Agnello di Dio

TEATRO PARIOLI, dall’11 al 15 Gennaio 2023 –

Uno spettacolo sulla vocazione a desiderare.

Sul prurito provocato da certi dubbi riguardo il “chi siamo” e  sul che “cosa desideriamo” davvero. Fuori da ogni condizionamento esterno. A cosa siamo “chiamati?”. Qual è il nostro talento? Perché tutti ne abbiamo uno: è una certezza. 

Fausto Cabra (il padre) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La vocazione ad “osservare”, ad esempio, è il talento di Daniele Mencarelli, autore di questa sua prima drammaturgia ma già da tempo scrittore di successo e vincitore, tra gli altri,  anche del Premio Strega Giovani 2020. Proprio questa vocazione lo porta a calare nella realtà quotidiana interrogativi chiave sul nostro modo di stare al mondo. In questo testo, fluidamente denso, l’autore ci porta a mettere a fuoco tematiche che, per natura, siamo portati a preferire tacere. 

Daniele Mencarelli, autore del testo dello spettacolo “Agnello di Dio” di Piero Maccarinelli

Che cosa si nasconde dietro il desiderio di un ragazzo di diciotto anni di voler mettere al rogo tutto ciò che gli è stato insegnato, così da sentirsi finalmente libero?  Ma libero da cosa?  Sia il padre, convocato con il figlio in Presidenza, sia la Rappresentante scolastica, sollecitano domande alle cui risposte poi reagiscono con disincanto. Piuttosto minimizzano. Non riescono ad entrare in empatia con il disagio del ragazzo. Come mai? Forse perché, più coinvolti di quanto lascino trasparire, gli interrogativi sollevati dal ragazzo hanno pungolato anche i loro 18 anni scegliendo però di non ascoltarli? E ora, forse, proprio questo evento porta a riaprire una ferita che ci si illudeva di aver dimenticato.

Viola Graziosi (la Preside) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La raffinata regia di Piero Maccarinelli sa valorizzare ciò che nel testo chiede luce, rispettandone le ombre. All’ingresso del pubblico, il sipario è già aperto e la scena ci si offre al buio, in tutta la sua ambiguità, bagnata solamente dalle luci di sala. Poi le posizioni s’invertono: ora noi del pubblico accettiamo di lasciarci avvolgere dalle nostre ombre così da permettere l’arrivo della luce su ciò che si lascerà svelare sulla scena. Anche le note del magnificamente scarno “Miserere” composto dal celebre Maestro Antonio di Pofi ci invitano  a partecipare, a comprendere e a perdonare.

Piero Maccarinelli: il regista dello spettacolo “Agnello di Dio”

In un ufficio particolarmente elegante e stiloso, la Preside di una prestigiosa scuola cattolica paritaria (una Viola Graziosi che sa come lasciar trapelare le contraddizioni del suo personaggio lasciando che a parlare le diverse lingue siano le mani, la voce e lo sguardo) convoca un padre yuppie ( lo interpreta in tutte le sue sfaccettature il talentuoso Fausto Cabra) accompagnato dal figlio diciottenne, allievo della scuola (un intenso Alessandro Bandini). Le tensioni dell’ incontro saranno continuamente sospese dall’entrata in campo di Suor Cristiana (una deliziosamente musicale Ola Cavagna).

Viola Graziosi (la Preside) con Ola Cavagna (Suor Cristiana) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

Lo spettacolo si chiude circolarmente con le note del “Miserere” del Maestro Antonio di Pofi, suggellando una chiusura spiazzante. Un’autentica prova di “maturità”.

Il berretto a sonagli

TEATRO QUIRINO, Dall’8 al 20 Novembre 2022 –

Perché scegliere di apparire per nascondersi, finendo per diventare invisibili e quindi annientarsi ? Ma perché così fan tutti: “pupi siamo! Pupo io, pupo lei, pupi tutti…ogni pupo vuole portato il suo rispetto non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori”. E si sa: solo se ci adeguiamo immolandoci allo sguardo degli altri, si viene accettati.

Una rara edizione del 1925 de “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello

Non è un sipario ma una “soglia”, quella tenda grigia che pare continuare fino a ricoprire tutto il proscenio. Il grigio è il colore del punto di vista: muta di significato a seconda di come lo guardiamo, proprio perché si presta ad essere un punto di sosta e di valutazione del mondo circostante. Perfetto per mandare in scena la poetica pirandelliana.

Buio: la tenda s’illumina di ombre. E noi del pubblico possiamo “spiare” cosa succede dietro questo apparente confine. Sono persone che corrono, che si affannano vorticosamente, come fantocci e poi se ne vanno: solo una donna resta ancora lì dentro. Sola. Sembra persa in un limbo tutto suo. Ma poi anche lei se ne va. “Cosa sarà successo?!?” -ci chiediamo noi del pubblico. “E poi?”.

Sono attimi in cui la curiosa morbosità di entrare e invadere la vita degli altri si fa insistente. E ci fa sollevare la tenda, questa “soglia” che per civiltà deve essere flebile e quindi oltrepassabile. Ci si rivela così un’invasione di spazi, interni ed esterni. Una subdola promiscuità: apparentemente elegante ma decadente (le scene sono di Alessandro Camera). Sulla destra notiamo un’altra tenda grigia: un’altra “soglia” e una scala che qualcuno, un fantoccio, ha usato per salire e arrivare a spiare in cima alla tenda. Da fuori, oltrepassando anche questa soglia. Ma non è il solo: altri stanno “spiando” ciò che accade in questo interno. Siamo sempre noi del pubblico che, senza la complicità della tenda frontale, per poter vedere senza essere visti ci siamo spostati dietro e di lato alla scena.

È la storia di un tradimento scoperto ma che la tradita vuole denunciare, contrariamente alle “convenzioni civili” che pretendono che chiuda gli occhi e non veda. Cosicché neanche gli altri vedano. 

La regia di Gabriele Lavia, ricca in acume, ci conduce con felpata eleganza (complice lo stesso palco drappeggiato da un’altra “soglia”) nei meandri di questa ipocrita geografia umana. Accarnandosi poi in un personaggio chiave, Lavia è anche un magnifico Ciampa, l’altro tradito che, da attento utilizzatore della “corda civile”, farà di tutto per evitare di indossare quel berretto a sonagli che “civilmente” la società fa calzare a chi ha perso la propria dignità risultando “un becco”, un cornuto.

Il disegno luci e le musiche seducentemente ossessive (sono del celebre compositore Antonio Di Pofi) enfatizzano quell’inclinazione sociale perbenista, che voluttuosamente s’infila serpeggiando in ogni fessura del privato. Sono inclini al “voyeurismo” anche i proiettori, qui diventati lampioni curiosi d’illuminare le vicende che avvengono in questo interno: uno squilibrato, ma apparentemente elegante, salotto di velluto rosso. Il canapè, avendo perso un sostegno, declina verso terra e così le poltrone, laddove non sono rovesciate.

Un macrocosmo che si riflette nel microcosmo della padrona di casa: Beatrice Fioríca, la moglie tradita del Cavaliere (una fascinosa Federica di Martino, ricca di evanescente plasticità). Anche lei, come il mobilio, subisce la forza di gravità delle apparenze civili. Con sgangherata eleganza si lascia cadere sul canapè e vi si spalma come fango. Finché un guizzo nervoso non la ridesta e repentinamente, come un felino, si rialza per reagire. Almeno finché la forza di gravità civile non la vince di nuovo.

Ad informarla della relazione extraconiugale del marito è la Saracena, l’accattivante androgina Matilde Piana, che Lavia fascia in un elegante tailleur da viaggio, capo d’abbigliamento maschile declinato sulla donna proprio in quegli anni che aprono il Novecento (i costumi sono ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume &Moda). A compensare l’effetto eversivo e “incivile” della Saracena su Beatrice, c’è Fana ( una Maribella Piana di grande potenza espressiva) la vecchia serva di Beatrice, devota custode dei vizi della società. Il segreto, dice, è quello di cucirsi la bocca e di offrirli a Dio.

Ma non basta: pur attraversata dagli alti e bassi delle sue spinte emotive, Beatrice va avanti nel suo progetto di denuncia. E né la leggerezza dei passi di danza in cui la ingloba suo fratello Fifí ( un Francesco Bonomo deliziosamente elegante nella sua superficialità); né l’esibizione del modello di “donna civile” che Ciampa porta forzatamente al cospetto di Beatrice (sua moglie Nina, una sensuale Beatrice Ceccherini, dark lady dagli occhi bassi) , riusciranno a placarla.

E il delegato Spanò (un Mario Pietramala ieratico e intrigante certificatore di ridicole verità) arriva in casa per raccogliere la denuncia. La notizia giunge anche alle orecchie della madre di Beatrice (una Giovanna Guida disperatamente compassata) ma, anziché pentirsi e fare un passo indietro, Beatrice va avanti. Finché non sarà proprio un perverso guizzo dello scrivano Ciampa a capovolgere la situazione (un maliardo Gabriele Lavia che riesce a struggere lo spettatore nonostante la subdola e paradossale precarietà decadente del personaggio) . 

Con “Il berretto a sonagli”, il più amaro dei testi di Pirandello, Gabriele Lavia realizza qualcosa di speciale: “che induce”. Perché ci si conosce, grazie al vedersi rappresentati in scena.

La prima de “Il berretto a sonagli” al Teatro Quirino di Roma


Qui l’intervista a Gabriele Lavia su “Il berretto a sonagli” e non solo.


Love’s kamikaze

TEATRO INDIA, 29 -30 ottobre 2022 –

Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli. 


“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.

Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,

Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti

di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.

Claudio Boccaccini

Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.

Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.

Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.

A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza. 

Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.

I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).

Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.

Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.

E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.


Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.