La Reine de Marbre

SPETTACOLO MULTILINGUE

TEATROSOPHIA, dal 9 al 12 Marzo 2023 –

Ieri sera 9 Marzo ha debuttato nell’eclettico spazio teatrale di Teatrosophia “La Reine de Marbre”: il nuovo spettacolo, scritto da Francesco Baj e diretto da Flavio Marigliani, portato in scena dalla Compagnia del Teatro Multilingue. L’unica compagnia a creare spettacoli multilingue, che mescolano più lingue all’interno della stessa pièce, senza nulla togliere alla comprensione del testo. La Compagnia del Teatro Multilingue è nota per il successo di “Mrs Greene e Goodbye Papà“, la cui tournée li ha portati ad esibirsi a Madrid, Bristol, Kingston e più volte a Londra.

Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ne “La Reine de Marbre” è impossibile non apprezzare il bel lavoro sul corpo, proprio della Commedia dell’Arte, portato in scena dai tre attori: Mayil Georgi Nieto, Marta Iacopini e Flavio Marigliani. La mimica trova espressione non col giuoco della fisionomia, spesso come in Arlecchino ricoperta dalla maschera, ma con l’atteggiamento dell’intera figura. Della Commedia dell’Arte ritroviamo anche quell’elemento, al tempo di portata dirompente e rivoluzionaria, che fu l’attribuzione di parti femminili a donne.

 Mayil Georgi Niete (Madonna Angelica) e Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ma in un divertissement di commedia e assurdo qual è “La Reine de Marbre” l’autore Francesco Baj ha il merito di “re-interpretare” alcuni meccanismi propri della Commedia del’Arte: Arlecchino ad esempio qui diventa “El Capitán Arlecchino”, affamato e vanaglorioso militare che non tiene sempre in viso la sua maschera in cuoio. Inoltre, uno dei due ruoli femminili è affidato a Madonna Angelica, che è la principale figura femminile del poema cavalleresco “Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo, e del seguente “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. E qui Madama Angelica è dotata di una bellezza soprannaturale come i suoi poteri: è infatti esperta di medicina e arti magiche, che in scena esercita avvalendosi del suo telo azzurro.

Flavio Marigliani (El Capitán Arlecchino) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Ma qui lei ha anche paura, vorrebbe fuggire e sarà la Petite Lucrecia, donna di personalità e con una propria autonomia di pensieri e d’azione, a saper reggere il peso di determinate situazioni: come quella dell’affrontare e reagire alla tempesta. La Petite Lucrecia ricorda molto la Lucrezia Di Siena che nel XVI secolo fu la prima donna, documentata, a esibirsi in una compagnia teatrale legata alle nuove formule spettacolari della Commedia dell’Arte.

Lucrezia Di Siena

Un personaggio di elevata cultura, in grado di comporre versi: come qui ne “La Reina de Marbre”, dove scandalizza per le sue idee. Si pone e propone, infatti, interrogativi filosofici per indagare se viene prima il maschile o il femminile, la musica o la parola, il rumore del mare o il nostro orecchio. Crede, la Petite Lucrecia, che il mondo vada vissuto e non solo teorizzato e incasellato in principi morali. Perché “la giustizia sta nel saper guardare dal punto di vista migliore”. 

Mayil Georgi Nieto (Madonna Angelica) e Marta Iacopini (Petite Lucrecia) in una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

In scena, due quinte centrali e distanziate sul fondo. E poi in proscenio una panchina, dal sapore del teatro dell’assurdo, esaltato dal sotto clima di attesa e di ciclicità di quell’inizio di narrazione ” c’era una volta una regina che disse alla sua serva – Raccontami una storia …”. Che comunque permette di avanzare, da fermi.

Dove la presunta fine del mondo portata dalla tempesta appare un nuovo inizio, un nuovo mondo. Un mondo di attesa. È un fatto naturale, né una maledizione, né una benedizione. Un’opportunità. Forse. “L’inferno esiste sulla terra solo se lo inventiamo noi”. Forse. La natura è superiore all’uomo o viceversa? Chi dà origine alla civiltà? È possibile un mondo democratico basato sulla fratellanza ?

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Questi sono solo alcuni degli interessanti spunti sui quali la pièce ci invita a riflettere. Meravigliosa poi l’idea di rendere l’incontro con i migranti naufraghi attraverso l”utilizzo di barche di carta dei colori della pelle degli uomini delle diverse nazionalità, utilizzandole per dare vita a suggestive scenografie e coreografie. 

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Uno spettacolo godibilissimo e prezioso, dove si narra di un veliero alla deriva nel Mediterraneo. El Capitán Arlecchino e due dame di compagnia di una regina decapitata nel XVIII secolo, Madonna Angelica e Petite Lucrecia, sono i sopravvissuti di una tempesta senza precedenti che li porta a scontrarsi con le barche dei migranti in rotta verso l’Europa. Fanno naufragio in una Grecia devastata dagli incendi, pescano plastica dal mare e, pur di sopravvivere in un mondo a loro sconosciuto, si reinventano democratici del XXI secolo vendendo i simboli della democrazia ai bagnanti sulle spiagge.

Una scena dello spettacolo “La Reine de Marbre” di Flavio Marigliani

Fantasme

TEATROSOPHIA, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

In un suggestivo ambiente glaciale di stalattiti e stalagmiti (la scena è stata curata da Enzo Piscopo) si individuano, seppur mimetizzate, tre donne “freezzate”, congelate in un fermo immagine. Attendono la nostra attenzione. Una volta accordata, all’udir le prime note di un motivo musicale, come libere ora dal sortilegio dell’incantesimo che le voleva invisibili, si sciolgono. E si rianimano.

Una scena iniziale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Sono fuori da ogni coordinata spazio-temporale e prima di sentirsi a loro agio nell’abitare questo nuovo ambiente, lo perimetrano tutto. Impavide. Sbilanciandosi anche oltre il confine che separa il palco dalla platea. Affamate di entrare finalmente nello sguardo degli altri. Si muovono come in una danza: ora lieve, ora densa. Sempre, carica di una potente espressività.

Maria Concetta Borgese

Sembrano dover recuperare qualcosa che hanno perso. Che è stato loro sottratto. Si guardano e s’intendono, senza parlarsi. Ormai complici, si muovono come in simbiosi: sono tre ma in un’unica entità. Una di loro inizia a chiamare il suo uomo: “Veturio ! ” e le altre due ne sostengono l’accoramento, dando forza alla sua esigenza di rivalsa. E ne ripetono il nome, come fosse un’eco. Come un coro di una tragedia greca.

Silvia Mazzotta e Marta Iacopini in una scena dello spettacolo “Fantasme”

Sono fantasme, spettri di persone defunte, che dallo stereotipato lenzuolo bianco non si lasciano più coprire. Piuttosto ne fanno una veste che le riveli. Non hanno negli occhi l’ira vendicatrice di Erinni: a loro interessa non essere invisibili, essere ricordate. Per far sì che ciò che è loro accaduto non si ripeti in un’assecondante e rassegnata normalità.

Marta Iacopini

Loro urgenza è dare vita a nuove occasioni per ricordare propositivamente il proprio valore di donne che hanno saputo amare. E amarsi. E far sì che “il danno” da loro subito trovi giustizia nell’essere da noi ascoltato e fatto valere con il nostro esempio. “Chiunque io sono, ricorderò chi sono stata !” – è il loro motto.

Ma è anche un’esortazione alla sorellanza: come patto sociale, etico ed emotivo. Consapevoli che insieme si è più forti. E che solo così è possibile avviare un vero e proprio cambiamento sociale. “Quanto poco si conoscono le donne !” – ripetono come in un loop le fantasme. 

Silvia Mazzotta

E si commuovono. E ci commuovono. Dopo averle seguite attraversando con loro le regioni dell’anima della passionalità, della generosità, della frustrazione, del disgusto, della rabbia, della dimenticanza fino alla prepotente esigenza di una rivalsa, facciamo tappa nella regione della solidarietà. Riconoscendoci in tutta la nostra maestosa fragilità di creature che sanno commuoversi. Insieme. Per poter dar vita a nuovi inizi.

Silvia Mazzotta, Marta Iacopini e Maria Concetta Borgese in una scena finale dello spettacolo “Fantasme” di Guido Lomoro

Molto interessante la scelta del regista Guido Lomoro, la cui cifra stilistica si esprime costantemente in un’attenta e appassionata indagine della natura umana, di proporre una riduzione teatrale dell’avvincente testo di Claudio Marrucci e Carmela ParissiFantasme. Da Messalina a Giorgiana Masi“, focalizzando l’attenzione registica su una rosa di 9 esempi femminili (rispetto ai 25 del testo originale) che continuano a parlarci e ad illuminare le nostre esistenze.

Guido Lomoro, il regista dello spettacolo “Fantasme”

Soprattutto grazie alla generosa accoglienza e “visibilità” riservata loro dalle tre appassionate interpreti sulla scena: Maria Concetta Borgese, Marta Iacopini e Silvia Mazzotta. Impetuose e piene di grazia. Capaci di restituire vibrante esistenza a creature troppo spesso avvolte nel ghiaccio della dimenticanza.

Tommy

TEATROSOPHIA, dal 20 al 22 Gennaio 2023 –

Quanto bisogno abbiamo di uno spazio tutto nostro, solo nostro, da tutelare e che ci tuteli, per poterci sottrarre alla luce accecante degli occhi degli altri? E a quella, ancora più insopportabile, dei nostri occhi ? Quando non basta più far calare il sipario delle palpebre per non vedere. E per non farsi vedere. Quando il voltare la testa dall’altra parte o il cambiare discorso da parte degli altri ci rinnega. Un luogo non solo fisico ma anche mentale, dove andare a ritrovare noi stessi. E gli altri: così come li vorremmo. Un luogo che ci accolga: che come una madre ci faccia riscoprire la voglia di vivere e che come un padre ci inizi all’arte del desiderio di desiderare. Attraverso sane regole. Sani divieti.

Giuseppe Manfridi, autore del testo “Tommy”

Questo testo frammentato e frammentante fino al parossismo, uscito dalla già acuta penna di un giovanissimo Giuseppe Manfridi appena ventenne (ora uno dei massimi drammaturghi italiani e autore di commedie rappresentate in tutto il mondo) e interpretato da un altro ventenne, il talentuoso Giuseppe Arezzi, con trasporto fremente e abbandonato, allucinato e lucido, ci agguanta.

Giuseppe Arezzi (Tommy) in una scena dello spettacolo “Tommy” di Giuseppe Manfridi

E lo fa così tanto, da farci riuscire a tollerare il suo dilaniante stare “dentro”, con un “fuori” che continua a bussare. Complice la natura della spazio scenico del Teatrosophia: un ambiente “uterino”, in simbiosi con questo singolare taglio che il regista Vittorio Bonaccorso ha scelto di dare al testo originale. Dove tutto è a soqquadro: da quel che resta del mobilio, fino ai micro elettrodomestici.

Giuseppe Arezzi, il protagonista del monologo “Tommy” di Giuseppe Manfridi

Uno scompiglio quello del soqquadro causato, come anche la natura della parola ci suggerisce, dal togliere un elemento di sostegno che tiene a squadra un argine. Evento ambientale che trova già un primo significativo sintomo nello “starnuto”, per di più continuo fino a divenire compulsivo, di Tommy. Non si direbbe ma è uno dei momenti della vita in cui siamo più vicini alla morte, quello dello starnuto. La pressione interna dei polmoni aumenta enormemente, prima della “deflagrazione”. Per un attimo le vie aeree si ostruiscono e il battito cardiaco subisce un’impennata. Ma se compulsivo, lo starnuto è anche una disfunzione dell’attività mentale, manifestata da pensieri la cui ansia può essere eliminata solo eseguendo azioni ossessivo-compulsive. Lo starnuto ne è un esempio.

Un po’ come Cosimo ne “Il barone rampante” di Italo Calvino, Tommy sente l’urgenza di trovare asilo altrove: non in alto tra querce, ontani e lecci ma in basso, in uno sgabuzzino. Buio. Inizialmente risulta sufficiente evadere per mezz’ora ma poi l’esigenza diventa più pressante fino a portarlo a scegliere di rimanere lì costantemente. Perché lì, dice, riesce a non starnutire. Ma davvero?

Vittorio Bonaccorso (il regista), Giuseppe Arezzi (l’interprete) e Giuseppe Manfridi (l’autore)

Diario licenzioso di una cameriera

TEATROSOPHIA, 11 – 13 novembre 2022 –

E’ in una stazione, luogo dove s’incontrano vite (e metafora della vita che, come un treno, sfreccia tra paure, sogni e desideri) che noi incontriamo Célestine (un’ammaliante e profonda Giovanna Lombardi).

Lei è (apparentemente) l’unica protagonista del “Diario licenzioso di una cameriera”: emozionante adattamento del regista Gianni De Feo della pièce del rinomato drammaturgo Mario Moretti, che a sua volta adattò dal testo originale di Octave Mirbeau “Journal d’une femme de chambre“. 

Seduta, ma cangiante come i colori dei cieli dolci e piovosi della Normandia, Célestine aspetta di arrivare alla sua nuova destinazione lavorativa, al suo nuovo destino. È di una bellezza austera e sensuale: sembra uscita da un manifesto di Toulouse Lautrec (i costumi sono di Roberto Rinaldi).

Henri de Toulouse Lautrec, Divan Japonais – 1893-

Quando inizia a rivolgerci la parola siamo invasi dalla sua malizia. Ci arriva dalla sua voce golosa; dal suo corpo che si offre e si cela; dalla sua bocca così morbida e umida; dal suo tatto così avido di superfici da esporare.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

E dai suoi gesti così in simbiosi con la musica. Ma sono i suoi occhi a stregarti e a portarti via con lei. Dovunque il suo capriccio decida di andare. Occhi che proiettano paure, eccitazioni, gioie. Occhi che sanno parlare anche in quei silenzi così potentemente densi. Nella malìa della sua narrazione, Célestine denuncia l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro, appartenenti a quella borghesia che ostenta “case linde e pinte dietro facce disgustose”.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Lei presta servizio come cameriera e si descrive in una maniera che potrebbe farla risultare un’opportunista. Lo è. Anche. Ma non solo. Il suo non è un mero scambio di servizi. Lei “sa guardare”. Non solo con gli occhi ma anche con la mente. E con il cuore.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Ha la capacità di visualizzare anticipando gli eventi che la coinvolgono e poi la prontezza di sincronizzarvisi. Per questo quando ci parla degli uomini e delle donne che ha incontrato, lei “scatta” veri e propri “ritratti” umani. Non si accontenta di lavorare per vivere. Vuole “sentire”, piuttosto, cosa significa vivere. In quanti modi si può vivere. Quanto può essere seducentemente contraddittoria la vita.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Come può accadere di essere attratti dalla violenza che si mischia alla protezione e dalla malattia che è anche fonte zampillante di vita?

Eppure accade, se non ci si ferma sulla soglia delle ipocrite classificazioni borghesi. Perché se si ha davvero fame di vita, non si può non riconoscere che il bene non si dà mai disgiunto nettamente dal male. Giudicare non ha più senso, allora. E non è più vero, come aveva dichiarato inizialmente, che lei sia impenetrabile: che nulla la meravigli. Lei sa di essere “una donna che fa sangue”, che ha bisogno di sedurre e di essere sedotta. Sa che la sua luce è data dalle sue ombre e non teme di rivelarle, quando anche l’altro le fa dono di ciò che non ha.

Questo adattamento del “Diario licenzioso di una cameriera” di Gianni De Feo è uno spettacolo magnetico: un inaspettato viaggio emozionale . Merito di una regia curatissima, introspettiva e raffinatamente sfacciata. Le scene (di Roberto Rinaldi) sono semplici ma efficaci pennellate di ottimo gusto e il disegno luci, unito alla complicità delle scelte musicali, fonte diegetica: alcuni momenti sono costruiti su immagini scritte con la luce.

Nessuno dopo di te

TEATROSOPHIA, dal 22 al 27 Febbraio 2022 –

L’amore come l’acqua si insinua. E insiste fino a levigare. È un vai e vieni che sposta materia ed energia. È una continua perturbazione. Le sue onde gonfiandosi vanno a infrangersi su tutto ciò che costituisce un limite, un confine. Come le pareti di una stanza; come i muri emotivi eretti dall’altro.

La prima volta, al mare, solo Diego viene inondato da Mirko, che invece si limita ad apprezzare narcisisticamente le sue attenzioni. Gli è sempre piaciuto piacere. Gli è sempre piaciuto essere infastidito. Ma Diego, nonostante tutto, insiste: come fa l’acqua che leviga, come fa il desiderio che dice “ancòra”, come si fa con una corda che prima si tira e poi si allenta, in un continuum.

E qualcosa in Mirko si leviga: inizia ad innamorarsi del desiderio con il quale Diego lo desidera. Un desiderio che ospita la lotta, la guerra, il gioco, la passione travolgente: elementi resi con efficacia coreografica e narrativa. E poi c’è l’intimità: quella che parte dal corpo per attraversarlo, passando per la mente, fino a raggiungere l’anima. Intimità che a volte si fa fatica a riconoscere e ad accettare: una sinergia di sensazioni, rese suggestivamente con plasticità iconografica.

Ma la verità più vera spesso la si trova nel “non detto”, nell’assenza, nel silenzio: solo così, ci si manifesta un’insolita versione di noi stessi, che l’altro ci solletica. E che ci salva.

Uno spettacolo interessante: elegantemente travolgente.