Come tu mi vuoi

TEATRO QUIRINO, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Elma ! Lucia ! Lucia ! Elma ! Elma ! Lucia !

Nomi, ossessivamente, risuonano sulla scena. Quale migliore inizio poteva immaginare il regista Luca De Fusco per affrontare questo testo così meravigliosamente ostico di Luigi Pirandello ?

Luca De Fusco, regista dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

I nomi propri, infatti, sono il miglior veicolo per affrontare il tema, così caro a Pirandello, delle molteplici identità che ci abitano. Perché pur definendosi “propri” i nostri nomi sono sempre decisi dagli altri. E soprattutto sono carichi delle “loro” aspettative. Il nostro nome proprio non è nostro, sfugge al nostro potere, alla nostra volontà. È un po’ come essere dei copioni scritti da altri.

Lucia Lavia (Elma) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

La protagonista di questo dramma, invece, un nome osa darselo autonomamente: Ignota. Più che un nome è una condizione, di cui è consapevole. Questa la sua vera identità: essere sconosciuta a se stessa e agli altri. Alcuni la chiamano Elma, altri Lucia. Da qui il senso del titolo: sono come tu mi vuoi. “Fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi ! “.

Lucia Lavia (Lucia Pieri) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

Non si sa quindi quale sia la vera identità della donna al centro della trama: è Elma, una lasciva ballerina da locali notturni, oppure Lucia Pieri, moglie borghese scomparsa nel nulla e ricercata dal marito Bruno? Intorno al dilemma ruotano i dialoghi della pièce, che approda a un amaro finale.

Lo smemorato di Collegno

Questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano, può aver tratto ispirazione da un celebre fatto di cronaca, avvenuto in Italia alla fine degli anni ’20, quattro anni prima della stesura di questo testo: il caso giudiziario dello «smemorato di Collegno», ovvero l’ambigua questione dell’identità di un uomo, ricoverato nel manicomio di Collegno, che una famiglia rivendicava con il nome di Giulio Canella e un’altra con quello di Mario Bruneri. Pirandello però negò sempre che “Come tu mi vuoi” avesse preso spunto da quel rebus: amava sottolineare provocatoriamente che piuttosto è stata la cronaca a copiare il suo precedente lavoro “Così è (se vi pare)”, che si conclude con l’iconica frase della signora Frola: «io son colei che mi si crede».

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Un tasso di innovazione drammaturgica molto elevato porta il regista Luca De Fusco a inglobare una molteplicità di contributi nel linguaggio spurio e multi-sistemico del teatro . Questa la sua cifra stilistica perché questa per lui è la forza del Teatro. È il suo un teatro alla Robert Wilson, dove confluiscono fortemente influenze cinematografiche e dove protagonista indiscussa è la luce.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

In questo spettacolo, nello specifico, De Fusco sceglie di dare una lettura dei personaggi non caricaturale ma “esistenzialista”. Complici i preziosi contributi della nota scenografa Marta Crisolini Malatesta e del maestro della luce Gigi Saccomandi. Una tale appassionata sinergia dà vita ad una messa in scena portentosa, dove un telo “vela” la quarta parete per aprirla ad uno sguardo più intimo e conturbante: quello dei pensieri e delle emozioni più inconfessabili. Spudoratamente sezionati e ossessivamente replicati sulla “retina” dei nostri occhi.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

E moltiplicati serialmente da una scenografia di specchi, che come un ipnotico ventaglio ci allontana, in realtà avvicinandoci, le molteplici identità dei protagonisti. Scorre nello spettatore il ricordo della scenografia utilizzata nel 1948 da Orson Welles per “La signora di Shanghai”, così come la trasformazione dell’Ignota defuschiana in una dark lady, alla maniera in cui Welles volle trasformare Rita Hayworth. E ancora, il messaggio intrinseco del film, così vicino a questo testo pirandelliano: squali che divorano se stessi in un cupo mondo coinvolto in inesplicabili complotti. Un universo di inganni dominato dall’ambiguità delle persone e dei sentimenti.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Il ruolo di prima attrice di questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano viene affidato dal regista De Fusco a una delle stelle nascenti del panorama attoriale italiano: la giovane Lucia Lavia. Conosciuta per l’indefessa determinazione e per l’appassionato impegno, Lucia Lavia dimostra di continuare ad affinare le proprie capacità artistiche e la sua intelligenza teatrale, spaziando tra codici recitativi e drammaturgici differenti. La sua interpretazione risulta profondamente intensa: graffiante e insospettabilmente tenera; erotica e struggentemente malinconica. Una Femme fatale venata dalla tragicità di un Pierrot. La sua capacità di restituire una ricchezza di sfumature così umanamente eccessive, emoziona e commuove.

Lucia Lavia

Suoi affiatati compagni di scena si rivelano Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.

Leggi l’intervista rilasciata al Corriere della Sera

Leggi l’intervista rilasciata a Repubblica

Il filo di mezzogiorno

TEATRO ARGENTINA, dal 26 Maggio al 5 Giugno 2022 –

Come si sopravvive ad una caduta? Si può “discernere nel cadere”?

Vibrante e pura, Donatella Finocchiaro veste i panni di una Goliarda Sapienza passionale e onirica, vestita da notte e di notte. Sbuca di nascosto da una quinta, ci viene a cercare, ci prende per mano e come in una ripresa in soggettiva ci apre il teatro della sua mente: allucinato e insieme crudelmente lucido. Così, spudoratamente: come le regole della buona dizione esigono di fare, per pronunciare correttamente quelle maledette “e” aperte. Che ti scardinano la mascella. E non solo.

Con il desiderio impellente di raggomitolarsi vicino a noi della platea, come era solita fare con la madre, nel letto. Lei, però, senza guardarla. E ci avverte che la conditio sine qua non per sopravvivere lì, nel suo teatro mentale, è accettare il caos, dove tutto vive e coesiste nello stesso luogo. Dove i vivi e i morti stanno insieme. Adattando la vista alla foschia che avvolge tutto. Nel disperato tentativo di riallacciarsi alle proprie radici, che l’avviluppano ma insieme la sostengono; che l’aggrovigliano ma anche la nutrono. Ma soprattutto affermando e confermando la propria estraneità ad ogni pregiudizio morale. 

Al termine di questo notturno prologo, Iuzza (vezzeggiativo usato dalla famiglia al posto di Goliarda) entra nel sipario e ci conduce nella stanza della sua casa, dove l’analista (un fragile e immenso Roberto De Francesco) si reca tutti i giorni all’ora di mezzogiorno. Lui, quello che si ostina a chiamarla “Signora” e che ha cercato di organizzare il suo caos dentro categorie assolute, cercando di imporle la sua personale verità. Scoprendo poi nel corso del setting di essere anche lui, però, un paziente bisognoso.

Da qui l’idea registica di Mario Martone, resa con efficacia scenografica da Carmine Guarino, di immaginare uno stanza “a specchio”: rendendo così anche scenograficamente una particolare dinamica relazionale tra paziente e terapeuta (e più in generale umana). Avendo difficoltà a vedere le nostre ombre e persino le nostre virtù, la vita ci regala relazioni. L’altra persona ci fa da specchio, riflettendo la nostra immagine e dandoci la possibilità di ritrovare noi stessi. Da questo meccanismo non è immune neanche il terapeuta.

Come nella vicenda di Goliarda Sapienza, i problemi personali del terapeuta spesso approdano nel suo studio, vestiti dei panni dei propri pazienti. Condizione umanissima, che il regista sceglie di sottolineare senza giudicare, riconoscendogli tutta la dignità che merita. Non a caso, infatti, attraverso l’elegante adattamento di Ippolita di Majo, il registra Mario Martone costruisce una narrazione nella quale ripercorre la terapia con Ignazio Majore, rinomato freudiano dell’epoca, ma lo fa mettendo in scena uno sguardo che, grazie alla sovrapposizione della scrittura di Goliarda Sapienza, va via via rischiarandosi e insieme infoscandosi.

E lo specchio s’infrange: ne sentiamo il rumore; ne vediamo gli effetti. Perché così è la vita: coerenza-repellente. Martone, sulla scia del più profondo sentire della Sapienza, fa di questo spettacolo un inno all’incoerenza, così indissolubilmente legata alla natura umana. La sua è una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi (che a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”).

Terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: uno problematizza l’altro, uno analizza l’altro. Da questa esperienza selvaggia, Goliarda Sapienza raccoglie i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Citto Maselli, il compagno che l’aveva indirizzata nelle mani di Majore, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere.

Ferita ma furiosamente viva, intuisce che ora la sua terapia funzionale e salvifica, è la scrittura. Capace di restituirle una libertà, che non esclude le trappole dell’umano, dolorosamente necessarie. Così, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee ma soprattutto del diritto alla morte. E così, scendendo in platea, per farsi prossemicamente più vicina a noi, ci invita a “pensare”, prima ancora di “dirlo” (cioè di ridurlo nelle convenzioni del linguaggio) che muore solo chi ha vissuto.