Ferito a morte

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 15 Gennaio 2023 –

Pigramente guardare. Preferire sabotare i timpani e usare l’orecchio come fosse “il buco di un lavandino”, addomesticandolo solo all’ascolto di racconti. Non farsi tentare dal fascino conviviale dei cibi; non lasciarsi guidare dal fiuto; non abbandonarsi al tatto. Solo guardare. E poi: preferire rinunciare.

Andrea Renzi (Massimo adulto) in una scena dello spettacolo “Ferito a Morte” di R. Andò

Quasi creando un rapporto biologicamente chiasmico tra natura e vita umana: la natura è la nemesi della vita, perché nemesi è la grande occasione mancata. “Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?”. E allora perché non godere perversamente nel perdere occasioni. Soprattutto quando è proprio lì, facile, a portata di mano. Galleggiando.

Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli (Sasà) in una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Per poi abbandonare ogni pigrizia nel costruire una propria narrrazione : attenti e accuratissimi nel creare la “suspense”. Obbedendo alle aspettative “degli altri” che pretendono, seppur impazienti di arrivare al punto, di venir eccitati dalla dovizia dei particolari. Inventati, spesso. Ma non importa: la vita si inventa, non si vive.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte ” di R. Andò

È colpa della città che “o ti ferisce a morte o ti addormenta”. Nella magnifica regia di Roberto Andò costruita sull’adattamento di Emanuele Trevi (celebre “coltivatore” di pure forme laterali di scrittura, dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario) quest’affermazione diviene un mantra. “Boccheggiato” da uomini che, in un seducente gioco di specchi e di proiezioni tridimensionali, si accontentano di vivere nel mare della vita, come in un rassicurante acquario.

Il rinomato regista Roberto Andò

Dove, grazie ad una sapiente costruzione scenografica continuamente in movimento, abilmente “velata” o “freezzata”, il passato si confonde con il presente. Un tempo scandito e numerabile solo attraverso il ricordo della donna che quell’estate “furoreggiò”. Si fa per dire: ogni donna si dà cura di informare “in anticipo” quali sono i suoi “gusti “, così da evitare insopportabili sorprese. Insomma, si vive con “un libretto delle istruzioni” per tutto.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

I dialoghi, com’è nella cifra stilistica di Andò, che qui si coniuga perfettamente con la qualità del testo di Raffaele La Capria, tendono ad essere sostituiti da lunghi monologhi-confessioni: dimensione dove poter rintracciare la misura, la chiave, per penetrare la città e i suoi misteri, aldilà di una misurazione del tempo cronologica. Concezione “iniziatica” della letteratura, declinata assieme a Emanuele Trevi, che ne ha curato l’adattamento con la sua caratteristica lucidità impeccabilmente intensa.

Emanuele Trevi

È un uomo dal thymos ancora intriso del trauma della guerra, quello raccontato in questo spettacolo, terrorizzato dall’ambiguità del reale, nonché dall’ambiguità del linguaggio. E che, per “reazione”, preferisce riporre la propria fiducia chiudendosi, nella presunta verità di un solo punto di vista. Perché come non si sa cosa nasconda l’acqua, così non si può sapere cosa ci nasconda la vita.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Si celebra così lo iato tra ciò che appare e ciò che è, tra la voce dei monologhi e la realtà dei fatti. Ma così gli “appetiti” finiscono per sopirsi, se si decide di rinunciare alla “caccia” (tranne Sasà, il Mandrake dell’improvvisazione). Paura e coraggio sono le due facce del desiderio ma qui si sceglie di “parlare” di fare l’amore, piuttosto che farlo davvero.

Sabatino Trobetta (Massimo giovane) e Laura Valentinelli (Carla) in una scena dello spettacolo

Tutta la narrazione è registicamente gestita da Massimo, narratore interno ed esterno, che anche scenograficamente abita prevalentemente una cameretta, di vanghoghiana memoria, costruita fuori dal palco ma ad esso contigua. Sospeso tra flusso di coscienza, sogno, ricordi e flashback. Sul palco si aprono e si chiudono fluidamente scene (curate da Gianni Carluccio, così come il disegno luci), a volte anche parallelamente, come fossero cassetti di un grande troumeau: la vita. Dove si vive come “monadi”, come “fotografato” con genio registico attraverso la scena esemplare dell’apparente “convivio”.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Non si ama entrare nella relazione con l’imprevisto che l’altro costituisce. Così ognuno si costruisce una propria weltanschauung, una propria visione della realtà, rendendola consona e accettabile a se stesso e agli altri. Quelli del Circolo: nuovo macrocosmo. È così confortevole! “Una vestaglia tiepida”, così come il sole. “Noi del Sud siamo predisposti al fascismo”. Ovvero ad abdicare al libero arbitrio, che implica quel gran fardello delle responsabilità. Meglio le catene, l’obbedienza: com’è nelle più intime corde della natura umana. Restare eternamente figli, incapaci di desiderare lo sviluppo della propria autonomia.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Ma è anche tutto così noioso! Inevitabilmente. E subdolamente feroce. Tanto che la solitudine prende il sopravvento, nonostante si stia prossemicamente vicini. E ci sono scene che sembrano uscite dal pennello di Edward Hopper.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

E si finisce per eccitarsi per l’ebrezza della morte. E per il dolore, che fa sentire vivi, in un mondo ovattato dalla menzogna, rivelata narrativamente in scena da superfici specchianti che non si limitano a “riflettere” ma anche a “proiettare”.

Complici di eleganti vizi e bizzarrie, un microcosmo di due camerieri: una donna e un uomo che nell’assecondare i loro “padroni” contribuiscono visivamente a creare scene alla Jack Vettriano. Meravigliosi i costumi di Daniela Cernigliaro.

Uno spettacolo fatto per gli occhi. Uno spettacolo che incanta. Che sceglie le immagini come veicolo privilegiato per arrivare a toccare il fondo. Delle nostre anime. Un inno alla risalita, all’ebrezza dell’aprirsi alla tridimensionalità della vita. Complice un cast impeccabile.

Storie di Natale

TEATRO ARGENTINA, dal 14 dicembre 2022 al 6 Gennaio 2023


Se è rimasto ancora qualcuno

che questo spettacolo non l’ha veduto

tutto non sarà perduto 

se domani (o doman l’altro) al Teatro Argentina sarà venuto !!!


È un meraviglioso Elogio dell’Immaginazione lo spettacolo del fantasmagorico Roberto Gandini, regista nonché presentatore di questa strabiliante performance. Per accendere le fiamme della fantasia, quasi come un re, un Enrico V shakespeariano, attraverso un fulgido prologo, invita i bambini a sciogliere le briglie della fantasia.

Roberto Gandini, il regista di “Storie di Natale”

Con la sua particolare maniera, sa solleticarli e insieme incantarli. Effetto non diverso sortisce sugli adulti, numerosissimi nella Sala Squarzina, che gareggiano con e forse più dei bambini per intervenire.

Fabio Piperno e Francesca Astrei in una scena di “Storie di Natale”

Una volta liberata e dato sfogo alla fantasia, Roberto Gandini lascia la platea nelle mani creative dei suoi fidi attori: alcuni sono volti ormai noti del Laboratorio Piero Gabrielli come Fabio Piperno e Danilo Turnaturi; altri sono professionisti come Francesca Astrei, Maria Teresa Campus e Gabriele Ortenzi.

Gabriele Ortenzi, Maria Teresa Campus e Francesca Astrei in una scena di “Storie di Natale”

E dopo aver allenato la capacità a creare ponti (tipica della fantasia) con “prefissi fantastici” e invenzioni varie alla Gianni Rodani, si è ora pronti e predisposti all’ascolto di racconti e di storie con più finali. Senza dimenticare la magia delle canzoni, accompagnate dal vivo dalle tastiere di Flavio Cangialosi.

Francesca Astrei con Danilo Turnaturi in una scena di “Storie di Natale”

Perché il fuoco che alimenta l’ascolto sa mettere pace, quando ” i perché ” degli altri vengono ascoltati e rispettati. Solo così “sul cipresso possono posarsi fiori di pesco” . E a teatro questo si fa: si festeggia capodanno tutto l’anno, perché con la fantasia si crea magia. Tanto che per poter fare il re, “basta saper fare yeah! “. 

Il regista Roberto Gandini e l’Albero di Natale di Paolo Ferrari, realizzato con 2500 bottiglie riciclate

Più vera del vero

TEATRO MARCONI, dal 29 dicembre 2022 all’8 Gennaio 2023 –

Che cosa è “normale” ? E siamo davvero sicuri che quello che desideriamo sia ciò che “ci sembra normale” ? Questo “il solletico” che l’adattamento di Felice della Corte, curatore della regia di questo spettacolo (oltre ad essere in scena nel ruolo di Giulio) sceglie di procurarci. E per farlo si affida alla complicità di Max Gazzè e del suo brano “Ti sembra normale”, colonna sonora dello spettacolo.

Felice Della Corte, regista dello spettacolo “Più vera del vero”

In una triangolazione che ricorda quella del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand , Franco, uomo annoiatamente sposato, regala al suo amico Giulio, single alla perenne ricerca di una donna “vera”,  un catalogo di modelli androidi RCA 222. Perfette riproduzioni di donne: dalla pelle calda;  “addomesticabili”  (attraverso l’immissione telematica delle specifiche comportamentali desiderate) e “adattabili” all’ambiente umano nel quale vengono inserite. Una soluzione perfetta, sembrerebbe. Straordinaria, anche se non troppo lontana dai risultati che la robotica potrebbe raggiungere.

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Ma al di là delle possibili future soluzioni tecnologiche, che cosa cerca un essere umano? Giulio è un uomo che, combattuto nella confusione tra “il darsi e il prendersi” tipico di ogni relazione, si travaglia sul “vero” significato dell’amore. Ma cosa significa “vero” ? Forse, normale? Forse, perfetto? E se invece significasse essere meravigliosamente fragili e quindi anche imprevedibili ? Se significasse essere disposti a tralignare dall’abituale ménage vitale? Fuori da ogni confortevole programmazione?

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Di quante attenzioni, dalle sfumature ordinarie e straordinarie, abbiamo bisogno? E cosa siamo disposti a fare per assaporarle? Questo l’apice emotivo che con commossa levità riesce a raggiungere questo spettacolo, curato da Felice Della Corte, partendo dal testo (nominato per il Premio Molière del 2002) di Martial Courcier .

Il testo originale di Martial Courcier che ha ispirato lo spettacolo “Più vera del vero”

Una commedia brillante, ironica e sensibile che riesce a toccare le corde più profonde dell’animo di chi vive lontano dalla sterile superficialità. Perché, come canta Max Gazzè, essere “vera” non significa conoscere tutto dell’altra: sono i “freni che sollevano i perché”  a rendere enigmatica ma tremendamente affascinante una relazione. 

Max Gazzè

Gli attori in scena sanno muoversi con naturalezza ed efficacia attraverso i contraddittori percorsi mentali ed emotivi che attraversano la nostra fragile umanità. E riescono a consegnarci, con il sorriso, un messaggio speciale per iniziare il Nuovo Anno.

Valentina Corti, la Cloè androide dello spettacolo “Più vera del vero”

Valentina Corti, attrice di talento che il pubblico ha potuto apprezzare in film e serie tv di successo, qui si cimenta in una difficile prova di gestione del corpo che convince. E ci trasferisce tutta la complessità del gestire la compresenza meccanica (ma anche umana) nel far dialogare presunzioni ed emozioni.

I due uomini che l’affiancano (Felice Della Corte nel ruolo di Giulio e Riccardo Graziosi nel ruolo di Franco) danno un’interessante prova dei labili confini che arginano la complicità maschile e dei diversi modi in cui può declinarsi la drammatica bellezza delle relazioni di coppia.

Lo spettacolo sarà in scena questa sera, accompagnato da un generoso brindisi di saluto al Nuovo Anno e poi ancora fino all’ 8 Gennaio 2023.

Gregory: una storia di famiglia

TEATRO DE’ SERVI, dal 20 al 23 Dicembre 2022 –

Naturalezza.

Questa la cifra dello spettacolo. 

Questa la leva scelta per sollevare il mondo della diversità. 

Questo il taglio registico dello spettacolo

che Nicola Pistoia ha saputo regalare con insolita leggerezza e nessuna retorica.

Nicola Pistoia, regista di “Gregory; una storia di famiglia”

Complice il testo scritto da Veronica Liberale, che intercetta un modo di raccontare, con spontanea e disinvolta autenticità e con naturale comicità, cosa succede quando in una famiglia cade quel che si dice “un fulmine a ciel sereno”. Un fulmine che brucia sì, ma che può anche illuminare di luce nuova e sincera quella che era una stereotipata normalità.

Veronica Liberale, autrice e attrice in ” Gregory: una storia di famiglia”

Un praticabile ospita gli attori: sempre tutti in scena, “inquadrati” di volta in volta grazie a scelte tecniche semplici ma molto efficaci. All’inizio della narrazione tutti i personaggi vengono presentati, e quindi “definiti”, da un altro personaggio: forse perché è attraverso lo sguardo dell’altro che esistiamo.

Una scena di “Gregory: una storia di famiglia”

Tranne un personaggio: lei sa che si può “scegliere”, che si possono “desiderare” cose diverse, che si può andare oltre una presunta “uniformità di essere”. E quindi nel suo modo di fare rifugge da ogni definizione, aperta com’è alla molteplicità delle “letture ontologiche” del reale.

Una scena di “Gregory: una storia di famiglia”

Il resto dei componenti familiari colgono la sua “diversità” ma bonariamente “la adottano”: ne restano affascinati. E così facendo non si accorgono di esserne positivamente contagiati. All’arrivo, infatti, di un nuovo piccolo componente familiare, i genitori “decidono” che si chiamerà Francesco ma la nonna “desidera” e quindi “sceglie” di chiamarlo Gregory.

Veronica Liberale in una scena di “Gregory: una storia di famiglia”

Così facendo, tra risate, ironia e intelligente umorismo viene detronizzato uno dei principi a fondamento del ragionamento logico: il principio di identità e di non contraddizione, che riduce ogni elemento del reale ad una sola definizione. Per rendere possibile una comunicazione, dicono.

Francesco De Rosa in una scena di “Gregory: una storia di famiglia”

Per intenderci. Ma invece siamo capaci di intenderci anche se qualcosa esce fuori da un utile rigore uniformante. Questo spettacolo ce lo ricorda.

Perché la vita, come il teatro, si apre ad una molteplice lettura della realtà. Ed è bellissimo.

Il cast al completo in una scena di “Gregory: una storia di famiglia”

Gli attori in scena sono molto coesi e danno prova di una sentita coralità accogliente.


Uno spettacolo

di Veronica Liberale

con Francesco De Rosa, Veronica Liberale, Francesca Pausilli, Stefania Polentini, Armando Puccio e Francesco Stella

regia Nicola Pistoia

aiuto regia Loredana Piedimonte

costumi Alessia Sembrini

scene Francesco Montanaro

audio e fonica Denis Persichini

foto di scena/pagina facebook/testimonial Elena Tomei


Spettri

TEATRO QUIRINO, Dal 13 al 18 dicembre 2022 –

Un urlo fa da prologo allo spettacolo: un urlo per una rottura. Una rottura che rivela come un’unità sia composta da una pluralità di parti.

Giancarlo Previati ed Eleonora Panizzo in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

All’apertura del sipario questo concetto è replicato da un maxi specchio (che fa da fondale) composto da una molteplicità di quadranti, che frantumano l’apparentemente inscalfibile unità di ciascun personaggio. 

Fabio Sartor, Andrea Jonasson e Eleonora Panizzo in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

Fuori dalla scena un rumoreggiare di tuoni: l’aria si sta caricando di energia che a breve esploderà, traducendo le catene della tensione in pioggia, ovvero in una pluralità di gocce. 

Il regista lituano Rimas Tuminas, direttore del celeberrimo Vakhtangov ( il più grande teatro di Russia) di segnali premonitori ne semina in abbondanza: di lì a breve infatti parteciperemo al frantumarsi di ipocrisie perbenisticamente inossidabili.  

Rimas Tuminas ©VMT archyvas

L’interessante adattamento di Fausto Paravidino, fedele al testo di Ibsen che vuole denunciare un dramma borghese, sceglie di veicolare questo obiettivo mettendo in primo piano il dramma lacerante di una donna: rifiutata dal suo amato (che sceglie di proseguire con ipocrisia la sua missione di Pastore, reso in tutte le sue ambiguità da un efficace Fabio Sartor), tradita dall’uomo che ha sposato (ma del quale si è resa complice di innominabili segreti) e perdutamente innamorata del proprio unico figlio.

Fausto Paravidino – curatore dell’adattamento di “Spettri” di Rimas Tuminas

Una donna così fortemente appesantita dal rispetto del diktat del perbenismo borghese qui trova incarnazione, merito anche della magnifica limpida intensità di Andrea Jonasson, in una Helene “dal piè leggero”, che sembra librarsi dal suolo resistendo alla forza di gravità. La sua voce sa essere soave (e ad incorniciarla come tale contribuisce un uso delle braccia che sa disegnare celesti circonferenze nell’aria) ma meglio ancora conosce i toni più gravi. Segreti. È una donna molto bella, nonostante il verde abito monacale nel quale si nasconde e sul quale grava un orologio (ciondolo di una lunga collana) per misurare quel tempo al quale lei si illude di “dare la carica”.

Il mondo nel quale crede di muoversi è una gabbia dorata: un reticolo di chiare e univoche geometrie, continuamente intorbidite da una subdola nebbia, che gravano orizzontalmente e verticalmente su quella sua “joie de vivre”, prima pretesa e poi ceduta ( le scene sono curate, così come i costumi, da Adomas Jacovskis).

A sfidare le pure geometrie ci sono i pensieri e le azioni: ambigue e contorte. Come la scelta di non assicurare l’orfanotrofio, che si sta andando ad inaugurare, per dimostrare alla gente che non bisogna temere la Provvidenza. Ma c’è Osvald (un densissimo Gianluca Merolli), l’amatissimo figlio di Helene, che nonostante l’ereditato destino di fragilità, ha il coraggio di aprire la porta della gabbia dorata, permettendo l’entrata di aria fresca.

Gianluca Merolli e Andrea Jonasson in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

Ma purtroppo il suo aver “trovato le parole giuste per mettere in ordine gli eventi” provocherà l’apertura del “vaso di Pandora” che sua mamma fino a quel momento era riuscita ipocritamente a tenere ben serrato. E tutti gli spettri si paleseranno: “ombre di antiche convinzioni sbagliate, che continuano ad agitarsi dentro di noi”. Sarà la fine. O forse un nuovo inizio.

Il sinergico cast di “Spettri” di Rimas Tuminas

Perché solo così una madre, fino ad allora morbosamente legata al figlio, scoprirà il suo autentico ruolo: quello di alimentare il desiderio di vita. Nonostante tutto.

Di commovente bellezza alcune scene: la danza con lo specchio degli spettri e l’inedita “Pietà” di una madre che, nel momento di maggior dolore, accetta si “staccarsi” dal figlio, rinunciando finalmente “a tenerlo in braccio”. Permettendogli così di iniziare a reggersi in piedi. Con i propri piedi.

Applausi profondamente intensi alla prima di “Spettri” di Rimas Tuminas


Leggi l’intervista rilasciata da Andrea Jonasson al “Corriere della sera”


Il malato immaginario

TEATRO QUIRINO, Dal 6 all’ 11 Dicembre 2022 –

Un delizioso motivo al clavicembalo (le musiche sono di Massimiliano Pace) prelude all’apertura del sipario, che lascia libero di diffondersi in platea il suadentissimo profumo di un’essenza lignea: quella dell’enigmatica torre che campeggia sul palco (la scenografia è di Fabiana di Marco).

Il regista Guglielmo Ferro

Guglielmo Ferro, regista meticolosamente attento ai dettagli che connotano una messa in scena (come suo padre Turi lo era nello studio dei personaggi che andava ad interpretare) sceglie di proporci un Argante prestante, ancora giovane e vivace ma che, sedotto dal “male di vivere”, un po’ come il poeta Hölderlin, sceglie di “isolarsi” in una torre. Lignea, appunto, eretta su geometrie interconnesse che, quasi in un ardito tentativo di esplorazione dell’infinito, vagamente ricordano quelle dell’incisore Escher.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Se l’uomo è destinato a sperimentare l’angoscia di fronte al nulla che minaccia l’esistenza; se la paura di vivere supera quella di morire, perché non “fingersi” malati? Perché non affidarsi alla vita “liquida” di onnipotenti clisteri? Con il vantaggio anacronistico di continuare ad essere “accuditi” e con l’illusione di delegare agli altri solo preoccupazioni e affanni. In realtà adbicando al proprio arbitrio nella complessa gestione del “convegno” degli umani. Un uomo, quello che Molière descrive nel 1600, oggi attualissimo.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Una “scienza”, la medicina di fine Seicento che, se da una parte fornisce all’uomo gli strumenti per conoscere e quindi dominare la Natura, dall’altra veicola anche profonde inquietudini ed insicurezze, che aprono inesorabilmente pericolosi sensi di vuoto. Molière, con guizzo geniale, rende trascendente questa subdola contraddizione incarnandola nell’ipocondriaco: colui che vedendo ovunque una minaccia e sentendosi sempre malato, finisce per rinunciare a vivere, perdendo anche quel che resta della salute e della lucidità mentale, sotto i bombardamenti dei medicinali più variegati.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Emilio Solfrizzi ( il malato immaginario Argante) è efficacissimo nella sua prestanza da malato: incisivo e lieve; ironico e intimamente amletico. Mai eccessivo. Poeticamente comico. Adorabile nella sua meschinità. Gli attori che lo accompagnano in questa avventurarsi bizzarro ed enigmatico, paradossalmente comico fino all’assurdo, sono tutti accuratamente caratterizzati ed efficacemente resi.

Una scena dello spettacolo “Il malato immaginario ” di Gugliemo Ferro

Una metafora illuminante per il pubblico, racchiusa in uno spettacolo profondamente divertente.

Recensione dello spettacolo CIRANO DEVE MORIRE di Leonardo Manzan e Rocco Placidi – regia di Leonardo Manzan

TEATRO VASCELLO, Dal 22 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Spettacolo vincitore del Bando Biennale College indetto dalla Biennale Teatro di Venezia 2018

Ci aspettano: abitano una “costruzione” edificata in un teatro nudo, dove tutto è a vista, senza le “omissioni” delle quinte (le scene sono di Giuseppe Stellato). Debbono dirci qualcosa: vogliono “mettere a nudo” una storia. Quella sul triangolo amoroso tra Cyrano-Rossana-Cristiano. È la prossemica che hanno scelto per aspettarci a parlarcene: Rossana in alto, al vertice di quel triangolo di cui Cyrano e Cristiano sono i due angoli alla base.

Scena di “Cirano deve morire” al momento dell’ingresso in sala dello spettatore

Ma questa volta è ad una narrazione “politicamente scorretta” che dobbiamo prepararci: fuori da ogni perbenismo e da una visione manichea che distingua nettamente il bene dal male. Fuori da soluzioni confezionate. Univoche. Ingannevoli. Complice un disegno luci spregiudicato: un insieme di raggi fendenti e penetranti come spade (disegno di Simone De Angelis, esecuzione di Giuseppe Incurvati). 

La riscrittura del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand ordita dal talentuoso regista Leonardo Manzan, affiancato nella drammaturgia da Rocco Placidi, mette alla prova i consolidati equilibri che sorreggono la celebre storia, osando andare oltre i confini di certi codici “omologanti”.

Leonardo Manzan, il regista di “Cirano deve morire”

Qui si sposa il punto di vista di Rossana (una poeticamente accattivante Paola Giannini), unica sopravvissuta alla storia e che di questa pesantezza non fa più un ingombro ma l’occasione per uno sguardo nuovo: dall’ “alto” della sua posizione e con il conquistato distacco, tutta la storia può essere rivista.

Paola Giannini, la Rossana in “Cirano deve morire”

È quella di Manzan una Rossana che ammicca all’arguta “Locandiera” di Goldoni, risoluta nello scendere in campo per ribellarsi alla “solita” narrazione che fa di Cyrano solo il simbolo dell’ eroe allergico all’ipocrisia e di Cristiano un delizioso sfortunato. Scopriremo, dal suo punto di vista invece, come Cristiano (un magnetico Giusto Cucchiarini) sia l’esempio del “bello che non balla”

Giusto Cucchiaini il Cristiano in”Cirano deve morire”

e Cirano (il poeta maledetto Alessandro Bay Rossi) un uomo che della propria diversità fisiognomica fa un muro dietro al quale trincerarsi. Un po’ come canta Roberto Vecchioni nella sua “Rossana Rossana”: “Col cuore dentro il naso … nelle mani soltanto stelle rotte, l’ombra perduta tra i rami…che brutta eternità desiderarti e non averti mai…aprivo solo la bocca, facevo finta forte e ti ho bagnato d’amore” .

Alessandro Bay Rossi, il Cirano in “Cirano deve morire”

Insomma un Cirano che si blocca ad una (apparentemente) generosa simbiosi con Cristiano, dove quella che chiamano “finzione” si riduce ad una “minzione”. Un uomo, Cirano, che non va oltre la sublimazione inchiostrata delle proprie emozioni. Ma l’inchiostro “si secca” e non produce nulla di fertile. Da qui il titolo iconoclasta: “Cirano deve morire”.

Perché scrivere “ti amo” vale solo se è il momento che anticipa il “segno” di un gesto intrepido. Perché in realtà a Cirano non manca tanto la bellezza, quanto la capacità di “perdere il controllo” e di misurarsi con la follia dell’amore. Che non fa sempre rima.

Efficace poi la scelta di tradurre e veicolare questa nuova “weltanschauung” attraverso la musicalità metrica e l’attrazione per le rime caratteristiche del linguaggio rap. Naturale effetto di questa nuova traduzione è che il lavoro assuma la modalità di un “concerto”, di un gareggiare musicale: un concept album supportato dalle musiche originali del dj Filippo Lilli direttamente sul palco. Raffinatissimo e molto efficace il contrasto antico-moderno dei costumi (sono curati da Graziella Pepe).

Il cast di “Cirano deve morire” con il dj Filippo Lilli

Una prova di teatro coraggiosamente interessante, costruita senza l’ossessione di andare incontro al beneplacito della critica.

Un nuovo orizzonte quello aperto da Leonardo Manzan, che sa portare a “singolar tenzone” teatro e musica rap.


CIRANO DEVE MORIRE

di Leonardo ManzanRocco Placidi
regia Leonardo Manzan
con Paola GianniniAlessandro Bay RossiGiusto Cucchiarini 
musiche originali di Franco Visioli e Alessandro Levrero eseguite dal vivo da Filippo Lilli     

fonico Valerio Massi

luci Simone De Angelis eseguite da Giuseppe Incurvati 

scene Giuseppe Stellato 

costumi Graziella Pepe

produzione de La Biennale di Venezia nell’ambito del progetto Biennale College Teatro – Registi Under 30 con la direzione artistica di Antonio Latella
produzione nuovo allestimento 2022 La Fabbrica dell’Attore – Teatro VascelloElledieffeFondazione Teatro della Toscana


Recensione di Sonia Remoli

Cenerentola remix

TEATRO INDIA, Dal 22 novembre al 4 dicembre 2022 –

È una Cenerentola che strizza l’occhio a Pirandello e a Shakespeare quella della rilettura che ieri sera Fabio Cherstich, talento teatrale e operistico (classe 1984), ha mandato in scena in prima nazionale al Teatro India.

Fabio Cherstich

Nel prologo si avverte lo spettatore di come le parole possano essere pericolosamente utili, continuamente attraversate come sono da umani fraintendimenti. Sembra quasi di sentir parlare il Padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello: “abbiamo tutti dentro un mondo di cose…crediamo di intenderci ma non ci intendiamo mai !”.

La Cenerentola di Cherstich (una tenera e ostinata Annalisa Limardi) è un’adolescente di oggi, che sceglie di cedere la magia del personaggio disneyano per calarsi in un una realtà disincantata. Ma qui le succede di “fraintendere” le parole che sua madre le lascia in eredità, poco prima di morire. Questo fraintendimento dall’amletico sapore del “dormire … morire” renderà l’assenza materna molto ingombrante fino a condurla verso una pericolosa ossessione che rischierà di privarla del diritto a vivere, sognare, desiderare.

Impronterà le sue giornate a obbligarsi di ricordare sua madre ogni cinque minuti, credendo così di evitare che muoia davvero. La postura mentale peggiorerà dopo qualche mese allorché Cenerentola si accorgerà di aver saltato uno dei suoi ossessivi rituali di commemorazione. A quel punto per espiare la colpa decide di sottoporsi docilmente ad sogni forma di sopruso operato su di lei da parte della Matrigna (una sfaccettatissima Giulia Sucapane) e delle due sorellastre (shakespearianamente interpretate da uomini: due briosissimi Giuseppe Benvegna e Alessandro Pizzuto).

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

A ridestarla dalla sua vocazione allo sterile sacrificio, sarà una fata avanguardista (una super smart Evelina Rosselli) che Cherstich priva di immagine facendola palesare epifanicamente solo come “voce” insediata negli elettrodomestici, unici “interlocutori” quotidiani di Cenerentola. Sarà proprio questa voce fatata, dall’accento spiccatamente romanesco, a solleticare Cenerentola all’insolito piacere dell’attesa e al delizioso dolore del “friccichio de core”.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

E così accadrà: Cenerentola andrà al ballo ma sarà lei ad attirare le attenzioni del Principe, nel quale si rifletterà come in uno specchio. Lui è un adolescente timidissimo e impacciato che, come lei, vive un problematico rapporto materno. Sarà lui a scappare dal ballo per correre verso un improbabile appuntamento telefonico con una madre irraggiungibile. Vorrebbe tanto regalare a Cenerentola qualcosa ma non venendogli nulla in mente finirà per regalarle una sua scarpa. Lei apprezzerà molto l’insolito dono ma, ormai inserita in un progressivo processo di crescita e di emancipazione, si sentirà libera di non sposarlo ma di amarlo come amico.

Uno spettacolo deliziosamente profondo. Estroso e vero. Adatto ad un pubblico nuovo ed eterogeneo. Momento di condivisione culturale e forma di intrattenimento intelligente.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

Interessante l’uso dello spazio scenico; ancor più la gestione delle luci: quasi tutto avviene a vista, anche a sottolineare il bisogno tutto umano di “controllare” il naturale fluire delle cose. Tutti gli attori si calano con geniale disincanto in questa realtà scevra da “zuccherosa’” magia. Giocosamente raffinate sono le musiche del M° Pasquale Catalano. Efficace la scelta di far entrare nella rappresentazione il padre di Cenerentola (assente nella fiaba originale) che, quasi come sua figlia, diventa un servitore della casa. Ad interpretarlo è l’espressivo Julien Lambert.

Una scena dello spettacolo “Cenerentola remix”

La sua presenza è anche un riferimento all’evaporazione dell’attuale figura del padre, in realtà invece custode dell’applicazione della “legge” che permette il generarsi di un salutare desiderio di crescita nel figlio. Perché Cenerentola soffre non solo del lutto della mamma ma anche quello dell’inesistenza di un riferimento paterno. Così come il Principe: il cui padre, il re, ha come unica preoccupazione quella di organizzare feste.

Merito di questo spettacolo è quello di saper veicolare con calviniana leggerezza temi fondamentali della vita ai quali l’arte, e quindi il teatro, ha la capacità di avvicinarci. Promuovendo “un incontro” capace di sovvertire il nostro rapporto abituale con la realtà.

Una compagnia di pazzi

TEATRO DE’ SERVI, Dal 15 al 27 Novembre 2022 –

Uno spettacolo coraggioso e poetico.

Narra di come in quel che resta di un manicomio (con tre malati, due infermieri e un direttore sanitario, ai margini della vita e della Seconda Guerra Mondiale) la quotidianità riesca ad avere il sapore di un’avventura: quella dell’immaginifica navigazione di un equipaggio che sa vivere di attese e di desideri infiniti. In primis l’attesa dell’arrivo della neve.

Uno spettacolo che ha il merito di presentare la follia non tanto come un insieme di comportamenti che deviano dalla “norma”, quanto piuttosto come comportamenti che sanno rivelarci qualcosa di “vero” sull’essere umano. Cosa significhi essere “liberi”. Cosa significhi “amare” davvero, al di là degli stereotipi. Come possa essere straordinariamente terapeutica una carezza. Come “il divino”, il “genio”, si manifesti inaspettatamente attraverso la musica e la danza.

Perché tutti noi sappiamo ciò che siamo ma non ciò che potremo essere.

E quando finalmente la neve arriva, “la neve pesa e in testa fa male”: tutti sentono che è arrivato il momento di “lasciar andare la fune che unisce alla riva”. Di lasciar andare il destino. Di lasciare che tutto fluisca. “La salvezza non si controlla. Vince chi molla”. Un nuovo viaggio si palesa. O si lascia immaginare.

Il testo e la regia dello spettacolo sono di Antonio Grosso, acuto osservatore stregato dai piccoli microcosmi dell’esistere, che è presente anche in scena nel ruolo di Francesco, uno dei due infermieri.

Antonio Grosso

Tutti gli attori danno prova di una recitazione che rifugge dai facili eccessi. Una recitazione semplice e naturale, che imprime una meravigliosa dolcezza al gesto. Non passa inosservata l’affascinante mimèsi di Gioele Rotini: folle, in ogni vibrazione del corpo e dello sguardo.

LO SPETTACOLO SARA’ IN SCENA FINO AL  27 NOVEMBRE AL TEATRO DE’ SERVI

Recensione dello spettacolo AMLETO di William Shakespeare – regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, dal 15 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Amleto siamo noi.

Amleto è uno di noi: immerso qual è in dinamiche familiari ed esistenziali sempre attuali.

Amleto è un mito moderno: un uomo alla continua ricerca di una ragion d’essere ma soprattutto un uomo dilaniato da una prepotente dualità. 

Il regista Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che, com’è nel destino da sperimentatore del regista Giorgio Barberio Corsetti , trova sviluppo in questo adattamento prendendo le sembianze di una interessantissima “metamorfosi” globale. 

In fieri, in trasformazione, non è solo Amleto ma tutto l’universo in cui è immerso. Ad iniziare dalla leviatanica struttura multiscenica (così cara al teatro shakespeariano) rappresentante il castello-prigione di Elsinor (le scene sono firmate da Massimo Troncanetti). Complice una schiera di macchinisti che entrano ed escono dalla scena, come in un’elegante coreografia, armonicamente declinata sulla poetica della narrazione.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Parlano di intrinseche dualità i pannelli che scendono a “tagliare” l’apparente verità, rivelando ciò che in essa si cela.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che metamorficamente si moltiplica in una frammentazione, nella scena del duello finale tra Amleto e Laerte. Davvero molto suggestiva: acuta intuizione quella di Corsetti di far scendere sulla scena pannelli specchianti che moltiplicano, scomponendoli in una miriade di immagini, i due contendenti. Intuizione che ricorda archetipicamente la scena del labirinto di specchi de “La signora di Shangai” di Orson Welles.

Il M° Massimo Sigillò Massara

Incentrate sulla dualità classico-contemporanea sono le originalissime architetture musicali composte dal Maestro Massimo Sigillò Massara. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Ad un interessante “in bilico” sono sapientemente sottoposte anche alcune prove attoriali: davvero stimolante la resa di alcuni passi della narrazione dove la decisa inclinazione dei piani costringe gli interpreti a trovare sempre nuovi equilibri fisici. E metafisici. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Perché ciò che conta, conclude l’ “Amleto” di Corsetti non è stabilire nettamente se “essere o non essere” quanto piuttosto “essere presenti a tutto”. E a tutti: perché l’immortalità dei mortali si dà nell’essere ricordati. E nell’avere, quindi, la preziosa opportunità che qualcuno desideri essere il “testimone” della nostra esistenza. Come Amleto lo è stato per il re, suo padre, e Orazio lo sarà per il carissimo amico Amleto. 

Gli applausi ieri sera alla prima dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Gli attori danno una splendida prova della “fluidità” in cui sono chiamati a muoversi. Non ultima quella tra l’essere “attori” e l’essere “spettatori”.

Particolarmente accattivante la rivisitazione che Corsetti fa di alcuni personaggi: un’ Ofelia poeticamente rock (interpretata con profonda leggiadria da Mimosa Campironi) che, anziché ‘evadere’ intrecciando ghirlande di fiori, preferisce ascoltare musica correndo sul tapis roulant, oppure sedersi sul bordo della finestra, al chiaro di luna, scrivendo lettere e suonando la sua chitarra elettrica. Una splendida rivisitazione della Audrey Hepburn di “Moon River”. Molto gradevole anche l’elegante poliedricità che Corsetti regala al padre di Ofelia, Polonio ( il gentlemen Pietro Faiella) raffinato anche nei panni di giardiniere, che a tratti ricorda il candore di Chance in “Oltre il giardino”. Felice poi l’idea di rendere la complessità psicologica di Gertrude (l’interprete è Sara Putignano) attingendo anche ad una sensualissima Jessica Rabbit. Fausto Cabra (Amleto) brilla per naturalezza e filosofica inquietudine.

Fausto Cabra (Amleto)

Il disegno luci di Camilla Piccioni è così chirurgicamente efficace, da ricoprire un vero e proprio ruolo poetico all’interno della narrazione.


Recensione di Sonia Remoli