E proprio nel momento in cui riesce a farci mollare ogni resistenza, ci identifichiamo in lui. Nel suo destino, che è anche il nostro. Ed è catarsi.

Claudio Boccaccini è Onoff

Complice di tale incantesimo è anche quell’intesa profonda che riesce ad instaurare con un Commissario qual è quello interpretato da un elegante e calibrato Paolo Perinelli, dalla capacità maieuticamente socratica di “tarare” ciò che non serve. Sarà infatti attraverso l’arte di fare domande (solo apparentemente da Commissario di polizia) che permetterà il parto narrativo ed esistenziale di Onoff, costringendolo a riflettere sulla portata di quei concetti dati erroneamente per scontati e sulle contraddizioni in essi serbate.  Perché solo eliminando il troppo e il vano da ciò che Onoff pensa (e che ha deciso di ricordare), potrà aiutarlo nel conquistare una nuova, autentica e “centrata” consapevolezza di sé. 

Paolo Perinelli (il Commissario)

E da spettatori ci si ritrova ad immaginare che forse sarà su questo che, dopo la nostra morte, una volta condotti in una Stazione di Polizia-Purgatorio, qualcuno ci farà riflettere: su come va cercata la nostra autentica verità. 

Andrea Meloni (Andrè)

Il “quadro” registico “dipinto” dal regista Belli trova compiutezza anche attraverso i contributi interpretativi dei tre collaboratori del Commissario. Andrea Meloni sa regalare ai panni di André il dattilografo una poeticità capace di illuminare la subordinazione verso il Commissario di un intimo e quasi incontenibile trasporto ad accogliere il “fango umano” di Onoff.  Paolo Matteucci (il Capitano) e Riccardo Frezza (la Guardia) riescono a tratteggiare, con un’interessante nota di ambiguo zelo, due insolite figure di angelici aguzzini.

Riccardo Frezza (la Guardia) e Paolo Matteucci (il Capitano)

Il linguaggio delle luci, com’è nella cifra di Claudio Boccaccini, risulta disegnato in modo raffinato e profondo, tecnicamente sobrio ma virtuoso nelle metafore visive. E soprattutto risulta capace di generare toni narrativi estremamente coinvolgenti: tra suspense hitchcockiana e dialogo morale bergmaniano

Claudio Boccaccini

Ne deriva uno spettacolo intimo e insieme aperto al dubbio; generatore di stati d’animo disposti a conversare sui quesiti connaturati alla nostra condizione umana. Un’indagine sulla vita che approda alla scoperta che comprendere è più importante che condannare.

Ed è così che uno spettacolo diventa arte lirica visiva: danza tra musica ed immagini. Riuscendo ad attraversare la pelle dello spettatore per tatuarvisi come ricordo.

Il cast dello spettacolo “Una pura formalità” di Roberto Belli

Vite a scadenza

TEATRO MARCONI, 15 Giugno 2022 –

“Audace è chi riesce a fare qualcosa del proprio buio”. Senza lasciarsene schiacciare.

Dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo sette anni, Elias Canetti (premio Nobel per la Letteratura nel 1981) dedica tutta la sua vita a “fare qualcosa del proprio buio”: il trauma della morte. Imprevista. Inattesa e che nel suo essere inimmaginabile, ci coglie impreparati. Indifesi. E ci angoscia. In questo testo Canetti prova a immaginare, invece, un’ipotetica società “diversa”, dove lo stato di impotenza umana di fronte alla morte viene rovesciato grazie ad un espediente: si nasce sapendo già la data della propria morte. La propria data “di scadenza”. Ma sarà davvero preferibile?

Claudio Boccaccini, regista di questo adattamento, all’età di sette anni, scopre, come racconta nell’emozionante monologo “La foto del carabiniere”, cosa significa vivere la morte. Nascere dalla morte. Intorno ai sette anni, infatti, viene a conoscenza del fatto che la sua nascita è stata possibile anche perché qualcuno (il vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’acquisto) sentì l’urgenza di fare qualcosa del “buio altrui”, quello dei ventidue civili ingiustamente rastrellati per essere condannati a morte dalle truppe naziste, nel corso della Seconda guerra Mondiale. Tra i ventidue civili, Tarquinio, il padre di Boccaccini. Il ventitreenne Salvo D’Acquisto scelse allora di “tramontare”, di anticipare la “scadenza” della propria vita, di stabilire lui (forse) una “scadenza”, offrendosi alla morte. Forte della consapevolezza di lasciare un prezioso testimone, regalando inebriante vita non solo ai suoi amici ma anche ai loro figli. In atto e in potenza: già nati o ancora solo desiderati. 

Sarà forse per un simile destino di prossimità alla morte che, in questo adattamento del testo di Canetti e nella resa registica dell’intero spettacolo, Claudio Boccaccini rivela una speciale sensibilità nel lavorare sul binomio vita-morte e sull’angoscia ad esso collegata.

Un orologio senza lancette abita il fondale, quasi stampato su uno stropicciato lenzuolo di raso nero che ricopre un letto (per eccellenza luogo di nascita-vita-morte) posizionato verticalmente. In alcuni momenti chiave dello spettacolo, le lancette mancanti del quadrante dell’orologio vengono rese, con geniale naturalezza, da posizioni assunte dai personaggi. Apparenti “padroni” di questo tempo distopico. Loro stessi “lancette” del nuovo tempo.

Ma nonostante ciò, anche da questa umanità “semplificata” emergono insoddisfazioni e nuove paure, rese da un disegno luci spietatamente avvincente e da un’espressività struggentemente ambigua degli interpreti, in bilico tra l’orgoglio di vivere nel momento di “massimo progresso” della storia e l’inspiegabile fascino per l’inquietante, ma vibrante, vita di chi li aveva preceduti.

Nello specifico, il disegno luci sa rendere l’insinuarsi della luce che si fa strada all’interno delle crepe che attraversano l’angoscia. E al contempo sa come rendere l’emergere delle ombre da un’apparente quiete rassicurante: sintomo dell’insistenza della vita, che non si accontenta di “programmi”, “di scadenze” e che scopre di volersi nutrire ancora di caos vitale.

La densa espressività degli interpreti, poi, sa non escludere lampi di vertiginosa audacia dentro quella paura, che solo apparentemente cerca la quiete. Un’espressività che riesce ad esprimersi anche nonostante le maschere, che in alcuni momenti dello spettacolo gli interpreti indossano e che danno vita ad efficaci giochi di specchi.

Perché gli uomini, forse, sono fatti per continui inizi, per nuovi orizzonti tutti da scoprire. E proprio per questo, ricchi di fertile eccitazione. Perché nella vita si muore non una volta ma continuamente. E altrettanto continuamente si nasce. E forse la spinta per continuare ad iniziare ci viene proprio dal sapere che prossima ed imprevista arriverà una nuova morte. 

Lo spettacolo si avvale dell’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

La musica originale del coro, che accompagna lo splendido epilogo dello spettacolo, è di Alessio Pinto. 

Vite a scadenza

TEATRO BELLI, Dal 12 al 14 Aprile 2022 –

Cosa sarebbero gli uomini senza la morte? Senza l’attesa angosciosamente incerta del suo progressivo o balenante incedere? 

Il rosso di un immenso quadrante d’orologio infiamma la scena buia: è immediatamente riconoscibile la densità della cifra registica di Claudio Boccaccini. Un’umanità di sagome in controluce si impossessano dello spazio scenico: “partorite” ed espulse dal liquido amniotico, iniziano a rianimarsi con una gestualità dapprima ancora acquatica ma poi automatica, sfociante in una corsa fine a se stessa. Individuale.

Boccaccini, seguendo il progetto di Elias Canetti (Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), mette in scena una possibile umanità a cui è stata tolta l’incertezza del momento in cui la morte vincerà sulla vita. Un’umanità “partorita” con una data di scadenza: chi nasce sa quando morirà. Ma a quale prezzo?

Il numero di anni di vita sostituirà i nomi propri e sarà vietato comunicare agli altri la propria età effettiva. In un mondo dove tutti conoscono il tempo a loro disposizione, dove è sospesa ogni imprevedibilità, dove solo le “cifre alte” possono concludere qualcosa, le persone non sentono più l’urgenza di comunicare, di pensare, di amare. E rischiano di morire di noia.

Si cercano ma la loro è una vicinanza solo spaziale, sottolineata per contrasto dalla selezione musicale, calibrata dal regista Boccaccini, che arriva a rendere insospettatanente laceranti dilemmi etici ed esistenziali. Andando oltre il racconto, il regista infatti punta in primis all’azione drammatica, che arriva al cuore del pubblico prima ancora che al cervello.

In questa operazione è sostenuto efficacemente sia dal suo gruppo di interpreti, dei quali non si può non apprezzare la sintonia che li plasma, nonché il prezioso binomio di freschezza e insieme di profondità d’interpretazione; sia dall’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

Esalta la chiusura dello spettacolo la forza di un Coro, dove la musica originale di Alessio Pinto si coniuga ad un testo che, con una pirotecnica miscela di perfidia, tenerezza, rabbia e surrealtà, ci propone l’idea di un’umanità armonicamente forte e gioiosa.