il Gabbiano

Progetto Čechov – Prima tappa

TEATRO VASCELLO, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023 –

Nessuna musica. Nessuna quinta. Il sipario si apre su uno spazio teatrale (le scene e le luci sono di Nicolas Bovey) completamente nudo e massimamente aperto. Indifeso e quindi pronto a essere plasmato. Come nella vita, gli attori in scena sono “gettati” in un luogo da riempire solo con la propria interpretazione. Con la propria vocazione.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Unico oggetto in scena: una panchina in proscenio. E delle sedie disposte in un’unica fila sul fondo dello spazio: una sorta di dietro le quinte a vista. Un dietro che avanza. La panchina, così come la fila di sedie, “margini” sui quali “sedersi” . L’atmosfera è più quella di una sala prove che quella di un debutto.

Una scena del film “Vanya sulla 42esima strada” di Louis Malle (1994)

E fa tornare alla memoria il film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, tratto da un adattamento teatrale di David Mamet. Anche per il tipo di recitazione affidata agli interpreti: più smaliziata, dai ritmi più sostenuti (a volte addirittura scevra da segni d’interpunzione), più gradevole, più attuale.

Il cast dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

A parlarcene sono anche i costumi che indossano (curati da Aurora Damanti): la scelta dei tessuti, il tipo di taglio, le scelte cromatiche. Poco nero, se non dove è indispensabile. E laddove (drammaturgicamente) consentito, alleggerito dal bianco. Contribuendo così, in sinergia al tipo di recitazione più essenziale e quasi autoironica, a rendere il confine tra riso e pianto meno netto.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Fino a riuscire a strapparci di tanto in tanto un sorriso. O una risata. Di comprensione. Di complicità. Come sarebbe piaciuto a Čechov, visto che inalterata resta l’intensità e la bellezza del testo teatrale. Sono, questi rivisti dal regista Leonardo Lidi, personaggi che rispecchiano poeticamente la nostra stessa difficoltà, variamente declinata, di stare al mondo. Soprattutto nei momenti storici di passaggio. Vivono in una, a tratti consapevole, coesistenza di disperante malinconia e irresistibile comicità. E li comprendiamo: senza giudicarli.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Oscillano: siedono sulla vita volteggiando su se stessi, anche quando sono in due a ballare. Senza avanzare davvero. Tentati dalla rassegnazione. Un desiderio, il loro, che non conosce vera intrepidità se non nei giovani, diversamente contagiati dal nuovo che sta entrando. “Silenzio, viene gente !” è il loro mantra per sfuggire a qualcosa che potrebbe invaderli: l’amore. “Come siete tutti nervosi ! E quanto amore ! “.  

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

E quando cadrà su di loro il cielo del nuovo tempo, non li toccherà. Se non anagraficamente. Invecchieranno riuscendo ancora a schivare ciò che li sta investendo. Convincendosi, come il Dottore, di continuare a batterlo loro il tempo. Ipnotizzandosi. Impreparati, ancora, a debuttare. Nella vita.

“La bohème, la bohème, 

indietro non si torna mai”

(Charles Aznavour, La bohème).

Central Park West

TEATRO 7 SETTE presso L’ORTO BOTANICO, 17 Luglio 2022

di Woody Allen

regia Antonello Avallone

con Flaminia Fegarotti, Claudio Morici, M. Angelica Duccilli, Elettra Zeppi, Antonello Avallone –

Due coppie di amici si frequentano da anni. Apparentemente tutto procede perfettamente tra loro ma non appena si insinua un sospetto che poi risulta confermato, allora tutte le parti coinvolte rivelano di essersi già da tempo accorte di qualcosa, senza aver sentito l’urgenza di andare oltre.

Perché finisce un amore ? Che cos’è davvero “l’intimità” ? Come si sopravvive a tradimenti seriali? Avviliscono o fanno scoprire insospettatamente di voler essere più “aperti” ? Queste, alcune delle domande dentro alle quali il testo di Woody Allen va a spiare, a origliare, ad annusare, ad allungare la mano, in maniera leggera o ammiccantemente profonda ma sempre con uno scoppiettante effetto esilarante.

Effetto che la compagnia teatrale diretta da Antonello Avallone dimostra di saper sostenere per tutto lo spasmodico crescendo dei colpi di scena. I dialoghi tra i personaggi sono ricchi di sottintesi e malintesi, di bugie e di contraddizioni. Ma è proprio da questo non detto incomprensibile che scaturisce la tragedia e, insieme, la risata.

In scena una living room borghese, al centro della quale troneggia un elegantemente minimalista mobile bar, sul quale occhieggia beffardo un Ennio Flaiano in giarrettiere. Per antonomasia roccaforte della socializzazione, soprattutto quella che più visibilmente stenta a decollare, il mobile bar promuove preludi a sconcertanti rivelazioni, che poi sanno di poter atterrare in morbidezza, se non altro sull’immancabile divano.

Phyllis ( una Elettra Zeppi che sa come mantenersi funambolesticamente sull’orlo di una crisi di nervi) è una psicanalista di fama, che scrive i suoi libri manipolando e sciacallando i casi clinici dei suoi pazienti (e che un po’ ricorda il Trigorin de “Il gabbiano” di A. Cechov).

Carol (la vibrante Flaminia Fegarotti) e’ ossessionata dal successo e dal carisma della sua amica Phyllis. Howard ( l’intensamente tragi-comico Antonello Avallone) è uno scrittore interessante ma non di successo, incline alla depressione e a replicare suicidi ( un po’ come il Treplev de “Il Gabbiano”). Sam è l’avvocato di successo alla ricerca di una nuova “intimità” ( il croccante fuori e morbido dentro Claudio Morici). Juliet (la dolcissima M. Angelica Duccilli) è, apparentemente, l’ Elena di Troia della situazione.

Uno spettacolo che ruba scroscianti risate, imbarazzate risatine e insospettate riflessioni.

Lo scenario “en plein air” dell’Orto botanico corona il tutto.

Tre sorelle tre

TEATRO MARCONI, 3 Agosto 2021 –

Entrano in scena, da sinistra verso destra: una spumeggiante Marylin, un’adorabile isterica Mondaini e un eternamente stupefatto Stanlio.

Così diverse nel linguaggio non verbale eppure così ricercatamente uguali e simbioticamente prossemiche: sembrano uscite da un’unica matriosca.

Tre sorelle, la cui famiglia “ha scansato loro le fatiche”, si trovano il noiosissimo ménage quotidiano invaso da una brigata di militari, “amanti così provvisori!” .

Nell’attesa di scoprire la verità sull’amore, “benedetto incantatore”, hanno eretto un altare di valigie dedicato a Mosca: la vagheggiata città dell’infanzia perduta dove, pur di tornare, sono disposte a immolarsi in qualsiasi sacrificio: “tanto si sa, il matrimonio è una catena di delusioni !” .

Non sono indenni, nondimeno, a momenti di profondo sconforto, nei quali però sanno librarsi come sibille in rituali magici, intonanti lamenti da “dies irae”. “Bisogna vivere, si sa! “.

E allora anche il saluto della banda ai militari in partenza può assumere la dolce limpidezza di un requiem allo xilofono. Ma “perchè bisogna vivere “, questo ancora non si sa. Ma a teatro lo si scoprirà.

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