Heroides vs Metamorphosys

TEATRO VASCELLO, dal 28 Gennaio al 6 Febbraio 2022 –


“Sperimentare” è la parola chiave di questo spettacolo, al centro del quale palpita il tema dell’amore. L’amore come esperienza, come prova vivida, che prende ogni volta nuove forme. Con la raccolta le Heroides, o Epistulae Heroidum (tradotto: Le Lettere delle eroine) Publio Ovidio Nasone sperimenta un nuovo genere letterario: una raccolta di lettere erotiche, che si immaginano inviate da alcune eroine del mito ai rispettivi amanti. Per la prima volta, femminile è il punto di vista su alcuni episodi del mito. Di conseguenza il linguaggio non è epico-eroico (maschile) ma passionale, affettivo, emotivo, umano (femminile). Ovidio esplora dunque la psiche di queste 18 donne e analizza i riverberi emozionali della lontananza dall’amato, che di volta in volta assume la forma dell’abbandono, della fuga e del tradimento.

Lo spettacolo prende avvio dalla rappresentazione del caos cosmologico come metafora del caos emotivo, in cui si macerano le donne che scrivono queste lettere e che trovano proprio nella scrittura un qualche sollievo per riaversi dal trauma dell’abbandono. Veniamo coinvolti in una scena totalmente buia finché non interviene un dio (la musica) a separare il buio dalla luce e a districare i contrasti che convivono all’interno del caos.

Manuela Kustermann

Prende forma uditiva poi, la formula magica di Ipsipile, finalizzata a separare l’amore tra Giasone e Medea. E quest’ultima entra in scena con il capo e le mani di nero velati, nuda ai piedi. Un coro suadente e tentatore, introduce la lettera successiva, quella di Penelope ad Ulisse, dove la donna fedelmente innamorata si fonde, percorre e si lascia percorrere da quella tela, testimone della sua attesa che non conosce cedimenti. Diversamente da Canace, esplorata magistralmente nelle sue dilanianti contraddizioni. È la volta poi della lettera di Arianna, crudelmente piantata in asso da Teseo.

Manuela Kustermann

Un’inquietantemente sacra Manuela Kustermann strega portando lo spettatore nell’insolita esplorazione dell’animo di queste donne, che non hanno avuto paura di amare.

Il clima di ogni lettera è introdotto e suggellato da una narrazione musicale “metamorfica”, trasformativa, inclusiva di sapienti influenze e slanci, che partendo dal repertorio classico esplorano la contemporaneità. E ancora oltre. Merito della ricerca in continua evoluzione della pianista Cinzia Merlin.

Uno spettacolo che traduce e tradisce, senza mai esagerare, quasi come in una naturale metamorfosi, il testo originale. Attualizzandolo.

Una regia costruita sulla luce: lame, fuoco, percorsi, ombre verticali. Di particolare suggestione creativa le scelte adottate per caratterizzare la narrazione emotiva delle lettere di Penelope e di Canace.

Le ventuno lettere raccolte nelle Heroides di Ovidio, si arricchiscono di un carteggio professionale inedito: quello tra due donne oniricamente complici e creativamente messaggere di emozioni drammaticamente umane.

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Uno, nessuno, centomila

Teatro Quirino dal 25 al 30 gennaio 2022 –

ABC Produzioni e ATA Carlentini
-presentano-

PIPPO PATTAVINA e MARIANELLA BARGILLI
Uno, nessuno e centomila

di Luigi Pirandello
-con-
-ROSARIO MINARDI-
-MARIO OPINATO-
-GIANPAOLO ROMANIA-
-Musiche originali Mario Incudine-
-Scene Salvo Manciagli-
-Regia ANTONELLO CAPODICI-

Il soffio nostalgico e vagabondo di un motivo alla fisarmonica anticipa l’apertura del sipario: preludio all’amara analisi pirandelliana sul soffio vitale umano. Ci si rivela poi una scena marmorea, grigia: il colore della tristezza, della compresenza di bene e di male. Ci arriva la sensazione di un ambiente che sa un po’ di tribunale, un po’ di obitorio e un po’ di giudizio universale: luoghi nei quali si crede di poter stabilire l’esatta identità delle persone.

La scena è abitata da un uomo, seduto di spalle, rivestito di una camicia bianca (che rimanda al Rinascimento e insieme ad un ospizio-manicomio) e da un giudice in doppiopetto scuro, in piedi su di un piccolo podio. Qualcosa di verde spicca: è una coperta, che l’uomo in bianco, nel voltarsi, notiamo tenere sopra le proprie gambe. Colore dominante nel mondo naturale, il verde ci circonda ed è il segno di via libera per procedere e andare avanti (non a caso, l’occhio umano ha il picco di massima sensibilità proprio per le frequenze relative alla luce verde).

Scopriamo che, tra “giudice” ed “imputato”, c’è un rapporto più morbido, più accogliente, quasi confidenziale rispetto al solito rapporto distaccato ed inquisitorio che intercorre tra i due. Imbastiscono, partendo dalla fine, un racconto di ciò che ha preceduto questo “consuntivo” finale e ci introducono al flash-back narrativo seguente.

Pippo Pattavina

Perché nei luoghi della follia, in paradiso così come all’inferno, si va in due (vedi Dante e Virgilio, vedi gli amanti): è necessario che ci sia qualcuno di cui abbiamo fiducia, che ci attivi la nostra parte folle e che poi ci sappia tirar fuori, verso la razionalità, qualora indugiassimo troppo a lungo, per un tempo non sostenibile ad un essere umano. La relazione, il due, viene prima dell’individuo, della singolarità: non a caso l’identità ce la dà l’altro, gli altri.

Marianella Bargilli

E proprio da qui prende l’avvio il racconto: da quando la moglie di Vitaliano Moscarda (un profondo e brillante Pippo Pattavina) fa notare al marito di avere il naso storto, pendente da un lato: una bella “svirgolata”.

Cosa di cui mai si era accorto. Da questo momento inizia per lui un percorso di progressiva scomposizione per specchi della propria unità identitaria, per anni scrupolosamente composta. Ma in realtà, come appassionatamente dice Moscarda, “noi siamo tempesta, fiumana”: follia.

E come era solito dire il Platone del Fedro e poi del Simposio, i beni più grandi ci provengono proprio dalla follia. E a dircelo è proprio lui: colui che ha fondato il modo di pensare razionale, introducendo il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. Questi due principi, utilissimi per intenderci tra tutti (come dice Mortara, che cosa è la verità se non un’opinione più condivisa delle altre) non ci introducono però alla “verità” ma si limitano a mettere un confine e quindi a de-terminare la verità. Insomma, danno compostezza al caos nel quale siamo immersi. Ma dalla razionalità non “si crea” nulla: occorre contaminarsi con la follia e poi riemergere da essa per dare vita a qualcosa di creativo.

E questo scopriremo dal momento in cui le grigie pareti marmoree, scorrendo, ci introdurranno prima nell’atelier rosso dannunziano della moglie di Vitaliano Mortara (una sensuale ed ammaliante Marianella Bargilli, quasi una Valentina di Crepax); poi lungo le vie della città dove Mortara cercherà e troverà uomini simili a lui, composti ma in realtà scomponibilissimi. E ancora, a seguire saremo portati nell’ufficio dell’apparentemente compostissima azienda di famiglia, sulla scrivania della quale troneggia però un mezzo busto dell’insospettatamente scomposto Giulio Cesare.

Marianella Bargilli

Infine nelle stanze dell’amica-amante di Mortara (una dolce e maliziosamente scapigliata Eva Kant (sempre interpretata da Marianella Bargilli).

Elegantissimamente efficace la scenografia: declinata sulla mutevolezza dell’identità umana.

Particolarmente curati i cambi di scena “a vista” che, grazie ad una maestria dell’uso del controluce, risultano quasi dei compassati movimenti di un carillon. 

Per tutto lo spettacolo, quella coperta verde non lascia mai la scena: se non è in mano a Mortara, è comunque appoggiata ad una (quella di sinistra) delle due piccole sedie ai lati del proscenio, dove è solito spostarsi, quasi da un emisfero all’altro della mente, il protagonista.

Quel verde, simbolo della vita che non conclude; “dell’albero respiro tremulo di foglie nuove. Tutto fuori, vagabondo”.

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Recensione dello spettacolo MIRACOLI METROPOLITANI di Gabriele Di Luca

TEATRO VASCELLO, 11-23 Gennaio 2022 –

Lampeggia una luce rossa. Quale sarà il pericolo? Il luogo inizia a popolarsi di un’umanità egoista ed ipocrita, sciacallamente intenta ai propri interessi (e il pensiero va a “The Kitchen” di Arnold Wesker). Abbiamo perso un sogno, il gusto di parlarci, la voglia di aiutarci? Ha perso la comunità?

Regna il caos: i liquami delle fogne di un’ipotetica città hanno rotto gli argini e invadono ogni luogo. Soprattutto a livello olfattivo. Tutto è maleodorante. La soluzione è chiudersi in casa, ognuno nella propria casa, pensando di poter arginare così, singolarmente, il problema.

In scena una fantomatica cucina, con sede in uno squallido scantinato: “prepara” pasti precotti (acquistati in Cina) per celiaci, da consegnare a domicilio. E apparentemente si sta arricchendo. Più che una cucina, ci si rivela una fucina: un luogo infernale dove manca la cura nel preparare il cibo, primo veicolo di amore, ma soprattutto dove si forgia la filosofia del massimo risultato con il minimo sforzo.

A discapito apparentemente solo degli altri. Una fucina d’inganni, di forze sotterranee. Ma, e questo magari è il messaggio finale dello spettacolo, ci si può ancora inventare una vita ricca d’intensità emozionale, nonostante la nostra natura da Sisifo: proprio perché consapevoli dei nostri limiti e proprio per questo possibili artefici del nostro destino.

Un’esistenza dove si può vivere grazie a guizzi d’amore. Quelli che a volte non riusciamo a trovare: come è successo a Plinio, il personaggio che ha progressivamente smesso di nutrire la sua insaziabile curiosità da chef stellato, schiacciato dal macigno che ci ostiniamo esclusivamente a caricare sulle spalle. Senza pensare che a volte anche Sisifo può distogliere lo sguardo, come Perseo con Medusa. E trovare così la forza di alleggerirsi creativamente. E soffrire, creativamente. Perché spesso la nostra paura a qualcuno conviene.

Perché non è la sottomissione houellebecchiana la nostra unica possibilità di sopravvivere: quella espressa dal mantra del personaggio Mosquito “a chi devo succhiare il cazzo oggi per avere un panino?”. Né esiste solo il muto e consapevole urlo munchiano di Clara, lavapiatti assurta a manager del business delle ostie per celiaci. C’è anche la possibilità di stare al mondo proposta da quel Platone (del “Simposio”) che Cesare, l’oratore aspirante suicida, presenta a Igor, il figlio adulto di Clara a cui va ricordato ogni giorno di cambiarsi le mutande e di lavarsi i piedi: quella di stare insieme, con amore. Perché solo l’amore ci può salvare: non la singolarità ma il “due”, la relazione. Qualcosa di diverso dalle “storie” su Instagram nelle quali Clara non manca di condividere incidenti e funerali, oppure proporre scommesse sugli altrui conflitti. Piuttosto un amore che nasce e si alimenta di “mancanze”. Ma solo quando ami, non temi più la vita. Perché anche l’assenza dell’altro diventa una cosa che sta con te. E’ così che può nascere un miracolo. Molto umano e un pò divino. Un miracolo metropolitano.

Gli attori sanno rendere leggerissimamente la loro (e nostra) pesantezza esistenziale. E si librano, ognuno a proprio modo, dentro questa cucina-vita che pare pretendere solo ritmi ossessivamente frenetici e ipocriti egoismi. E riescono a farci ridere: amaramente e di gusto. Forse perché anche noi, come Mosquito, non crediamo (solo) in Dio ma in Shakespeare. 

La compagnia dimostra una straordinaria capacità di leggere il nostro tempo, nel quale regna la tentazione di disinteressarsi a lottare, tutti insieme, mano nella mano, per un mondo migliore. Ma non tutto è perduto.

Un brivido, ormai quasi dimenticato, quello poi di assistere ad uno spettacolo in un teatro totalmente pieno. Di persone di ogni età. Un altro miracolo metropolitano.


Uno spettacolo di
CARROZZERIA ORFEO

Drammaturgia Gabriele Di Luca
Regia Gabriele Di LucaMassimiliano SettiAlessandro Tedeschi

Con (in o.a.)
Elsa Bossi Patty
Ambra Chiarello Hope
Federico Gatti Igor
Barbara Moselli Clara
Massimiliano Setti Cesare
Federico Vanni Plinio
Federico Brugnone Mosquito/Mohamed

Si ringrazia Barbara Ronchi per la voce della moglie.

Musiche originali Massimiliano Setti
Scenografia e luci Lucio Diana
Costumi Stefania Cempini

Una coproduzione
Marche TeatroTeatro dell’ElfoTeatro Nazionale di GenovaFondazione Teatro di Napoli -Teatro Bellini

in collaborazione con il Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale”


Recensione di Sonia Remoli

La pianista perfetta

TEATRO VITTORIA, dal 18 al 23 Gennaio 2022 –

Sulla scena quasi buia, protagonista è un pianoforte. Arriva da lontano, una voce fuori scena. Ora è vicina: alle spalle del pubblico si affretta a salire sul palco l’impaziente ed anticonformista pianista Clara Schumann (l’intensa Guenda Goria). È accompagnata da un deliziosamente meravigliato giovane falegname del teatro (il ricco in grazia Lorenzo Manfridi).

Iniziamo a capire che siamo a poche ore dall’inizio di un concerto della pianista ma ovunque sul palco regna il caos: a terra nessuno ha tolto i coriandoli dello spettacolo precedente; manca la chiave per aprire il camerino; nessuno ha provveduto ad accendere le luci in sala. Insomma manca un “accordatore”, non solo del pianoforte.

Di fronte a questo disordine che amplifica e fa risuonare il suo disordine interiore, la pianista si apre ad uno torrenziale sfogo verbale polimorfico. Nell’esprimersi si rivolge a momenti a se stessa, in altri al giovane falegname ma soprattutto al suo adorato marito : “Lasciati pensare, Robert !”. E lo rimprovera per averla “costretta a stare bene a tutti i costi”, tenendola cioè lontana da lui.

“Potrei uccidervi” – lui le ripeteva, proteggendola così dalla visione di ciò che ora è diventato: un uomo che ‘”frequenta gli spiriti” e non si ricorda di quanti figli ha. “Ma non ricordare non equivale a non sapere”, si affretta a precisare . Un uomo che dice “Ciao, esco!” e che poi va a buttarsi nel fiume. Ora, anche lui è in una specie di teatro dove, da dietro una tenda-sipario, gli altri possono spiarlo. Ma lei no, lei non può. Lei aspetta che lui da un momento all’altro esiga che lei vada da lui.

Nell’attesa, si siede al pianoforte e suona. E, tra consonanze e dissonanze, riescono a raggiungersi. E il pubblico con loro. L’importante, torna a ribadire la pianista al giovane falegname, è non scappare dalle occasioni: non fare “il pescatore”, colui cioè che getta la lenza e poi aspetta.

Nello spettacolo l’accorata recitazione (accompagnata da un attento gioco di chiaro-scuri del disegno luci) è punteggiata da momenti di appassionate esecuzioni pianistiche; come se la musicalità delle parole trovasse un naturale proseguimento nella musicalità delle note. Quasi un unico discorso, declinato in variazioni sul tema della sublimità dell’amore. 

La Goria, che per tutto lo spettacolo riesce ad arginare una prorompente crisi di nervi, ci ha regalato in chiusura (complice il caloroso applauso del pubblico) un inaspettato scioglimento delle catene della sua tensione. E con lacrime non più trattenute, ha ringraziato il pubblico presente in sala, numeroso ed attento. “Eroi”, lei ci ha definito, in considerazione dell’ancora castrante situazione sanitaria.

E ci ha omaggiato con un brano di Ezio Bosso sulla musica libera. Perché come lui era solito dire, riusciamo ad essere liberi quando la musica entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. Una serata terapeutica. Perché il teatro sa essere anche questo.

Ascolta l’intervista a Guenda Goria

Driving

TEATROSOPHIA, 15 Gennaio ore 21:00 – 16 Gennaio ore 18:00 –

Una spessa nebbia avvolge il palco fino ad invadere le prime file della sala. Si intravede sulla scena il frontale di una city car e subito dietro un uomo. Di spalle, che voltandosi rivela una chitarra a tracolla. Si siede. Dall’entrata di sinistra della sala sbuca un altro uomo, affondato in un giaccone color fango. Si muove freneticamente ma si percepisce che uno stato di smarrimento lo appesantisce: una densa nebbia mentale.

Sta partendo per un viaggio: da Milano a Roma. Ma perché? La domanda dello spettatore rimane per il momento avvolta nella nebbia. L’attore (Fabio Mascaro) ci dice solo che deve imporsi di non pensare al perché sta partendo e fa sì che un fitto banco di nebbia cali sulla sua mente e sul suo cuore.

Scopriamo che ha due compagni di viaggio: Riccardo, uno snodabile Big Jim, che emerge per metà da una piccola botola del cruscotto, quasi un personaggio beckettiano e poi una donna conturbante: la Musica (Alessio Pinto). Che inizia a provocarlo, sussurrandogli ossessivamente: “Non puoi andare avanti pensando che niente vada male”.

Alessio Pinto e Fabio Mascaro

Ed ecco che il banco di nebbia a cui si era impegnato a dare forma, inizia a perdere densità. Perché la nebbia è anche il modo in cui le cose si rivelano. Una delle questioni fondamentali che la nebbia pone alla percezione non è tanto “dove sono?” ma soprattutto “dove sono gli altri?”. E ancora: “cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono?”. La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere, quando tutto sembra completamente visibile.

E così succede a Franco, il protagonista, che inizia a dare visibilità e valore alle preoccupazioni di cui è oggetto, ai gesti di cura da cui è avvolto, a chi lo sa guardare negli occhi, come Teresa sua moglie. Cose che rischia di perdere perché fagocitato da false realtà che lo hanno indotto a demonizzare il “vacillare”, lo “sfocato”, finendo però per morire di noia nella stabilità. E’ ancora la musica a solleticarlo: “Te ne sei accorto sì , che tutto questo rischio calcolato, toglie il sapore pure al cioccolato. E non ti basta più”. 

E poi ci sono le fiamme di fuoco: quelle che gli uomini, figli e padri, provano guardando i corpi delle donne. Ma anche aspettando un abbraccio che non arriva mai, perché non si è insegnato a dargli luce, valore, importanza. E allora ci si accontenta di illuminare agli sfioramenti, che inavvertitamente colorano la distanza dell’essere “istituzionali”. E la musica sempre provocante: “Come posso tentare di spiegarmi, se lui ancora una volta distoglie l’attenzione. È sempre la stessa vecchia storia: dal momento in cui potevo parlare, mi fu ordinato di ascoltare. Ora c’è una strada e so che devo andarmene”.

Alessio Pinto e Fabio Mascaro

E magari, ora, l’albero maestro del veliero può essere colorato anche di giallo. Perché le mancanze, i vuoti, sembrano essere immersi in una cappa di nebbia ma la nebbia poi se ne va, quando si è scoperto un nuovo modo di vedere le cose.

Siamo tutti smarriti e perplessi, con incerte identità personali. Ci siamo persi nella nebbia. Ma è solo perdendoci che potremo ritrovarci. Solo in questo modo possiamo forse sperare di capire il mondo: guidando (alla volta di noi stessi). Un viaggio che, almeno per un’ora, lo spettatore fa, insieme a Franco, a Riccardo e alla Musica.

Sulle vie dell’Inferno

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, Sala Petrassi, 6 Gennaio 2022 –


In occasione dei festeggiamenti per il passaggio dal vecchio al nuovo anno, l’Auditorium Parco della Musica porta in scena l’arte del Maestro Mimmo Cuticchio: il più importante esponente contemporaneo della tradizione dei pupari e dei cuntisti siciliani.

(Leggi l’articolo del Corriere della Sera)

Questo straordinario cuntastorie presenta il suo nuovo lavoro tratto dalla Prima Cantica dell’Inferno di Dante. Perché le miserie e le sofferenze umane cantate da Dante sono più che mai attuali oggi.

E come spesso gli accade, uno dei suoi pupi si propone per un racconto diverso e insieme uguale: questa volta della Divina Commedia.

A rendersi  intraprendente è il pupo Ariodante, un personaggio dell’Ariosto, un cavaliere d’amore  che Cuticchio immagina, di notte,  allontanarsi dal gruppo dei suoi pupi per il desiderio di vestire i panni di Dante. E ripercorrere, insieme a Virgilio, i luoghi dell’Inferno dantesco, raccontati nella sua lingua. 

Un viaggio che per l’occasione passa attraverso i luoghi più caratteristici delle nove province siciliane:  la Passeggiata di Goethe sul Monte Pellegrino a Palermo; la Torre di Messina sala quale si svelano Scilla e Cariddi; la Necropoli di Pantalica a Siracusa; le Terme libere di Segesta a Trapani; il grande Ilice secolare sull’Etna in provincia di Catania; la Miniera di Sommarono a Caltanissetta; la Cava di Ispica a Ragusa; l’Isola di Linosa in provincia di Agrigento e la Rocca di Cerere a Enna. In questi luoghi speciali sono state ambientate le scene del viaggio, oltre al boccascena del Teatrino dei Pupi del Maestro Cuticchio.

Grazie poi ad un particolare lavoro di postproduzione lo spettatore vede i pupi muoversi autonomamente, senza l’aiuto di manianti e combattenti. Lo spettacolo mette in scena la sinergia di tre situazioni: sul grande schermo i pupi, ripresi dallo sguardo di Antonio Ciprì che è riuscito ad esaltare con un sapiente uso delle luci e delle ombre, la bellezza dei pupi e insieme a coordinarli alle riprese esterne (girate da Chiara Andrich e da Andrea Mura).

Di fronte al grande schermo Mimmo Cuticchio trova un modo tutto suo di narrare le storie, le pene e la disperazione dei personaggi di questo tratto del viaggio dantesco. Nel racconto il Maestro si coordina con l’attore Alfonso Veneroso, capace di restituire la ricchezza dell’esatta narrazione della Cantica. Il tutto accompagnato dalle musiche scritte appositamente dal figlio del Maestro, Giacomo, ed eseguite dal vivo da sei musicisti.

Ideazione scenica e regia : Mimmo Cuticchio – Cunto: Mimmo Cuticchio – Aiuto regia: Chiara Andrich

Versi di Dante: Alfonso Veneroso – Direttore della fotografia: Daniele Ciprì

Musica originale: Giacomo Cuticchio

Marco Badami: violino / Paolo Pellegrino: violoncello/ Nicola Mogavero: sassofoni

Fabio Piro: trombone/Giusy Cascio: sintetizzatore

Giacomo Cuticchio: vocalist, sintetizzatore e live electronics

Luci: Marcello D’Agostino – Organizzazione: Elisa Puleo

Guarda il video su RaiPlay

La musica è pericolosa

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, 31 Dicembre 2021, ore 22:00 –

Ultimo dei quattro concerti in programma a dicembre all’Auditorim Parco della Musica, deve il suo titolo a un’espressione che Fellini era solito ripetere a se stesso. Gli capitava infatti di commuoversi profondamente, anche solo ascoltando due semplici accordi. E si dilaniava al pensiero che una lingua che non usa parole riuscisse comunque a strangolarlo di emozione. Per difendersi da questa estrema fragilità tutta umana, Fellini era tentato di ascoltare musica solo durante le sedute di lavoro.

Il lavoro costituiva un efficace antidoto alla commozione totale nella quale la musica riusciva a trascinarlo. Un po’ come Ulisse che si fece legare all’albero della nave per riuscire a “non naufragare” ascoltando il canto delle Sirene. “Ma la musica è un pericolo che vale la pena correre”, concludeva: perdersi, equivale ad assaporare i frammenti di divino che ci abitano. E in effetti, la musica è un incontro che ci turba e ci cambia, come avviene per gli innamoramenti. E alla fine non siamo più gli stessi.

Evidentissima l’insaziabile fame di un contatto diretto con il pubblico del Maestro Nicola Piovani: nel corso del concerto-spettacolo si apre ad una particolare abilità narrativa nel creare atmosfere così vivide ed accoglienti da inglobare con naturalezza in esse anche il pubblico. La musica in realtà è il pretesto per parlare della vita, nella quale ci avventuriamo a stare musicalmente al mondo.  


Lo spettacolo è un viaggio musicale tra i vari percorsi artistici del compositore e pianista romano, che alterna l’esecuzione di brani teatralmente inediti a nuove versioni di brani più noti, riarrangiati per l’occasione. E la musica arriva laddove la parola non può arrivare: “Nell’amor le parole non contano. Conta la musica”.

Ma musica è anche l’arte dell’ascolto, dell’accompagnare senza sovrastare, dello stare indietro per indovinare il ritmo dell’altro. Come quando, le mani sul pianoforte e gli occhi sulle labbra di Mastroianni che canta “Caminito”, Piovani cerca di prevedere il ritmo delle sue parole.

E poi la provocatoria scelta della marcetta per salutare il Nuovo Anno. Piuttosto che la consueta marcia di Radetzky (uomo che godeva nel “cercare incidenti”) la scelta questa volta è volutamente caduta sulla marcia della Banda del Pinzimonio (creata per Roberto Benigni).

Leggi il comunicato ANSA

Sottobanco

ROMA, TEATRO MARCONI – 30 e 31 Dicembre 2021 /6, 7, 8, 9 Gennaio 2022

OSTIA, TEATRO NINO MANFREDI, Dal 18 al 30 Gennaio 2022

ROMA, TEATRO ROMA, Dal 5 al 13 Febbraio 2022 –

Impazientemente, una giovane donna attende l’apertura di una porta (sipario).  Ci si rivela uno spazio scenico abitato da una commistione di elementi, accomunati dalla potenziale capacità di educare a valorizzare il disequilibrio, come momento indispensabile al raggiungimento di un equilibrio. Da perdere e ritrovare continuamente.

Tra tutti gli elementi scenici,  a catturare l’attenzione è il fondale, attrezzato con un “continuum” di spalliere ginniche, che un estroso uso della luce, fa sembrare altro. Ad esempio, anche una tenda veneziana: aperta da spiragli di luce e di ombre, che lasciano presagire una malinconica ed inquietante freddezza emotiva, tipica di chi finge di vivere curandosi di avere sempre le spalle coperte. Atteggiamento che si conclamerà nel secondo atto, con il consumato giudizio universale degli scrutini.


Dal soffitto scendono degli anelli ginnici, mentre a terra, in proscenio, troneggia, libera anche di essere insolitamente calciata, una palla da basket.  Un nero pallone da calcio,  invece, resta fissamente intrappolato in alto, tra le assi di una delle spalliere. Quasi a simboleggiare atteggiamenti intrepidi, in un caso, e  mortalmente protettivi, nell’altro. Questo spazio scenico, dedicato all’educazione fisica, viene contaminato da cattedre, sedie e schedari: luoghi comuni di un’educazione della mente e dello spirito.

La giovane donna che, una volta entrata, continua ad agitarsi turbata e disorientata,  intuiamo essere una prof: la prof. Baccalauro. Un misto di ordinata e sapiente scompostezza, come lo stesso cognome suggerisce. Così come i suoi piedi: una donna che fatica ad avanzare e tiene un piede orientato verso il futuro e l’altro a chiudere parzialmente questa apertura. Ma, nonostante tutto, va e comunque si apre ad affrontare la lotta insita in ogni dialogo (forse non a caso indossa delle Converse). E nei momenti più critici, infila in bocca una matita come si farebbe con un coltello: tra i denti. Denti che però usa anche per sabotarsi le unghie, preziosi artigli con i quali lottare. Indossa un piccolo scaldacuore bianco, che subito toglie: quasi delle ali, di cui non riesce a tollerare l’insostenibile leggerezza.

A raggiungerla è il cheguevariano prof di Lettere Cozzolino, che entra in scena con il suo elmo bianco ed un mantello verde. Armatura che, una volta entrato apparentemente depone, pronto a combattere  ammuffiti pregiudizi e a valorizzare nuove e ariose modalità di espressione. Magari anche un po’ sbagliate ma proprio per questo creative. Come quella di Cardini, un alunno che affronta la sua trasformazione adolescenziale nei panni di una mosca. E domandandosi chi, in paradiso, lucida l’aureola ai santi. O come quella di Katia Sbilenchi che, spaventata dai dubbi della crescita, cerca sostegno nelle braccia sbagliate. O come Germani Ursula che, come una barbara,  ama sfidare il pericolo ad alta velocita’.

A mano a mano lo spazio si popolerà di professori, che non faranno che ammonire i due, impavidamente maldestri colleghi, a fare attenzione, ad usare prudenza, a non esporsi troppo. Per non perdere quell’equilibrio che solo un arido rispetto delle regole sembra regalare. Aridità che pensano di colmare bevendo succhi di frutta, comodamente confezionati ma troppo caldi.  Dai quali però continuano a dipendere, nell’illusione di “raccogliere punti fedeltà”. Perché è preferibile schierarsi in nome di falsi legami che accomunano, piuttosto che essere additati per il provocatorio coraggio di togliersi le proprie scarpe per entrare in quelle di un altro. 

Uno spettacolo che, solleticando continue risate, invita a mettersi in gioco. Il miglior augurio per chiudere un anno e aprirsi al futuro. Perché uno spettacolo deve saper entrare come un liquido nelle fessure e prendere la forma di ciò che manca. Facendoci ridere e piangere; pensare e sognare. 

Abolite gli armadi, gli amanti non esistono più

TEATRO OFF/OFF, dal 21 Dicembre 2021 al 6 Gennaio 2022 –

La suadente e malinconica voce di Claudia Mori in ”Buonasera dottore”, apre la scena e introduce l’entrata di Pino Strabioli. Alla maniera di un conferenziere, il regista ci guida attraverso lo spettacolo, un po’ come accadeva nel teatro di rivista, dove un sottile filo conduttore offre il pretesto per una serie di quadri comici, ispirati al sempre attuale tema degli “amanti”.

Ma davvero abbiamo abolito gli armadi, come sembrerebbe suggerirci provocatoriamente il testo di Maurizio Costanzo? O hanno solo cambiato design, sostituendo gli sportelli in legno con vetri più o meno oscurati? Nel corso dello spettacolo è questa la domanda che ci viene suggerita. Soprattutto scenograficamente. Si parte allora dall’art. 559 del Codice Civile (che prevedeva la pena di reclusione per gli amanti, in diversa misura se uomo o donna) per passare alla metafora delle “corna” come simbolo di fertilità e di buon auspicio. Fino ad affrontare il Nono Comandamento e l’affermazione del Vangelo di Matteo: “chi guarda, ha già commesso adulterio”. E poi ,ancora, passando per il Decamerone di Boccaccio, il Barbiere di Siviglia, l’era fascista, le lettere censurate di Matilde Serao e ancora altro. Il tutto punteggiato da brani di Jannacci, Camerini e De Andrè. “La fedeltà in fondo che cos’è? Non è altro che un grosso prurito con il divieto assoluto di grattarsi’.

Complimenti ai cinque attori, che riescono bene nell’intento di accompagnare e illustrare la narrazione di Strabioli. Ma poi succede sempre qualcosa di diverso. E infatti, poco prima della fine dello spettacolo, una coppia con una ragazza si alza per abbandonare la platea, denunciando il fatto che lo spettacolo non è adatto ad una quindicenne. Tanta la naturalezza del relatore e degli attori nel gestire la sorpresa e l’imbarazzo della situazione, da non riuscire a capire se l’accaduto sia un colpo di scena reale o costruito. Ma forse non è importante definirlo, tanto l’episodio si è perfettamente inserito nel contesto.

Leggi il comunicato Adnkronos

LA FOTO DEL CARABINIERE -La storia di Salvo D’Acquisto e di mio padre -scritto, diretto e interpretato da Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 10 Ottobre 2021

Si può parlare della bellezza? Dicono di no. Perché la bellezza sfugge, non si lascia concettualizzare. E ci punge. A volte ci trafigge. E ci incanta, sempre. Partecipando alla rappresentazione di questo spettacolo, i sensi vengono continuamente solleticati da istanti di pura bellezza. Proverò a parlarne, sfidando il rischio di tradirla: perché la bellezza ci vuole indifesi, solo spettatori. Solo così può entrare e farsi strada: meravigliandoci, incantandoci. Lasciandoci poi, inermi.

C’è bellezza nella profonda e potente leggerezza con la quale Boccaccini ha tradotto e condiviso un’esperienza così intima e così eccezionalmente quotidiana. Come un cantore professionista, un aedo, ci rapisce e ci guida attraverso “luoghi”. Luoghi dell’anima. Ci fa entrare in una geografia emotiva (con epicentro Torre in Pietra), in un intimo viaggio sentimentale, in una mappatura dei costumi. Di quel periodo ma non solo. “Perché i padri sono Paesi”, da cui si parte e dove si desidera tornare. Anche, anzi soprattutto, se sono stati loro a mettere una distanza. La bellezza dell’appartenenza chiede comunque di essere celebrata. E Tarquinio, così infiammabile e insieme così capace di misericordia, lo fa. E trasmette l’imprinting.

E poi ci sono le Madri, come Valeria. Che sanno fare tutto contemporaneamente. Con la grazia e la resistenza di un discobolo, con in mano il più grande (e quindi il più buono) dei cocomeri. E con le quali è più facile confidarsi, prima che l’imprinting paterno culmini con il primo discorso fra uomini.

C’è bellezza nelle nitide foto posturali che immortalano i gesti: offerte su un vassoio, come farebbe un cameriere di Fassi. Perché la vita va bevuta: condividendo a volte “un bicchierino”, a volte “un calice a Mariù”. Perché “un giorno si nasce e un giorno si muore”.

C’è bellezza nella sacralità delle cerimonie: quelle istituzionali, come lo sposalizio o la commemorazione, diventano scenari di qualcosa di diversamente sacro, ovvero le tappe della rivelazione dell’enigma di questa presenza favolosa. All’interno delle quali dapprima un figlio scopre il padre “salvatore” del ragazzo con la lambretta e successivamente viene messo a parte di un discorso per la prima volta “da uomo a uomo”. Cerimonia questa, suggellata dal rituale del fuoco.

C’è bellezza nella musica scelta per accompagnare la rievocazione e insieme la rivelazione della passione di Salvatore D’Acquisto: come una pioggia rafficata, a volte uno stillicidio musicale. Il tutto attraversato dalla dolcezza acuta del violino. E poi, interminabili nuvole di fumo. D’incenso. 

C’è bellezza nell’auto nuova di Tarquinio, vista come un’ inquadratura in soggettiva e vissuta come platea del palcoscenico della via. Quella vera, immortale e quella che scorre e si consuma. Quasi un’immagine uscita da un manifesto di Jaques Tati. 

Perché la bellezza non ha un fine esterno: è di per sé utile. Fa vivere. E in quanto tale, forse, è la legge segreta della vita. Grazie allora a chi mette la propria vita, la propria esperienza e il proprio talento a servizio degli altri, permettendoci di fare esperienza della bellezza della vita.

Questo spettacolo prende la forma di un dialogo: con il pubblico, certamente ma anche con le luci e le ombre interiori dello stesso aedo Boccaccini. Per le quali viene ideato uno speciale disegno luci, necessario per illuminare e celare un luogo diverso: quello custodito nel fondo dei “pantaloni a cica”. Esposto non solo sul comodino ma anche sul palco. Un “luogo” complicato da raggiungere (come la pera in fondo alla bottiglia) e dove Boccaccini ci ha permesso di entrare. Di specchiarci. E di scoprirci, ognuno a suo modo, “somiglianti” a lui. Come lui a suo padre.

TEATRO VITTORIA dal 5 al 10 ottobre 2021


Recensione di Sonia Remoli