Uno, nessuno, centomila

Teatro Quirino dal 25 al 30 gennaio 2022 –

ABC Produzioni e ATA Carlentini
-presentano-

PIPPO PATTAVINA e MARIANELLA BARGILLI
Uno, nessuno e centomila

di Luigi Pirandello
-con-
-ROSARIO MINARDI-
-MARIO OPINATO-
-GIANPAOLO ROMANIA-
-Musiche originali Mario Incudine-
-Scene Salvo Manciagli-
-Regia ANTONELLO CAPODICI-

Il soffio nostalgico e vagabondo di un motivo alla fisarmonica anticipa l’apertura del sipario: preludio all’amara analisi pirandelliana sul soffio vitale umano. Ci si rivela poi una scena marmorea, grigia: il colore della tristezza, della compresenza di bene e di male. Ci arriva la sensazione di un ambiente che sa un po’ di tribunale, un po’ di obitorio e un po’ di giudizio universale: luoghi nei quali si crede di poter stabilire l’esatta identità delle persone.

La scena è abitata da un uomo, seduto di spalle, rivestito di una camicia bianca (che rimanda al Rinascimento e insieme ad un ospizio-manicomio) e da un giudice in doppiopetto scuro, in piedi su di un piccolo podio. Qualcosa di verde spicca: è una coperta, che l’uomo in bianco, nel voltarsi, notiamo tenere sopra le proprie gambe. Colore dominante nel mondo naturale, il verde ci circonda ed è il segno di via libera per procedere e andare avanti (non a caso, l’occhio umano ha il picco di massima sensibilità proprio per le frequenze relative alla luce verde).

Scopriamo che, tra “giudice” ed “imputato”, c’è un rapporto più morbido, più accogliente, quasi confidenziale rispetto al solito rapporto distaccato ed inquisitorio che intercorre tra i due. Imbastiscono, partendo dalla fine, un racconto di ciò che ha preceduto questo “consuntivo” finale e ci introducono al flash-back narrativo seguente.

Pippo Pattavina

Perché nei luoghi della follia, in paradiso così come all’inferno, si va in due (vedi Dante e Virgilio, vedi gli amanti): è necessario che ci sia qualcuno di cui abbiamo fiducia, che ci attivi la nostra parte folle e che poi ci sappia tirar fuori, verso la razionalità, qualora indugiassimo troppo a lungo, per un tempo non sostenibile ad un essere umano. La relazione, il due, viene prima dell’individuo, della singolarità: non a caso l’identità ce la dà l’altro, gli altri.

Marianella Bargilli

E proprio da qui prende l’avvio il racconto: da quando la moglie di Vitaliano Moscarda (un profondo e brillante Pippo Pattavina) fa notare al marito di avere il naso storto, pendente da un lato: una bella “svirgolata”.

Cosa di cui mai si era accorto. Da questo momento inizia per lui un percorso di progressiva scomposizione per specchi della propria unità identitaria, per anni scrupolosamente composta. Ma in realtà, come appassionatamente dice Moscarda, “noi siamo tempesta, fiumana”: follia.

E come era solito dire il Platone del Fedro e poi del Simposio, i beni più grandi ci provengono proprio dalla follia. E a dircelo è proprio lui: colui che ha fondato il modo di pensare razionale, introducendo il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. Questi due principi, utilissimi per intenderci tra tutti (come dice Mortara, che cosa è la verità se non un’opinione più condivisa delle altre) non ci introducono però alla “verità” ma si limitano a mettere un confine e quindi a de-terminare la verità. Insomma, danno compostezza al caos nel quale siamo immersi. Ma dalla razionalità non “si crea” nulla: occorre contaminarsi con la follia e poi riemergere da essa per dare vita a qualcosa di creativo.

E questo scopriremo dal momento in cui le grigie pareti marmoree, scorrendo, ci introdurranno prima nell’atelier rosso dannunziano della moglie di Vitaliano Mortara (una sensuale ed ammaliante Marianella Bargilli, quasi una Valentina di Crepax); poi lungo le vie della città dove Mortara cercherà e troverà uomini simili a lui, composti ma in realtà scomponibilissimi. E ancora, a seguire saremo portati nell’ufficio dell’apparentemente compostissima azienda di famiglia, sulla scrivania della quale troneggia però un mezzo busto dell’insospettatamente scomposto Giulio Cesare.

Marianella Bargilli

Infine nelle stanze dell’amica-amante di Mortara (una dolce e maliziosamente scapigliata Eva Kant (sempre interpretata da Marianella Bargilli).

Elegantissimamente efficace la scenografia: declinata sulla mutevolezza dell’identità umana.

Particolarmente curati i cambi di scena “a vista” che, grazie ad una maestria dell’uso del controluce, risultano quasi dei compassati movimenti di un carillon. 

Per tutto lo spettacolo, quella coperta verde non lascia mai la scena: se non è in mano a Mortara, è comunque appoggiata ad una (quella di sinistra) delle due piccole sedie ai lati del proscenio, dove è solito spostarsi, quasi da un emisfero all’altro della mente, il protagonista.

Quel verde, simbolo della vita che non conclude; “dell’albero respiro tremulo di foglie nuove. Tutto fuori, vagabondo”.

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