Lo sguardo cinematografico che permea la regia e impreziosisce la graffiante drammaturgia di Massimiliano Auci dà vita ad “un monologo a tre voci”, ricco in assolvenze e dissolvenze, echi e specularità.
Massimiliano Auci, autore e regista dello spettacolo “Medea, la divina”
In un efficace gioco di flash-back, il vissuto della “persona” Maria Callas finisce per fare da contrappunto a quello del personaggio “Medea” di Pier Paolo Pasolini.
Maria Callas
Entrambi rimandano, infatti, a una predisposizione delle due donne verso amori folgoranti per uomini carismatici ma poco disponibili a riconoscere il loro autentico valore, unitamente ad un particolare rapporto sventurato con i propri figli. Donne ostinatamente ambiziose e di successo ma penalizzate da un insano rapporto con il cambiamento.
Maria Callas in “Medea” di Pier Paolo Pasolini
È il vento ad aprire infatti lo spettacolo: un movimento vitale che allude all’energia che muove il corpo fisico, ma anche lo spirito, in un cambiamento continuo da uno stato all’altro. Perché così è la vita, dove tutto si muove tra continui equilibri e sconvolgimenti. Il piacere, il fastidio e la paura provocate dal vento porteranno l’attenzione sugli aspetti della vita delle due donne che sono ormai “maturi” per una trasformazione e quelli invece che seguono vie meno controllabili. Alle quali ci si dovrà adeguare, malgrado tutto.
Maria Callas
Evocativi e poeticamente onirici i corridoi di luce, sviluppati su diversi campi cinematografici, dove una giovanissima Ginevra Gemma, piena di grazia, osa farsi guidare dal lancio di un sassolino per saltare sulla vita.
Dagli scacchi del gioco della campana, tra assolvenza e dissolvenza, il passaggio è sulla cappa a scacchiera che veste la Medea-Callas, interpretata da un’appassionata Giovanna Cappuccio che, con fiera e fragile tragicità ha deciso di lasciare in eredità ai figli, privi di una madre, una città. Ma si spoglierà di questo proposito così come ora fa con la cappa che l’avvolge, quasi a rifiutare gli scacchi ricamati per lei dal destino.
Giovanna Cappuccio
In un interessante gioco a cerchi concentrici, il nuovo “habitus” della Callas-Medea, total black, ricorda quello sulla “de-formità” del Riccardo IIIshakespeariano: “io che non sono nata per i lavori nei campi…”. E’ una mancanza di quella “giusta forma” necessaria per essere riconosciute dagli altri ma soprattutto da loro stesse.
Giovanna Cappuccio
E così, Maria si lascia plasmare, “sempre indifesa”, dall’imprenditore Giovanni Battista Meneghini che la trasformerà da goffa donna a rilucente diva. Ma se ” arrivare è da molti, restare è per pochi! “. E così Maria (ma anche Medea) finisce per infilarsi in un illusorio mantenimento della continua perfezione che sfocerà in una vera e propria maniacalità.
Giovanni Battista Meneghini e Maria Callas
A una seducentemente subdola Giorgia Serrao sono affidati i contrappunti della madre e delle sfaccettature nascoste della diva indifesa e arrabbiata.
Giorgia Serrao
Finché non arrivano altri due nuovi occhi a voler plasmare la divina: quelli di un altro imprenditore: Aristotele Onassis. Una di quelle persone che pretendendo di essere amate, non sanno amare.
Aristotele Onassis e Maria Callas
Abbandonata, le serve una nuova identità: questa volta il nuovo “habitus” arriva da Pier Paolo Pasolini. Su di lei “cuce” il suo personaggio di Medea. Entrambi reduci dalla fine di un grande amore, si amano. Ma di amori diversi. Il vento continua a soffiare cambiamenti ma per Medea la divina saranno solo fratture.
Pier Paolo Pasolini e Maria Callas
Uno splendido ritratto al di là di della leggenda e al di là del divismo che, sempre con il giusto ritmo, porta lo spettatore a scoprire due nuove donne allo specchio. Nelle quali non è difficile trovare assonanze con i nostri vissuti.
LA PELANDA(Mattatoio), dal 31 Marzo al 2 Aprile 2023 –
L’ ACCADEMIA D’ARTE DRAMMATICA SILVIO D’AMICO ALLA PELANDA –
Esercitazione degli allievi del secondo anno del corso di regia dell’Accademia Silvio D’Amico Diploma Accademico di primo livello – A.A. 2022/2023 Supervisione artistica di Giorgio Barberio Corsetti
All’interno della cornice costituita dagli edifici del Mattatoio, dove il moderno stile industriale si mescola con le origini operaie del quartiere Testaccio, si inseriscono gli ampi spazi, di rara suggestione, de “La Pelanda”, originariamente destinati alla lavorazione dei suini.
In fondo, se “il teatro” è una città virtuale, nello stesso tempo “la città” è un teatro potenziale. E se le tradizioni, il tipo di vita, le strutture urbane di una città formano gli atteggiamenti dei suoi abitanti e disegnano, giorno dopo giorno, quegli aspetti caratteristici che rendono unici e irripetibili i luoghi, i quartieri e i cittadini, allora ognuno di noi recita la sua parte e la città assume l’aspetto di un grande palcoscenico naturale.
Una veduta del Mattatoio di Testaccio
E proprio qui, negli spazi urbani de “La Pelanda”, grazie alla collaborazione tra l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e l’Azienda Speciale Palaexpo, nei mesi di Marzo e di Aprile verranno ospitati due progetti di didattica e spettacolo. Saranno guidati rispettivamente da Giorgio Barberio Corsetti e da Antonio Latella.
Giorgio Barberio Corsetti, regista, attore e drammaturgo
Domenica 2 Aprile si è conclusa la terza replica dello spettacolo itinerante “Non è il mio cuore a perdersi, ma il mondo che lascio” (con ingresso libero fino a esaurimento posti). Il progetto era volto allo studio di tre testi di Pier Paolo Pasolini, messi in scena dagli allievi registi di II anno, con gli allievi del II anno del corso di recitazione: Studio su “Porcile”, allievo regista Sergio Biagi; Studio su “Histoire du soldat”, allieva regista Giulia Funiciello; Studio su “Pilade – Appunti da un’Orestiade pasoliniana”, allievo regista Mattia Spedicato.
Lunga, all’ingresso de “La Pelanda”, la fila per poter accedere allo spettacolo; di più quella della lista d’attesa di coloro (quasi totalmente giovanissimi) disposti ad attendere, pur rischiando di non poter entrare.
Condotti in uno dei locali predisposti per la rappresentazione, siamo stati fatti accomodare su cuscini a terra o su piccoli sgabelli disposti a semicerchio che facevano da contorno alla scena. Lì già stavano gli attori: sorpresi a terra da qualcosa che li aveva immobilizzati. Scalzi, tutti, e cinti in vita da una lunga e ampia gonna nera. Sono perfettamente armonizzati con i colori del nudo spazio che li ospita: il nero del fondale e delle porte e il colore della chiara “terra” del palco, delle pareti e della loro pelle.
Calato il buio, una donna in bianco fa il suo ingresso: elegantemente, quasi fosse una diva. Come per azione di uno zoom, giunge al nostro cospetto: i suoi occhi lampeggianti vendetta e la sua voce cruda unitamente alle sue parole colme d’ira, ce la rivelano una furia. Ora è chiaro: lo spettacolo itinerante prende avvio con la rappresentazione del progetto: “Studio su Pilade: appunti da un’Orestiade pasoliniana” dell’allievo regista Mattia Spedicato.
“Pilade” di Pasolini rappresenta un’ideale continuazione dell’ “Orestea” di Eschilo: dopo l’uccisione di Egisto e Clitemnestra, il popolo di Argo è in attesa di nuove autorità, allorché arriva Oreste, che spiega al Coro di essere stato ispirato da Atena, dea della Ragione: dea nuova e senza memoria. Oreste decide di cambiare le istituzioni della città e dà incarico all’amico Pilade di organizzare per la prima volta libere elezioni.
Queste danno luogo ad un nuovo benessere economico ad Argo, anche se arriva notizia che alcune Eumenidi relegate sulle montagne come divinità benigne si stiano trasformando nuovamente in Furie. E proprio una di loro scende in città (della quale noi del pubblico rappresentiamo gli abitanti) per ammonirci, a mo’ di prologo, di ciò che accadrà: un mattatoio umano. Chiari sono i presagi: dolore si sta preparando. La terra, ovvero i contadini bloccati a terra, si scuote alle sue parole.
Al suo uscire entrano Oreste (in tailleur borghese) e poi Elettra, dal capo velato di nero: “la monaca”. Ma ad entrare c’è anche qualcuno che tende a posizionarsi ai margini della scena, arrivando anche tra noi del pubblico. Uno che osserva da vari punti di vista, da varie prospettive. E non parla. Veste anche lui un tailleur: nero, però. Anche cromaticamente, oltre che prossemicamente, ci arriva il senso di un “diverso”. Di uno che ha cambiato idea. Di uno che trova il coraggio e l’urgenza di opporsi con un’insolita rabbia.
È Pilade: l’uomo “che sapeva tacere” e per questo era ritenuto “pieno di grazia”. Collaborativo. Ora, invece, va tenuto sotto controllo da quella nuova “mente” alla quale si obbedisce abdicando al proprio pensiero critico. Molto suggestiva la scena che vede Pilade “un caso” da analizzare con tante luci subdolamente “velate”. Così come efficacemente cinematografica risulta la scena che fa di Athena una star degli Anni ’50, che con seducente narcisismo riesce a farsi seguire da un sagomatore. E si duole di essere solo una dea e non un’idea. Cancellata è ormai qualsiasi dialettica. Complice un raffinato disegno luci che si rivela capace di veicolare, come un contrappunto alla narrazione, la densità dei diversi stati d’animo.
Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Eleonora Bernazza, Ludovica Cerioni, Andrea De Luca, Riccardo Di Cola, Giuseppe Palmese, Stefano Poeta, Vittoria Salamone, Alice Sellan, Leonardo Simone, Ana Trif. E con l’allievo diplomato Renato Civello.
Invitati a spostarci in un altro spazio de “La Pelanda”, veniamo condotti in una sala dove ci aspetta un soldato di ronda. Intuiamo di essere immersi nel secondo studio “Histoire du soldat” dell’allieva regista Giulia Funiciello. Noi del pubblico cingiamo la scena sempre a mo’ di semicerchio. Questa volta siamo testimoni dell’incomunicabilità esistente tra il soldato e una ragazza che, pur essendo a lui prossemicamente adiacente, preferisce indossare delle cuffie che la isolano dal reale. Per ascoltare musica. O forse no. A rompere il loro isolamento, l’arrivo di un altro soldato, ebbro dell’innocente assaporamento della piccola-grande libertà di una licenza. La sua musicalità del gesto e della parola gli permette di entrare in relazione con entrambi: sa come corteggiare il collega e come la ragazza. E lui stesso si presta a essere sedotto dalle richieste altrui: “soname mentre magno Ninè !”. È un bisogno umano essere desiderati dal desiderio dell’altro. Ma c’è chi se ne approfitta: qualcuno che elegantemente vestito si aggira subdolamente tra loro, per scoprire come condurli da un’altra parte. Come è successo “co a cirioletta”, il pane dei poveri, così l’attenzione di Ninetto (questo il nome del soldato in licenza) viene attratta e spostata (anche logisticamente) su un nuovo spazio, morfologicamente “a specchio”, da dove si intravedono piatti colmi di leccornie. Ninetto è tentato: va e invita anche noi a seguirlo. Andiamo.
Scopriamo allora che si tratta di uno spazio contiguo, sul fondale del quale va in scena, proiettata, “la parola” di Pasolini. Che nessuno ascolta: né Ninetto, soddisfatto e lusingato nella sua “fame”; né tantomeno quel tizio che poco prima subdolamente si aggirava nell’altro spazio e che ora mangia apparentemente condividendo lo stesso cibo di Ninetto. Ma la sua prossemica parla di un’eloquente distanza. Intanto noi del pubblico prendiamo posto in platea posizionandoci tra Ninetto, che è sul palco, e quel tipo, che Ninetto ingenuamente chiama “Sor Maè”: il diavolo del consumismo.
La sua “proposta indecente” arriva al momento giusto: quando Ninetto ha soddisfatto “la fame” di cibo e di donne . Queste ultime lo appagano, al di sopra di ogni sua aspettativa, nella sua esigenza di virilità e nell’entrare a far parte del tanto vagheggiato mondo dei media. Si tratta di dedicare solo un giorno della licenza per restare lì con Sor Maé ad insegnargli a suonare il violino. In cambio Sor Mae’ gli insegnerà a leggere (facendo ben attenzione, però, ad escluderlo dalla comprensione dei testi. Troppo pericoloso lasciar pensare le persone con la propria testa!).
Innocentemente sedotto dalla “fama” derivante dalle continue presenze televisive, Ninetto non si rende consapevole che “il diavolo” può essere anche un concetto, un pensiero dominante e che il male può cambiare aspetto con il mutare dei tempi. Spenta la capacità di giudizio critico necessaria per riuscire ad accorgersi della manipolazione, anziché un giorno Ninetto trascorre lì un anno. E come disertore viene arrestato.
Ma “il diavolo della TV” preferisce di gran lunga che sul potere dell’orecchio domini quello dell’occhio: così Ninetto “vedendo” che il diavolo riesce a liberarlo da (quelle) manette, continua a credere “solo” ai propri occhi. Ma il colpo finale sta per scattare e oltre ad essere beffato Ninetto scoprirà che ciò che ha davvero valore è quello che lui già aveva e ingenuamente ha finito per cedere al diavolo: il saper suonare. Il potere dell’orecchio. Interessante in questo studio la scelta dei due spazi scenici “osmotici”: un insolito teatro nel teatro.
Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Francesca Iasi, Negrar Mojaddad, Juan Moro, Edoardo Raiola. E con l’allievo diplomato Luca Carbone.
L’ultimo percorso ci conduce alla terza sala: quella che ha ospitato la rappresentazione “Studio su Porcile” dell’allievo regista Sergio Biagi. Qui lo spazio scenico è rappresentato da un palco in terra, anzi in grani, che si presta anche alla suggestione di “un ring”, dove sembrano ospitati, ma in realtà lottano, due oggetti dal valore fortemente simbolico: un megafono (simbolo di una comunicazione manipolante, omologante e ossessivamente ripetitiva) e un libro (simbolo di una comunicazione aperta alla diversità delle possibili letture).
Julian, il protagonista, dichiara fin da subito: “io non so chi sono”. Il senso d’identità e l’autostima sono doni sociali ma i suoi genitori sono distratti da altro: la loro azienda e gli ambigui traffici con gli ebrei. Perfettamente inseriti nella mentalità del consumismo, non hanno tempo né autentico interesse altruistico verso il proprio figlio. La loro prossemica parla chiaro: sono seduti tra noi del pubblico, quali semplici “spettatori” passivi di ciò che avviene nella vita di Julien. Si alzano ed entrano in scena solo quando risulta necessario proteggere i loro affari, o per giustificarsi nei confronti di un figlio che non ubbidisce ma nemmeno disubbidisce.
La regola è tacere: che non se ne parli.
Julian è nato il primo giorno di primavera: un momento di transizione potentissimo, che segna il passaggio dal buio alla luce, dal freddo al caldo e che per questo è considerato rigenerante. Julian però sembra rimanere intrappolato, un po’ come Proserpina in questa transizione, propendendo cronicamente verso un’apatia che tradisce solo con una fortissima attrazione verso i maiali.
Ha una cara amica innamorata di lui: Ida, che tenta di sollevarlo da questo torpore. Ma Julian dice di non desiderare nulla di più che il torpore (e il porcile). Così si sente bene. Neanche gli ideali della politica lo solleticano: inutile andare a combattere “i vecchi” borghesi insieme ai “nuovi” borghesi. La situazione peggiora quando Julian cade in coma: per lungo tempo giacerà steso a terra come crocefisso. Unica tensione vitale: i pugni chiusi.
Si riprenderà e con Ida troverà il coraggio di chiarirsi, almeno parzialmente. Lei si sposerà con un altro e lui, anziché tornare al suo “menage” adorato, andrà al porcile sì ma questa volta, per una vocazione al martirio, ad offrirsi in pasto ai maiali. La vita è bella oppure è terrorizzante. Il “diverso” non può essere accettato.
E visto che di Julian non è rimasto niente, il nuovo socio del padre gli chiederà il silenzio su questa vicenda. E’ la dittatura del conformismo. E pensare che invece “… tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito – e comincerà qualcos’altro…” (Medea, prologo). Interessante, in questo lavoro, lo studio fatto sulla prossemica.
Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Alessandro La Ginestra, Michele Montironi, Arianna Pozzi, Dario Schutz, Virginia Sisti. E con l’allievo diplomato Davide Fasano.
Scene Massimo Troncanetti Costumi Francesco Esposito Suono Franco Visioli Video (per il progetto Histoire du soldat) Igor Renzetti DirettorediscenaeLuci Camilla Piccioni Assistenteallaregia Luigi Siracusa Fonico Akira Callea Scalise Sarta Loredana Spadoni Foto Manuela Giusto Ripresevideo Carlo Fabiano
Un vero e proprio elogio dell’imperfezione, quello che è andato in scena ieri sera al Teatro Argentina: una preziosa occasione per percorrere nuove strade e trovare nuove soluzioni. Imperfezioni da capire ma soprattutto da ammettere senza pudore. E magari risolvere. Perchè “sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna, che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto” (da Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam).
L’ adattamento di Dario D’Ambrosio (fondatore, presidente e direttore artistico dell’Associazione Teatro Patologico) pone al centro dello spettacolo il rapporto tra corpo e linguaggio, veicolato dalla musica dal vivo, che accompagna i momenti in greco antico. Perchè il linguaggio musicale non è un tappeto ma un vero e proprio intervento corporeo, capace di arricchire le suggestioni evocate da un lingua antica e musicale, come il greco antico. Le musiche originali sono di Francesco Santalucia mentre la direzione del Coro e delle Percussioni è affidata a Francesco Maria Crudele, in arte Papaceccio. Potentemente poetico l’intervento al flauto traverso: quasi una visione di Ian Anderson dei Jethro Tull.
Lo spettacolo, che emana un forte senso di coralità, si articola per “quadri” che visualizzano quei momenti della tragedia di Euripide che più si caricano di pathos contraddittorio, dove cioè il desiderio di potenza e il terrore dell’impotenza convivono. Degli interpreti è impossibile non apprezzare la sacralità dei gesti, la precisione coreografica, la concentrazione e la presenza scenica.
Curatissimi e potentemente evocativi i costumi di Raffaella Toni.
Lo spettacolo ha fatto il giro del mondo, calcando palcoscenici internazionali come: il Quartier Generale delle Nazioni Unite di New York (ONU), l’Auditorium Umberto Agnelli di Tokyo, il Winton’s Music Hall di Londra, il Parlamento Europeo di Bruxelles, e ancora il Market Theater di Johannesburg (Sudafrica) e il Teatro Cafè La Mama di New York.
Con vivo auspicio, ci si augura che questo prezioso corso universitario sperimentale possa essere trasformato in corso ufficiale e diffuso nelle Università di tutta l’Italia.