In alto mare

TEATRO MARCONI, dal 17 al 19 Marzo 2023 –

Cosa scatta nella mente degli uomini pur di sopravvivere? Che può succedere in una comunità che si trova privata di uno dei bisogni primari: il cibo? La natura umana può tollerare soluzioni democratiche? La retorica, ovvero l’arte del parlare persuadendo, è davvero più democratica della polvere da sparo?

“Sto soffrendo! Lo capisci ?!” (bozzetto di Slawomir Mrozek)



Un microcosmo, quello descritto in questo pungente atto unico del drammaturgo polacco Slawomir Mrozek, fuori da ogni coordinata spazio-temporale e con personaggi manchevoli di un nome proprio ma identificabili con “una densità quantitativa” variamente interpretabile: Mrozek decide di chiamarli il piccolo, il medio e il grosso. Sono tre naufraghi che, avendo terminato le scorte di cibo, si trovano di fronte all’urgenza di decidere chi sarà il primo a sacrificarsi per essere mangiato. Così da garantire la sopravvivenza degli altri. 

Slawomir Mrozek, autore del testo “In alto mare”

Andrea Goracci, acutamente, sceglie per il suo debutto da regista un testo breve, intenso ed eternamente attuale: una situazione paradossale sì, ma preziosa per confrontarci con l’assurdo del quotidiano. E soprattutto con le contraddizioni della nostra natura umana. Vivere in un mondo di incertezze è difficile si sa; ma cosa siamo pronti ad aspettarci dal comportamento umano? Dall’umana follia?

Andrea Goracci, regista dello spettacolo “In alto mare”

La sublime bellezza di questo testo, preservata e valorizzata dall’adattamento di Andrea Goracci, è che si parte da presupposti verosimili, da situazioni apparentemente pacifiche, per arrivare – a fil di logica – verso conclusioni grottesche ed assurde. La narrazione, infatti, prende avvio e si snoda in un crescendo di criteri “democratici” per riuscire ad individuare “la giusta” vittima sacrificale. Feroce è constatare come proprio nella ricerca democratica si insinuino, dapprima semplicemente manifestandosi ma poi prendendo il sopravvento, atteggiamenti di umana disumanità.

“L’infanzia difficile, la guerra, l’occupazione sovietica e adesso tu?”
bozzetto di Slawomir Mrozek

Ed è proprio mettendo alla berlina i paradossi della società dell’homo sapiens, smontando quindi false certezze, che il testo di Slawomir Mrozek  riconsegna all’uomo la consapevolezza della necessità di un’interminabile ricerca della verità. Perché noi tendiamo a prendere poco in considerazione “la regola” secondo cui il risultato finale dei nostri sforzi, sia individuali che collettivi, si rivela spesso il contrario di quello che avevamo previsto. Il Piccolo, ad esempio, è il primo ad invocare la democrazia ma poi esige la propaganda e nella propaganda dichiara di essere “egoista”. E proprio per il suo egoismo pretende di non essere scelto come vittima sacrificale. 

Una scena dello spettacolo “In alto mare” diretto da Andrea Goracci

E’ una natura umana passivamente feroce e immersa in un’assurda incertezza vitale, quella che l’adattamento di Andrea Goracci, fedelmente alle intenzioni del testo originale, rende con profonda tragicità ma anche con abbondante ironia, a volte addirittura esilarante. Si tratta, però, di un umorismo surreale: necessario per rivelare le convinzioni distorte dei personaggi. E’ la risata angosciante dell’assurdo: mordente e corrosiva, irrinunciabile per descrivere i pericoli che si possono insinuare nel vivere comune dell’uomo moderno. Storicamente intorno agli anni ’60 in Polonia, a seguito di una serie di scioperi e rivolte a causa delle scorte di cibo e per lo sfruttamento sovietico, Wladyslaw Gomulka assume il potere e inizia una stalinizzazione controllata. Ma spesso, ed è questo l’intento più icastico del drammaturgo polacco, “stalinistico” è il nostro modo di fare quotidiano, quando ci arrocchiamo, cioè, in quel dispotismo delle nostre abitudini e dei nostri modi di pensare che culmina nella più perversa di tutte le dittature: quella autoimposta (nella quale si immolerà il Piccolo, ad esempio).

Una scena dello spettacolo “In alto mare” diretto da Andrea Goracci

Ecco allora che il riso, volutamente suscitatoci da Mrozek, in qualche modo costituisce un’arma formidabile per smascherare l’assurdo, riconoscerlo e affrontarlo con l’unico strumento possibile, anche se mai davvero risolutivo: la consapevolezza. Perché è davvero difficile essere umani.

Slawomir Mrozek, autore del testo “In alto mare”

Andrea Goracci riesce a confezionare un adattamento così come era nelle intenzioni dell’autore: Slawomir Mrozek anelava, infatti, che questo testo fosse rappresentato dando priorità assoluta alla precisione e alla chiarezza del senso logico delle battute, per aiutare lo spettatore a muoversi con agio nella profonda densità del testo. E così è avvenuto: il pubblico, prevalentemente giovane presente in sala ieri sera alla prima, è restato costantemente incollato alla rappresentazione di “trasparente” fruibilità.

Andrea Goracci, il regista dello spettacolo “In alto mare”

La scenografia, essenziale, curata ed efficace, nasce dall’estro ormai riconoscibile di Antonella Rebecchini e dall’importante artigianalità di Mattia Lampasona. I tre naufraghi Anania Amoroso (il medio), Livio Sapio (il grosso) e Luca Vergoni (il piccolo) si rivelano personaggi dotati di una significativa caratterizzazione e danno prova di riuscire a sostenere i giusti ritmi richiesti dal testo. Considerevole lo studio sul gesto. Sempre molto efficace la prossemica. Avvincente la resa a tutto tondo del personaggio del Postino (Andrea Meloni). Avvolta nel fascino di un colpo di scena, l’epifania del servo Giovanni (Riccardo Musto). I costumi (curati da Lucia Cipollini) regalano eleganza ed incisività alla realizzazione del quadro d’insieme.

Recensione dello spettacolo UNO SGUARDO DAL PONTE di Arthur Miller – regia di Massimo Popolizio –

TEATRO ARGENTINA, dal 14 Marzo al 2 Aprile 2023 –

Cos’è, davvero, un uomo? 
Cosa possono le leggi del vivere civile nell’arginare l’essenza più “pura”, più autentica di un uomo?

È uno splendido adattamento shakespeariano quello realizzato da  Massimo Popolizio, interprete e regista di questo affascinante testo di Arthur Miller, che mette in luce quanto la natura umana possa rivelarsi insospettabilmente ambigua e contraddittoria: “una malerba soavemente delicata, di un profumo che dà gli spasimi “.  

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

L’attenta regia cinematografica scelta da Massimo Popolizio per “girare un film a teatro” sa dove e come seminare indizi: presagi ineluttabili, a specchio, che tengono sostenuto il tono della suspense. Eddie Carbone (il protagonista) riconoscerà, infatti, l’incendio della passione che lo abita, vedendolo “bruciare” negli altri; scoprirà che denunciare immigrati connazionali è una tentazione in cui anche lui può cadere ma soprattutto che ci si può ritrovare ad essere attratti irresistibilmente da ciò che non è “retto” , che sfugge ai canoni legali, che non è “regolare”.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio


Non a caso la scena (curata da Marco Rossi) è quasi costantemente plumbea, chiusa su se stessa: solo il “Caos” che domina la vita riuscirà a forzare il suo ostinato immobilismo. Il fondale è di un grigio lattiginoso, confuso, che proiettori da terra rendono variamente inquietante, o ambiguamente misterioso, anche nei momenti meno tenebrosi. E poi c’è lui: il ponte di Brooklyn, reso attraverso tre diversi campi cinematografici: corto, medio e lungo. Quel ponte, in teoria collegamento solo verso il meglio, in pratica si rivela “sospensione esistenziale”: varco attraverso il quale la tragedia può entrare nella vita umana sorprendendoci inermi. E poi attraversarla, rompendo i “nostri” progetti, per costruirne altri. Apparentemente solo suoi.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Michele Nani (Avv. Alfieri) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Uno non può sapere ciò che scoprirà“- ci ricorda l’avvocato Alfieri (un inconsapevole Iago, reso da un efficace Michele Nani), unico personaggio del presente a cui viene affidata la funzione, da coro greco, di narratore e commentatore esterno della vicenda, che l’arguta regia di Popolizio trasforma in un lungo flashback.

Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Inaspettate le caratterizzazioni delle due figure femminili: Beatrice ( la moglie di Eddie) e Catherine  (la figlioccia). Intraprendenti ed emancipate. Una scelta, questa del regista Popolizio, coraggiosa ma geniale.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Catherine, un po’ come una Lolita in bilico tra nostalgica fanciullezza e prorompente  femminilità, abbraccia lo zio a cavalcioni e condivide con lui le sue prime seduzioni di donna: il nuovo ammiccante colore di capelli rosso rame; la gonna corta e di un tessuto così generosamente disposto a tirarsi indietro da assecondare i suoi ancheggiamenti, ma soprattutto le nuove scarpe col tacco, che con un guizzo di femminilità, modificano la sua postura. È  portentosa Gaja Masciale: ancora un po’ goffa come sa esserlo una bambina e insieme abitata da quella irruente sensualità di giovane donna, posseduta dal ritmo pulsante della vita.

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

E poi Beatrice, la moglie di Eddie: una Valentina Sperli divina nel suo essere donna anche se di una femminilità diversa, propria dei suoi anni. Una donna che sa educare all’apertura, all’ebrezza della vita e che ha ancora fiuto e quindi annusa il pericolo di chi sta invadendo il suo territorio. Una donna che con classe graffiante reclama il marito e la loro intimità. Che sa parlare entrando in un vero rapporto dialettico con il suo uomo, il cui folle amore però “lo soffia il cielo”.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Massimo Popolizio è un Eddie Carbone densissimo e insieme trascinante. Immanente e trascendente. Un uomo che con “eleganza” ci trasmette la pesante imprevedibilità del vivere.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E’ simpatico, spiritoso, ironico ma anche responsabile e ponderato. È sinceramente affettuoso: come uno zio può esserlo. Però scopre, e noi con lui, che è anche altro: qualcosa difficile da riconoscere ma soprattutto difficile da contenere. Una smania di “avere” ciò che la legge del vivere civile ordina che non si può avere. Una strana “inquietudine” che lo possiede come un corpo esterno: quella che lo Iago shakespeariano chiamava “il mostro dagli occhi verdi”: la gelosia. Qui anche vagamente incestuosa.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E se non c’è modo di arginarla attraverso le leggi, non resta che tentare l’intentabile, il proibito: ciò che lui stesso, razionalmente, aveva definito deprecabile quando a farlo erano stati gli altri. Un incendio il suo, che lo possiede ineluttabilmente e propagandosi brucia anche gli altri. Ed è così vero Massimo Popolizio nell’interpretare questa umanissima difficoltà, che non riusciamo a non comprenderlo, schierandoci dalla sua parte. Come un vero personaggio shakespeariano.

Il cast dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” al completo

Fidati complici di scena sono tutti gli altri interpreti ancora non citati: Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Felice Montecorvino (Tony), Marco Mavaracchio (Agente), Gabriele Brunelli (Agente) e Marco Parià (Louis).

I costumi, curatissimi quanto efficaci, sono di Gianluca Sbicca.


Recensione di Sonia Remoli

Bolle di sapone

TEATRO INDIA, 12 Marzo 2023 –

Vi siete mai accorti che dal Teatro India salgono delle bolle di sapone ? Fateci caso. Sono bolle della storia: quella che poteva essere ma poi non fu.

Con questa suggestione ha avuto inizio ieri la visita-spettacolo “Bolle di sapone – Storia e storie che s’intrecciano, tra passato e futuro” .

Spazi interni ed esterni del Teatro India

Non tutti sanno forse che l’area dove si dispiegano gli spazi interni ed esterni del Teatro India era quella della famosa azienda “Mira Lanza”, che nel 1924 prese origine dalla fusione di due antiche aziende concorrenti: la veneziana “Mira” e la torinese “Lanza”. 

Pubblicità televisiva della Mira Lanza

La visita-spettacolo, promossa dal Teatro di Roma ed ispirata da un testo del drammaturgo Luca Scarlini, è un continuo gioco tra passato e futuro, tenuti insieme da una parola chiave: “recupero”, promessa e poi destino di quest’area.

Luca Scarlini

Qui, ad esempio, nel 46 a.C. Cesare diede dimora alla maliarda Cleopatra, la quale trasformò questi spazi detti “Orti di Cesare” in una corte reale, sul modello di quella di Alessandria d’Egitto.

Qui, Papà Pio IX (1792 -1878) intuì, nonostante il suo noto conservatorismo, che potesse nascere “una nuova Roma”: prospettiva che sembrò prendere reale concretizzazione ai tempi della giunta Nathan (1907), la quale provò a riequilibrare il centro d’interesse primario della città, spostandolo dal Vaticano verso la zona Prati-Trionfale. Ma qualcosa non andò per il verso giusto …

Ernesto Nathan

E anche Pier Paolo Pasolini ne “Il pianto della scavatrice” ne lascia una suggestiva testimonianza:

Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi

I due forni in pirite, lo stabilimento d’acido solforico ora arena esterna e lo stabile delle docce ora bar-ristorante

Durante la visita-spettacolo si scopre inoltre che la scenografia post industriale degli spazi esterni del Teatro India è impreziosita, in una sorta di teatro nel teatro, da parti di scenografie relative a fastosi allestimenti passati:

come lo scudo in bronzo utilizzato per “L’ Edipo a Colono” di Mario Martone

o la miriade di piedi che tappezzano la parete esterna dell’edificio del Teatro (installati sempre in occasione dell’allestimento di “Edipo a Colono” di Mario Martone). E molto altro ancora.

Interno dell’arena estiva, ex stabilimento dell’acido solforico, qui utilizzato per la produzione di detersivi e detergenti

Si passa poi, alla visita delle sale interne del Teatro India che, caratterizzate dalla favorevole comunicazione tra spazi interni e spazi esterni, permettono un intrigante gioco di colpi di scena.

Il retro dell’ingresso al Teatro India

I tre giovani attori del Teatro di Roma, Sylvia Milton, Silvia Quondam e Antonio Bannó, ben lungi dall’essere stati delle semplici guide, ci hanno regalato una visita piena di bellezza, d’immaginazione e di meraviglia, iniziandoci alla percezione di quei sentori di esoticità e di mistero che il nome “India” evoca.

Antonio Bannó, Silvia Quondam e Sylvia Milton al termine della visita spettacolo

Un destino da “cantiere”, e quindi di continuo sogno, è quello che abita questo luogo, predisposto a soffiare sempre nuove, evanescenti ma preziose bolle di sapone. E in fondo, non siamo forse anche noi “della materia di cui son fatti i sogni”? E la nostra piccola vita non è forse “circondata da un sogno” ?

Il Tevere, fuori dal Teatro India

Bolle di sapone
Visita-spettacolo al Teatro India
Storia e storie che si intrecciano, tra passato e futuro
Testo di Luca Scarlinicon Francesca Astrei, Antonio Bannò, Dario Battaglia, Antonietta Bello, Flavio Francucci, Gloria Gulino, Sylvia Milton, Alice Palazzi, Lorenzo Parrotto, Silvia Quondam, Giulia Trippetta, Diego Valentino Venditti


PROSSIMO APPUNTAMENTO

sabato 27 maggio, ore 11.00


biglietti
12,00 € intero
10,00 € gruppi
6,00 € studenti
PER GRUPPI – solo su prenotazione
prenotazioni e informazioni
tel. 06.684.000.346 e-mail, dal lunedì a venerdì
visiteguidate@teatrodiroma.net

solo su prenotazione compatibilmente con la programmazione del Teatro
Teatro di Roma – Ufficio Promozione

La donna invisibile

TEATRO TRASTEVERE, dal 10 al 12 Marzo 2023 –


Testo risultato vincitore al Premio Letterario V Municipio

con mise en éspace presso Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma


Ha ricevuto la Menzione d’onore al concorso Teatro in Cerca d’Autore 2021


Quello di Eva Gaudenzi è un accattivante teatro di narrazione. Il suo è un brillante monologo in cui ci parla, con scoppiettante ironia, della disperata ricerca da parte di una giovane donna, Adelaide Scomparin, di quel particolare “potere che rende speciali” .

Eva Gaudenzi

La carrellata dei ricordi di questa rocambolesca ricerca, vibra di un ritmo irrefrenabile e gravità intorno ad un aspetto della sua vita: le esperienze attoriali. Da piccola la definivano “tarda” : lenta, non sveglia, insomma. E le rifilavano solo parti “immobili” da “pura”: dalla pastorella alla suora. La morfologia è importante, si sa.

Eva Gaudenzi

E lei, cambiandosi al volo “a vista”, sa come far parlare tutti i personaggi coinvolti, dando vita ad uno splendido affresco. Ma poi, un giorno, arriva l’evento che contribuirà a dare un diverso orientamento alla sua ricerca.

I Fantastici 4

Morendo, il nonno le lascia in eredità uno “scrigno” colmo di fumetti de “I Fanyastici 4”. Dei quattro paladini che hanno deciso di mettere i lori “poteri speciali” a servizio dell’umanità, lei sente una potente affinità con Susan, “La Donna Invisibile“.

Eva Gaudenzi in una scena dello spettacolo “La donna invisibile” diretto da Emanuela Bolco

E così dai testi sacri delle agiografie delle sante, donne passivamente “invisibili” proposte dall’educazione cattolica a lei impartita, la giovane Adelaide arriva a non staccare gli occhi dalla sua eroina dei fumetti, dal potere così misterioso.

Eva Gaudenzi

In un sapiente gioco di continue rotture della quarta parete, seguite ed esaltate da un raffinato ed intimo disegno luci (lo spettacolo è diretto da Emanuela Bolco) la giovane acquisisce la linfa necessaria per poter proporsi a nuovi provini.

Eva Gaudenzi

Nell’ultimo, relativo a “Gli spettri” di Ibsen, dove ormai pronta a fare il salto di qualità (“la gente se lo aspetta”) si propone con la tutina da “Donna Invisibile”, succederà qualcosa di inaspettato: esposta, come Susan, ad una tempesta (emotiva) cosmica, riceverà poteri “sovrumani’.

Acquisirà la consapevolezza che il potere speciale è contare su se stessa. 

Eva Gaudenzi


ASSOCIAZIONE CULTURALE

” Pane e Parole “

L’associazione culturale “Pane e Parole” nasce nel 2016 da un’idea di Eva Gaudenzi (attrice, autrice e storyteller), Simona Coschignao (cuoca e sommelier) e Gabriele Peritore (poeta e scrittore).

Eva Gaudenzi e Simona Coschignao

La compagnia si occupa di produzione teatrale, piccolo catering e teatro a domicilio. Insieme, hanno immaginato una formula che unisse poesia, teatro e cucina.

Una situazione a domicilio

All’attivo diverse performance per l’inaugurazione di gallerie d’arte e vernissage; monologhi a domicilio abbianti ad assaggi di finger food.

Eva Gaudenzi si esibisce in una terrazza

In repertorio il monologo “Focumeo” scritto e diretto da Eva Gaudenzi e “Parto-monologo di sola andata verso la maternità”, che ha debuttato al Teatro Studio Uno di Roma nel febbraio 2018.

All’aperto, in città

Quest’ultimo seminifinalista alla rassegna di monologhi ShortLab diretta da Massimiliano Bruno e vincitore del premio Folle d’Autore 2018 intitolato ad Aldo Nicolaj. Lo spettacolo è stato rappresentato diverse volte a domicilio nella città di Roma.

Eva Gaudenzi

Ma il piccolo catering può viaggiare anche da solo, così come il repertorio di teatro a domicilio: non solo Pane e Parole ma anche…Pane o Parole.

Eva Gaudenzi

Parallelamente alle attività teatrali per adulti, conserviamo uno spazio speciale anche per i bambini: spettacolo teatrale a domicilio (volendo anche un piccolo laboratorio creativo dopo lo spettacolo) con merenda personalizzata. La sezione Bambini si arricchisce della collaborazione fra Pane e Parole e gli amici dell’associazione culturale J33tre, la cui presidente Beatrice Presen è per noi (e con noi) attrice e burattinaia.

Beatrice Presen e i suoi burattini


La Reine de Marbre

SPETTACOLO MULTILINGUE

TEATROSOPHIA, dal 9 al 12 Marzo 2023 –

Ieri sera 9 Marzo ha debuttato nell’eclettico spazio teatrale di Teatrosophia “La Reine de Marbre”: il nuovo spettacolo, scritto da Francesco Baj e diretto da Flavio Marigliani, portato in scena dalla Compagnia del Teatro Multilingue. L’unica compagnia a creare spettacoli multilingue, che mescolano più lingue all’interno della stessa pièce, senza nulla togliere alla comprensione del testo. La Compagnia del Teatro Multilingue è nota per il successo di “Mrs Greene e Goodbye Papà“, la cui tournée li ha portati ad esibirsi a Madrid, Bristol, Kingston e più volte a Londra.

Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ne “La Reine de Marbre” è impossibile non apprezzare il bel lavoro sul corpo, proprio della Commedia dell’Arte, portato in scena dai tre attori: Mayil Georgi Nieto, Marta Iacopini e Flavio Marigliani. La mimica trova espressione non col giuoco della fisionomia, spesso come in Arlecchino ricoperta dalla maschera, ma con l’atteggiamento dell’intera figura. Della Commedia dell’Arte ritroviamo anche quell’elemento, al tempo di portata dirompente e rivoluzionaria, che fu l’attribuzione di parti femminili a donne.

 Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ma in un divertissement di commedia e assurdo qual è “La Reine de Marbre” l’autore Francesco Baj ha il merito di “re-interpretare” alcuni meccanismi propri della Commedia del’Arte: Arlecchino ad esempio qui diventa “El Capitán Arlecchino”, affamato e vanaglorioso militare che non tiene sempre in viso la sua maschera in cuoio. Inoltre, uno dei due ruoli femminili è affidato a Madonna Angelica, che è la principale figura femminile del poema cavalleresco “Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo, e del seguente “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. E qui Madama Angelica è dotata di una bellezza soprannaturale come i suoi poteri: è infatti esperta di medicina e arti magiche, che in scena esercita avvalendosi del suo telo azzurro.

Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ma qui lei ha anche paura, vorrebbe fuggire e sarà la Petite Lucrecia, donna di personalità e con una propria autonomia di pensieri e d’azione, a saper reggere il peso di determinate situazioni: come quella dell’affrontare e reagire alla tempesta. La Petite Lucrecia ricorda molto la Lucrezia Di Siena che nel XVI secolo fu la prima donna, documentata, a esibirsi in una compagnia teatrale legata alle nuove formule spettacolari della Commedia dell’Arte.

Lucrezia Di Siena

Un personaggio di elevata cultura, in grado di comporre versi: come qui ne “La Reina de Marbre”, dove scandalizza per le sue idee. Si pone e propone, infatti, interrogativi filosofici per indagare se viene prima il maschile o il femminile, la musica o la parola, il rumore del mare o il nostro orecchio. Crede, la Petite Lucrecia, che il mondo vada vissuto e non solo teorizzato e incasellato in principi morali. Perché “la giustizia sta nel saper guardare dal punto di vista migliore”. 

Mayil Georgi Nieto (Madonna Angelica) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

In scena, due quinte centrali e distanziate sul fondo. E poi in proscenio una panchina, dal sapore del teatro dell’assurdo, esaltato dal sotto clima di attesa e di ciclicità di quell’inizio di narrazione ” c’era una volta una regina che disse alla sua serva – Raccontami una storia …”. Che comunque permette di avanzare, da fermi.

Dove la presunta fine del mondo portata dalla tempesta appare un nuovo inizio, un nuovo mondo. Un mondo di attesa. È un fatto naturale, né una maledizione, né una benedizione. Un’opportunità. Forse. “L’inferno esiste sulla terra solo se lo inventiamo noi”. Forse. La natura è superiore all’uomo o viceversa? Chi dà origine alla civiltà? È possibile un mondo democratico basato sulla fratellanza ?

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Questi sono solo alcuni degli interessanti spunti sui quali la pièce ci invita a riflettere. Meravigliosa poi l’idea di rendere l’incontro con i migranti naufraghi attraverso l”utilizzo di barche di carta dei colori della pelle degli uomini delle diverse nazionalità, utilizzandole per dare vita a suggestive scenografie e coreografie. 

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Uno spettacolo godibilissimo e prezioso, dove si narra di un veliero alla deriva nel Mediterraneo. El Capitán Arlecchino e due dame di compagnia di una regina decapitata nel XVIII secolo, Madonna Angelica e Petite Lucrecia, sono i sopravvissuti di una tempesta senza precedenti che li porta a scontrarsi con le barche dei migranti in rotta verso l’Europa. Fanno naufragio in una Grecia devastata dagli incendi, pescano plastica dal mare e, pur di sopravvivere in un mondo a loro sconosciuto, si reinventano democratici del XXI secolo vendendo i simboli della democrazia ai bagnanti sulle spiagge.

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Recensione dello spettacolo DA LONTANO – Chiusa nel rimpianto – scritto e diretto da Lucia Calamaro

TEATRO INDIA, dall’8 al 12 Marzo 2023 –

SCRITTO E DIRETTO DA LUCIA CALAMARO

La scena (curata da Katia Titolo) è bianca. Asettica. Con una sola parete sul fondo. Vuota, ad eccezione di un piccolo tavolo e due sedie da campeggio. Una figlia (Isabella Ragonese) ora terapeuta, è “al di qua” dalla parete. Al di là della stessa, sta quel che resta della mamma (Emilia Verginelli). Si parlano. Sembra un insolito setting terapeutico, dove la figlia fa di tutto per costruire quell’ indispensabile “alleanza” che si deve instaurare tra medico e paziente. La mamma però è tutta concentrata a boicottarla.

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Laddove la figlia, ormai adulta sente l’urgenza di ricucire, riparando con la parola e con l’ascolto uno strappo, un vuoto, una disattenzione del passato, la mamma reagisce invece sostituendo quasi totalmente la parola con i rumori infastidenti del trapano e del martello, con i quali la immaginiamo distratta in lavori. Che sia invece il suo modo di “riparare” ?

Isabella Ragonese in una scena dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto” scritto e diretto da Lucia Calamaro

Stremata e frustrata dalla difficoltà di comunicazione, in un apparente casuale momento di pausa-tregua, la figlia “accampandosi nell’isola”, costituita dal tavolo e dalle sedie da campeggio, “si collega” via Skipe con una paziente, dalla personalità simile a quella di sua madre. È in un metaforico “stare in campo”, in un assedio senza attacchi diretti ma tale da provocare “una mossa”, che la genialità della regista Lucia Calamaro dà vita ad una sorta di teatro, nel teatro on line. Da remoto. Da lontano: come evoca il titolo.

Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo “Da lontano. Chiusa nel rimpianto”

La mamma, di là dalla parete, si permette finalmente di prestare ascolto, non essendo coinvolta in maniera diretta. Lo capiamo dal diverso atteggiamento che offre ora alla figlia, dopo che quest’ultima ha ultimato la seduta on line. “Hai mangiato?” – è finalmente la sua prima domanda. La prima volta che fa trapelare il suo essere disposta ad entrare in relazione. Non a caso Elsa Morante era solita sostenere che proprio questa domanda esprime, più di altre, l’amore. L’interesse per un nutrimento non solo alimentare. 

Isabella Ragonese e Emilia Verginelli (la madre)

La coinvolgente struttura della narrazione, seminando opportunamente dettagli, crea quella suspense necessaria per mantenere viva l’attenzione dello spettatore. Soprattutto su un tema dove potrebbe risultare scomodo “stare”.

Isabella Ragonese

Isabella Ragonese (la figlia), avvolta nel suo tailleur blu egiziano (i costumi sono di Francesca Di Giuliano) sa essere una di noi. Sa esserci vicina. Sa con la sua interpretazione, assecondare e valorizzare un testo che ci seduce a entrare in campo, a superare la tentazione di mantenere un confine, un margine. E arriva il punto in cui qualcosa ci spinge a fare un altro passo. E ci siamo dentro. Per fortuna. “Senza l’altro … ma come si fa !?” . 

Un setting-teatro intenso e versatile. Come il blu egiziano: il più sublime dei blu. Il blu di quel cielo che si può aprire, come il tailleur, rivelando le gialle stelle.

Isabella Ragonese


con la partecipazione di Emilia Verginelli

disegno luci Gianni Staropoli

costumi Francesca Di Giuliano

scene Katia Titolo

foto Natalia Nieves Iszakovits

produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini

per Infinito Teatro Argot Produzioni

in collaborazione con Riccione Teatro


Isabella Ragonese e Lucia Calamaro


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PENG di Marius von Mayenburg – regia di Giacomo Bisordi

TEATRO VASCELLO, dal 7 al 12 Marzo 2023 –

Un gorgoglio: questo è l’indizio che riceviamo prima di capire che siamo all’interno di un utero. È il  liquido amniotico a gorgogliare. Al suo suono si associa quello della voce  dei pensieri di uno strano neonato, che si presenta confidandoci il suo nome: Peng. Lo sa perché, sopra il sottofondo continuo della televisione che va, sente i suoi genitori fantasticare sulla scelta del destino da abbinare al suo nome proprio. E come ascoltando il mondo da un oblò (curatore dei suoni è Dario Felli), Peng si annoia un po’. 

Fausto Cabra (Peng neonato) nello spettacolo di Giacomo Bisordi

E allora per riempire l’attesa che lo separa dalla sua “uscita”, anche lui passa il  tempo a fantasticare sul suo nome. E lo fa derivare, etimologicamente, dal francese. In particolare, da quegli Ugonotti che sapevano, loro sì, come non annoiarsi: uccidendo migliaia di persone. In effetti questo sarà il destino collegato al suo nome: per poter essere l’ “unico”  figlio, Peng strangola sua sorella gemella cosicché non esca dall’utero. Dal parto verrà alla luce così “il primo figlio-bestia”. Già cresciuto: cammina, parla e ha i denti.

Una scena dello spettacolo “Peng” di Giacomo Bisordi

Ma che notizia !!! Ne approfitta subito un giornalista che propone ai genitori di diventare protagonisti di una sorta di reality. Pur di essere visti e seguiti dal grande occhio della telecamera, tutti i protagonisti della vicenda “vengono alla luce” attraverso una vera e propria competizione ad essere “il” protagonista. L’unico.

Fausto Cabra (Peng neonato) e Ado Ottobrino (suo padre) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

La scena (curata da Marco Giusti) semplice ed essenziale ma sempre efficacissima nel suo cambiare “a vista” a seconda delle  situazioni, si avvale della presenza di due schermi: uno per vedere l’inquadratura della videocamera e l’altro per far andare programmi televisivi. In particolare televendite, il cui monopolio è in mano ad una melliflua  presentatrice-divulgatrice: la mirabile Manuela Kustermann

Ma chi sono i genitori di questo Peng?

Aldo Ottobrino (padre), Sara Borsarelli (madre), Fausto Cabra (Peng) e Francesco Sferruzza Papa (giornalista) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Indossano una tuta rossa Adidas come fosse una divisa. E la fanno indossare anche al figlio. Apparentemente si propongono come esempi di autenticità: mangiano sano, praticano discipline orientali, accolgono chi è in difficoltà. Ma in realtà il loro credo è la violenza, suggellata dalle note  del “Lascia ch’io pianga” di Händel. Perché “ciò che è più efficace, è irrazionale”.

Fausto Cabra (Peng) in uno scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Peng, invece, non eredita la maschera dell’ipocrisia borghese dei suoi genitori. Viene subito alla luce come un crudele violento. E se ne compiace. Non si nasconde dietro alle buone maniere e va fiero delle rovine che lascia al suo passaggio. È una bestia sincera. Sia nascosto dall’ipocrisia sia scevro, quello in scena è un mondo che ha perso la sua “humanitàs”, quel misto di autentica solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza.

Fausto Cabra (Peng bambino) e Francesco Giordano (Leone qui) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Qui “vale” ciò che puoi far vedere agli altri. Persuadendoli. Per essere un vero protagonista omologato. Dove non serve conoscere ma comprare. Dove ci si orienta attraverso i dictat  “mai più senza …”  e ” dillo guardando nella telecamera n….”. Perché la gente vuole che succeda sempre qualcosa nella vita degli altri, per distrarsi dalla propria: è lo show business

Giacomo Bisordi, il regista dello spettacolo “Peng”

Il regista Giacomo Bisordi  sceglie di portare in scena un testo denuncia di Marius von Mayenburg (scritto dopo l’elezione di Donald Trump) riadattandolo, attraverso la traduzione di Clelia Notarbartolo, alla situazione italiana. Ne scaturisce un lavoro volutamente feroce. Senza ipocrite edulcorazioni. Crudo ma necessario. L’originale regia si avvale della complicità di attori davvero molto efficaci, ciascuno nel ruolo o nei ruoli che è chiamato a rendere. Sono Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo e Francesco Giordano. Su tutti brilla “la bestia” Fausto Cabra. Uno spettacolo che indaga sul tabù che ci porta a ridere di ciò di cui dovremmo vergognarci. Ma anche così è la natura umana.

Il cast agli applausi


Recensione di Sonia Remoli

Revolution

È un elogio della “parola” modellata sui ritmi dell’hip hop, il musical ispirato alla storia di Alexander Hamilton e diretto d Maurizio Purifico. Quella “parola” la cui libertà d’espressione fu una della conquiste più preziose sancite dalla prima Costituzione scritta: quella degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789.

Particolare di una banconota da 10 dollari raffigurante Alexander Hamilton

Ed è intorno ad una vera e propria “fame di parole” che il musical prende forma, rivelando un’interessante fedeltà all’intima esigenza di Hamilton di ricorrere alla parola scritta per affrancarsi e contemporaneamente affrancare chi, come lui, si trovava a subire ingiustizie sociali, perché minoranza. Parole portatrici di ideali, per restare fedele ai quali non ha temuto di andare incontro alla morte: “Morire è facile, Vivere è la sfida! “.

Matteo Corvatta (Hamilton) in una scena del musical “Revolution”

Una perfetta storia, quella di Hamilton, da hip hop: lo stile musicale e culturale che ben permette di esprimere la propria identità e che fa della libertà, luogo astratto dei diritti, una realtà concreta come quella della nostra dimensione interiore.

Una scena del Musical “Revolution”

I testi, curatissimi e incredibilmente densi, sono una vera e propria valanga di parole, che trova in questo genere musicale capace di trasmette più parole al minuto di qualsiasi altro, un perfetto veicolo d’espressione.

Una scena del Musical “Revolution”

Il sipario di “Revolution” si apre su una scena dominata da una struttura praticabile a ponte (che ricorda quello di una nave) esaltata da un sapiente disegno luci. Il “ponte” rappresenta il mezzo per andare al di là del nostro solito mondo, verso una dimensione diversa, “una terra promessa dove i frutti sono di tutti”.

Una scena del Musical “Revolution”

Come dovrebbe avvenire anche nella vita, nel Musical “ogni particolare” risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo. Qui in “Revolution” la narrazione storica, inclusiva di preziosi punti di vista al femminile, si avvale di una potente sinergia costituita da vigorose prove attoriali e brillanti esposizioni canore che, unite a persuasive coreografie, danno vita ad uno splendido esempio di coralità.

Una scena del Musical “Revolution”

Con notevole acume il regista Maurizio Purifico identifica il titolo del suo musical in uno dei diritti sancito nella Costituzione americana del 1789: quello alla Rivoluzione appunto . Un diritto che non dovremmo mai dimenticare di esercitare nei momenti necessari. Insieme. Perché “Unione” fa rima anche con “Rivoluzione”.

Una scena del Musical “Revolution”

Perché le rivoluzioni, coraggiosamente volute o ineluttabilmente subite, segnano un nuovo punto di partenza, avendo preparato il terreno per un’evoluzione. Questo lo splendido messaggio con il quale ci si alza, pieni di fervore, dalla poltrona del teatro a fine spettacolo. E che ci si porta a casa.

Una scena del Musical “Revolution”

Questo è il potere civile del Teatro quando si ha l’opportunità di assistere ad uno spettacolo qual è “Revolution”.

Backstage : il regista Maurizio Purifico insieme alla Compagnia alcuni momenti prima dello spettacolo

Turandot

TEATRO LE SALETTE, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023 –

Nella produzione di Carlo Gozzi, drammaturgo della Venezia del Settecento protagonista di una polemica sul teatro nella quale difendeva i vecchi artifici della Commedia dell’Arte contro le novità introdotte nel teatro da Goldoni, c’è anche una serie di pezzi drammatici basati sulle fiabe: inizialmente queste opere divennero popolari, ma dopo lo smembramento della Compagnia Sacchi caddero nel dimenticatoio. Furono molto apprezzate da Goethe, Schlegel, Madame de Staël e Sismondi. Uno di questi testi drammatici, Turandot, fu tradotto da Schiller in lingua tedesca e ispirò a Puccini l’opera omonima.

L’ambientazione di Turandot è esotica ed orientale, in risposta al gusto dell’epoca, a quella illuministica voglia di migrare verso posti lontani, di esplorare terre sconosciute di cui non si conoscono né usi, né costumi. Ma i personaggi secondari sono quelli tipici del teatro delle maschere.

E questa caratteristica è ben rispettata e resa nell’adattamento di Francesca e Natale Barreca e nella messa in scena registica di Stefano Maria Palmitessa.

Stefano Maria Palmitessa, regista dello spettacolo “Turandot”, al teatro Le Salette

Prendendo posto nella suggestiva sala del Teatro Le Salette, incastonato in quel fascinoso Vicolo del Campanile che collega la maestosa via della Conciliazione all’atmosfera raccolta di un inaspettato secondo cuore pulsante di Roma qual è il medioevale Borgo Pio, subito si nota una particolare modifica dello spazio teatrale, elemento centrale nella ricerca registica di Stefano Maria Palmitessa, per il quale risulta fondamentale iniziare lo spettatore ad un nuovo “sguardo”. Spesso solo suggerito ma proprio per questo più aperto ad un “oltre”.

Il boccascena in questo caso è delimitato, su due livelli, da quinte orizzontali che, come delle balaustre, riducono la visione degli attori fino a metà del loro busto. Chiara è l’allusione al Teatro dei Burattini, ricordo inconscio del regista, solito frequentare il celeberrimo Teatro dei Burattini di Villa Borghese.

Una scena al Teatro dei Burattini di Villa Borghese a Roma

Con la complicità di praticabili, gli attori lentamente si palesano suscitando la meraviglia di un’epifania e velocemente si eclissano scomparendo dietro le balaustre. Prime nel palesarsi sono le maschere della Commedia dell’Arte, alle quali è affidata la funzione di Coro: aprono la rappresentazione con un prologo introduttivo della vicenda narrata; chiudono con un epilogo ” …e al fin li magnam sti confetti” e frammezzano la narrazione con dei commenti.

L’intelaiatura narrativa ricorda le trame di quelle novelle orali che venivano raccontate in epoca pre-rinascimentale: vi è un eroe che deve conquistare il cuore di una principessa, bella ed impossibile, ma che nel farlo, incontra ostacoli maledettamente difficili da superare.

La storia, ormai nota a tutti, è quella di Turandot, principessa della Cina, tanto bella quanto gelida e spietata, vinta solo dalla forza dell’amore e del coraggio di un principe temerario e innamorato che, sostenuto dalla sua cultura e dalla sua passione, risolve i famosi inestricabili enigmi.

Una storia quella della tragica ‘bisbetica domata’ Turandot, già narrata dal francese Francois Pétis de la Croix in quel suo Les mille et un jours” (1710) con cui aveva inteso sfruttare il successo, recente e vivissimo, de “Le Mille et une nuits“.

Curatissimi esteticamente ed efficaci drammaturgicamente i costumi di Mary Fotia: bianchi per i personaggi della favola cinese, neri per le maschere della commedia dell’arte.

Di grande fascino il kesho (ovvero il trucco dell’attore nel kabuki) che prevede che i volti di onnagata (qui il personaggio di Turandot è infatti un uomo) e di ragazzi siano coperti solo di bianco, essendo il bianco il colore per eccellenza della bellezza femminile e della delicatezza della gioventù. Unica concessione, le labbra rosse, una pennellata di rosso agli angoli degli occhi e le sopracciglia disegnate più in alto del naturale (tsukuri mayu). 

Esempio di trucco kabuki per femmine e giovani

Sul volto dei personaggi maschili, invece, sono stese le linee che ne fissano l’espressione sotto la luce dei proiettori, rendendo evidenti i sentimenti che li animano: il blu per la calma; il rosso per la collera, il coraggio, l’ostinazione; il grigio per la tristezza; il viola e il nero per la paura o la malvagità; il porpora per la superbia.

Esempio di trucco kabuki per maschi

Il regista Palmitessa dà forma ad uno spettacolo elegante e pieno di suggestioni, dove si nota un interessante studio sulla parola e sulla sua musicalità; su quel che resta del corpo dell’attore e sulla possibilità di dilatarlo. Vivificando continuamente l’attenzione dello spettatore.

Recensione dello spettacolo IL GABBIANO di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Prima tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023

Nessuna musica. Nessuna quinta. Il sipario si apre su uno spazio teatrale (le scene e le luci sono di Nicolas Bovey) completamente nudo e massimamente aperto. Indifeso e quindi pronto a essere plasmato. Come nella vita, gli attori in scena sono “gettati” in un luogo da riempire solo con la propria interpretazione. Con la propria vocazione.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Unico oggetto in scena: una panchina in proscenio. E delle sedie disposte in un’unica fila sul fondo dello spazio: una sorta di dietro le quinte a vista. Un dietro che avanza. La panchina, così come la fila di sedie, “margini” sui quali “sedersi” . L’atmosfera è più quella di una sala prove che quella di un debutto.

Una scena del film “Vanya sulla 42esima strada” di Louis Malle (1994)

E fa tornare alla memoria il film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, tratto da un adattamento teatrale di David Mamet. Anche per il tipo di recitazione affidata agli interpreti: più smaliziata, dai ritmi più sostenuti (a volte addirittura scevra da segni d’interpunzione), più gradevole, più attuale.

Il cast dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

A parlarcene sono anche i costumi che indossano (curati da Aurora Damanti): la scelta dei tessuti, il tipo di taglio, le scelte cromatiche. Poco nero, se non dove è indispensabile. E laddove (drammaturgicamente) consentito, alleggerito dal bianco. Contribuendo così, in sinergia al tipo di recitazione più essenziale e quasi autoironica, a rendere il confine tra riso e pianto meno netto.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Fino a riuscire a strapparci di tanto in tanto un sorriso. O una risata. Di comprensione. Di complicità. Come sarebbe piaciuto a Čechov, visto che inalterata resta l’intensità e la bellezza del testo teatrale. Sono, questi rivisti dal regista Leonardo Lidi, personaggi che rispecchiano poeticamente la nostra stessa difficoltà, variamente declinata, di stare al mondo. Soprattutto nei momenti storici di passaggio. Vivono in una, a tratti consapevole, coesistenza di disperante malinconia e irresistibile comicità. E li comprendiamo: senza giudicarli.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Oscillano: siedono sulla vita volteggiando su se stessi, anche quando sono in due a ballare. Senza avanzare davvero. Tentati dalla rassegnazione. Un desiderio, il loro, che non conosce vera intrepidità se non nei giovani, diversamente contagiati dal nuovo che sta entrando. “Silenzio, viene gente !” è il loro mantra per sfuggire a qualcosa che potrebbe invaderli: l’amore. “Come siete tutti nervosi ! E quanto amore ! “.  

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

E quando cadrà su di loro il cielo del nuovo tempo, non li toccherà. Se non anagraficamente. Invecchieranno riuscendo ancora a schivare ciò che li sta investendo. Convincendosi, come il Dottore, di continuare a batterlo loro il tempo. Ipnotizzandosi. Impreparati, ancora, a debuttare. Nella vita.

“La bohème, la bohème, 

indietro non si torna mai”

(Charles Aznavour, La bohème)


Recensione di Sonia Remoli