Recensione dello spettacolo AMLETO di William Shakespeare – regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, dal 15 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Amleto siamo noi.

Amleto è uno di noi: immerso qual è in dinamiche familiari ed esistenziali sempre attuali.

Amleto è un mito moderno: un uomo alla continua ricerca di una ragion d’essere ma soprattutto un uomo dilaniato da una prepotente dualità. 

Il regista Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che, com’è nel destino da sperimentatore del regista Giorgio Barberio Corsetti , trova sviluppo in questo adattamento prendendo le sembianze di una interessantissima “metamorfosi” globale. 

In fieri, in trasformazione, non è solo Amleto ma tutto l’universo in cui è immerso. Ad iniziare dalla leviatanica struttura multiscenica (così cara al teatro shakespeariano) rappresentante il castello-prigione di Elsinor (le scene sono firmate da Massimo Troncanetti). Complice una schiera di macchinisti che entrano ed escono dalla scena, come in un’elegante coreografia, armonicamente declinata sulla poetica della narrazione.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Parlano di intrinseche dualità i pannelli che scendono a “tagliare” l’apparente verità, rivelando ciò che in essa si cela.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che metamorficamente si moltiplica in una frammentazione, nella scena del duello finale tra Amleto e Laerte. Davvero molto suggestiva: acuta intuizione quella di Corsetti di far scendere sulla scena pannelli specchianti che moltiplicano, scomponendoli in una miriade di immagini, i due contendenti. Intuizione che ricorda archetipicamente la scena del labirinto di specchi de “La signora di Shangai” di Orson Welles.

Il M° Massimo Sigillò Massara

Incentrate sulla dualità classico-contemporanea sono le originalissime architetture musicali composte dal Maestro Massimo Sigillò Massara. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Ad un interessante “in bilico” sono sapientemente sottoposte anche alcune prove attoriali: davvero stimolante la resa di alcuni passi della narrazione dove la decisa inclinazione dei piani costringe gli interpreti a trovare sempre nuovi equilibri fisici. E metafisici. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Perché ciò che conta, conclude l’ “Amleto” di Corsetti non è stabilire nettamente se “essere o non essere” quanto piuttosto “essere presenti a tutto”. E a tutti: perché l’immortalità dei mortali si dà nell’essere ricordati. E nell’avere, quindi, la preziosa opportunità che qualcuno desideri essere il “testimone” della nostra esistenza. Come Amleto lo è stato per il re, suo padre, e Orazio lo sarà per il carissimo amico Amleto. 

Gli applausi ieri sera alla prima dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Gli attori danno una splendida prova della “fluidità” in cui sono chiamati a muoversi. Non ultima quella tra l’essere “attori” e l’essere “spettatori”.

Particolarmente accattivante la rivisitazione che Corsetti fa di alcuni personaggi: un’ Ofelia poeticamente rock (interpretata con profonda leggiadria da Mimosa Campironi) che, anziché ‘evadere’ intrecciando ghirlande di fiori, preferisce ascoltare musica correndo sul tapis roulant, oppure sedersi sul bordo della finestra, al chiaro di luna, scrivendo lettere e suonando la sua chitarra elettrica. Una splendida rivisitazione della Audrey Hepburn di “Moon River”. Molto gradevole anche l’elegante poliedricità che Corsetti regala al padre di Ofelia, Polonio ( il gentlemen Pietro Faiella) raffinato anche nei panni di giardiniere, che a tratti ricorda il candore di Chance in “Oltre il giardino”. Felice poi l’idea di rendere la complessità psicologica di Gertrude (l’interprete è Sara Putignano) attingendo anche ad una sensualissima Jessica Rabbit. Fausto Cabra (Amleto) brilla per naturalezza e filosofica inquietudine.

Fausto Cabra (Amleto)

Il disegno luci di Camilla Piccioni è così chirurgicamente efficace, da ricoprire un vero e proprio ruolo poetico all’interno della narrazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL MERCANTE DI VENEZIA di William Shakespeare – regia e adattamento di Paolo Valerio

TEATRO QUIRINO, dall’ 1 al 6 novembre 2022 –

Nell’affascinante e cosmopolita Venezia del Cinquecento tutto può coesistere. Per sua stessa natura è città di terra e insieme di mare; è politicamente gestita da un governo misto (Doge, Senato, Gran Consiglio); è porta d’Oriente e insieme potenza d’Occidente; è disseminata da chiese cattoliche eppure è anche protestante; è conservatrice ma anche tollerante.

Paolo Valerio, il regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”

È su questo fertile palcoscenico della vita che Shakespeare manda in scena Il mercante di Venezia e che il regista Paolo Valerio sceglie di rappresentare per sottolinearne il diverso effetto sull’uomo del tempo.

Scenograficamente il sipario si apre su un’imponente struttura muraria: aperta ma insieme esclusiva (le scene sono di Marta Crisolini Malatesta). Dal 1516, infatti, la Serenissima decide di raccogliere tutti gli ebrei stabilitisi a Venezia in un’isola nella parrocchia di San Girolamo, a Cannaregio: luogo facilmente isolabile dal resto della città. E anche lo Shylock di Paolo Valerio esce da un luogo aperto ma separato dalla zona del proscenio, dove si muovono gli altri personaggi, veneziani.

Piergiorgio Fasolo è Antonio: il mercante di Venezia di questo adattamento

Antonio, ad esempio: mercante e uomo della Venezia del Cinquecento, “fotografato” nel suo essere consapevolmente impotente di fronte alla maledettamente affascinante precarietà della vita. Il suo capitale economico poggia sull’acqua, quindi sul più instabile dei sostegni, così come il suo “investimento” d’amore è tutto ed esclusivamente puntato su un uomo, Bassanio. Questi, oscillando non meno dell’acqua del mare, lo ricambia ma insieme lo coinvolge nell’aiutarlo a conquistare la donna di cui si è innamorato: Porzia. Bassanio ha bisogno di soldi per raggiungere la sua amata; soldi di cui Antonio non dispone sul momento ma che, pur di soddisfare il desiderio ondivago di Bassanio, non indugia a chiedere in prestito, venendo a patti addirittura con il peggiore dei suoi nemici: l’ebreo usuraio Shylock.

La scena cult de “Il mercante di Venezia”

Quest’ultimo, invece, poco incline alle oscillazioni della vita, ne approfitta per saldare la sua vendetta personale e culturale in maniera tragicamente definitiva: se per qualche motivo i soldi prestati non fossero restituiti, in cambio lui avrà diritto ad una libbra della carne di Antonio, tagliata laddove meglio Shylock crederà. E sarà proprio quell’instabilità legata al mare che farà affondare le navi di Antonio, cosicché lui si troverà davvero nella situazione di cedere, per amore e insieme in ottemperanza al capriccioso contratto dell’usuraio Shylock, una libbra della sua carne.

Senonché a salvarlo sarà proprio l’arguzia della sua “rivale in amore” Porzia, l’altro amore di Bassanio, che darà prova a Shylock di come anche la stabilità di un contratto può diventare ondivaga, instabile. L’usuraio farà un passo indietro, mosso dalla ricerca di un ultimo residuo di stabilità. Ma sarà ancora una scelta sbagliata, perché l’effervescente e mutevole vita della Venezia del Cinquecento, e non solo, predilige uomini inclini a “sbilanciarsi”, a perdere l’equilibrio pur di arrivare ad assaporare davvero il fuggevole sapore della vita. La bilancia di Shylock diventa allora il simbolo dell’impossibilità di rincorrere il “giusto” peso delle scelte. Concetto declinato molto suggestivamente nei contributi musicali di Antonio di Pofi, celebre e raffinatissimo compositore.

Franco Branciaroli, lo Scylock di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”

Lo Shylock di Paolo Valerio è un mirabile Franco Branciaroli che si cala nel ruolo facendosi guidare dalla meraviglia per questo essere umano, anche quando sprofonda nelle scelte più perverse. Lo spettatore può così odiare fino al ribrezzo il personaggio ma anche coglierne l’umana ostinazione, dettata da una potentemente fragile insicurezza. Fino ad arrivare a non vergognarsi nel momento in cui scopre di immedesimarvisi. Almeno un po’. 

Franco Branciaroli ha la fortuna di avvalersi della complice professionalità degli attori in scena: tutti efficacissimi.

Come in una palingenesi dei fini, arguto risulta il “nuovo” finale immaginato dal regista Paolo Valerio per questo adattamento de “Il mercante di Venezia”.

Molto persuasivo il modo di rendere la compresenza delle scene; acutissima la scelta di utilizzare i proiettori come oggetti di scena; poeticamente suggestiva la scena finale dell’attesa del ritorno a Bellamonte.

Un particolare omaggio poi ai costumi femminili, che rendono, anche visivamente, l’idea del ruolo “speciale” che la donna del Cinquecento aveva solo a Venezia (i costumi sono di Stefano Nicolao).


Qui l’intervista Paolo Valerio, regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LOVE’S KAMIKAZE – di Mario Moretti – regia Claudio Boccaccini –

TEATRO INDIA, 29 -30 ottobre 2022 –

Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli. 


“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.

Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,

Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti

di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.

Claudio Boccaccini

Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.

Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.

Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.

A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza. 

Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.

I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).

Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.

Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.

E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.


Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA VITA DAVANTI A SE’

TEATRO QUIRINO, Dal 18 al 30 Ottobre 2022 –

A pochi minuti dall’inizio dello spettacolo, la voce di Silvio Orlando si diffonde in sala: si scusa di essere molto raffreddato e conclude, con il suo caratteristico mélange di emozioni: “ad ogni modo, il teatro è bello anche quando l’attore muore in scena !”. Aggiunge poi un’ironica analisi dello spettatore che durante la rappresentazione non riesce a staccarsi dal proprio smartphone: dice di comprendere questa subdola simbiosi e per venire incontro a tale “ineluttabilità”, ri-inizierà daccapo lo spettacolo ogni volta che vedrà illuminarsi uno schermo.

In verità, il suo, non è solo un sagace avviso al pubblico ma un vero e proprio “prologo” allo spettacolo. Ma questo lo si capisce solo dopo, alla fine. Quando la tenera narrazione affamata d’amore del sessantacinquenne Silvio Orlando, credibilissimo nella pelle di un bambino di dieci anni, ci suggerirà che non deve esistere imbarazzo verso nessuno stato di diversità o verso ogni sensazione di incompletezza. E che di fronte alle difficoltà, non bisogna arrendersi mai, mettendo in campo tutta la nostra creatività ma soprattutto sfoderando “la carne viva del cuore”.

Il sipario si apre su un quartiere della periferia parigina: tra lirici fili di lucine si erge il palazzo, dove al sesto piano Momò (il bambino protagonista) è accolto nell’asilo-parcheggio di Madame Rosa. Poetica la scelta scenografica di rendere il palazzo dell’audace quartiere multietnico di Belleville come una torre a sei blocchi, alludendo al più classico dei giochi per bambini (le scene sono di Roberto Crea). Una torre sgangherata che solo l’abbraccio incondizionato di Madame Rosa riesce a tenere in un qualche equilibrio. Nella “piazzetta” circostante suona un’orchestrina (l’Ensemble dell’orchestra Terra Mare diretta da Simone Campa): preziosa presenza elegiaca e squisito sostegno emozionale. Una situazione che sarebbe interessare ambientare anche in uno spazio esterno.

Un testo, quello del romanzo “La vie devant soi” di Romain Gary, che Silvio Orlando sceglie di adattare dopo esserci “inciampato” nel 2017 in occasione di una lettura e che poi non si è più tolto dalla pelle. Sarà perché il romanzo è una storia di relazioni, di affetti, di solidarietà, di reciproca cura fra persone sole ed emarginate ma dotate di grande umanità.

Sarà perché è una storia che ci parla dell’importanza degli altri, senza i quali è impossibile vivere: una storia che ci invita ad osservare con cuore aperto le persone che ci stanno intorno per andare incontro ai loro bisogni. Sarà perché Momò non sa nulla di sé, non conosce le proprie origini se non attraverso le reazioni degli altri e la fantomatica “vita davanti a sé” si rivela essere, per lui, più una minaccia che una promessa.

Sta di fatto che Silvio Orlando dichiara che sebbene il mondo si sia inaridito e nessuno sappia più cosa ci fa stare bene e qual è la maniera giusta per comunicare le nostre idee, questo testo ha contribuito a spingerlo ad essere e a sentirsi un essere umano migliore.

Complice il suo particolare mélange di ironia, autoironia e sincerità, la “connessione” con il pubblico è stata fortissima.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LO SCRITTOIO DI PIRANDELLO – regia Roberto Gandini

TEATRO INDIA

dal 13 al 22 Ottobre 2022

Tutto nasce dal caos. Tutto è un continuo flusso in divenire. Come quello del mare che “fino ai piedi vieni con un sommesso fragorío a stendermi le spume, mansueto. Come un mercante di merletti… Bravo! Uno ne stendi, e tosto lo ritrai, ed ecco un altro, e un altro ancora… Scempio fai cosí della tua grandezza, ignavo?” (Guardando il mare, dalla raccolta “Fuori di chiave”, 1905 ). Così prende avvio il multiforme spettacolo scritto (assieme a Roberto Scarpetti), pensato e diretto dall’estroso Roberto Gandini per la Piccola Compagnia del Laboratorio Integrato Piero Gabrielli, in scena al Teatro India fino al 22 ottobre p.v.

Immensi teli bianchi cangiano nel blu oltremare, accolgono il vento gonfiandosi e poi sinuosamente ondeggiano. Portano a riva il rumoreggiare di voci di misteriose creature: “Dove siamo? Che facciamo? Che imbarazzo! Quando arriva?” . L’onda s’infrange, si ritira; ed ecco scendere dal fondo della platea queste creature gettate sulla sabbia dalla furia del mare della vita. Ad accoglierle sul palco, modellato dalle onde in “terrazzamenti”, Pirandello e Fantasia. Sono quattro creature immerse ancora nel caos, anche fuori dall’acqua: litigano per prendere parte all’apertura dell’udienza domenicale, che Pirandello è solito concedere ai suoi “speciosissimi” personaggi nel suo studio.

Invadono così la scena, costituita da “terrazzamenti” praticabili che ospitano un palcoscenico multiplo, dove convivono più scene contemporaneamente. Un teatro che parla agli occhi e non solo alle orecchie (le scene sono del noto “ricercatore di combinazioni” Paolo Ferrari). Un teatro che permette il trasformarsi del mondo sul palcoscenico. E fuori da esso: Gandini, seguendo Pirandello, interpreta ‘visivamente’ sulla scena ciò che i testi letterari suscitano. E poi abolisce il concetto di quarta parete, coinvolgendo attivamente il pubblico alla vita agita dagli attori sulla scena, in una critica dinamica “a specchio”. E’ quello che si richiede alla neo-nata figura del “regista”.

L’austera ed efficace eleganza dei costumi è di Tiziano Juno, che sottolinea con le sue scelte anche l’elogio del tailleur da donna, che vede il suo nascere e diffondersi proprio in quegli anni. Gli attori danno prova che è possibile brillare di luce propria per fondersi in un “unicum” sinfonico di gesti, di parole e di intenso ascolto.

Roberto Baldassarri

Roberto Baldassarri è un Luigi Pirandello (molto attento anche alle posture dell’uomo Pirandello) che con elegante accoglienza include costruttivamente il pubblico nella rievocazione della vita sulla scena, andando oltre le emicranie provocategli da quell’eccesso di vitalità dei personaggi non ancora colti nella loro unicità e non ancora coordinati “registicamente”. È un Pirandello quello di Gandini che non esclude momenti di fragilità, come quando il proprio vissuto rischia di specchiarsi in quello della Figliastra dei Sei Personaggi in cerca d’autore.

Fabio Piperno

Fragilità brillantemente superata grazie al contributo del suo sagace “aiuto regista”, Fantasia, abitato dal cruccio di non potersi scegliere il proprio nome: destino che accomuna tutti i personaggi ma anche tutti gli esseri umani. Fabio Piperno si rivela dando prova di elegante duttilità anche come “alter ego” dell’autore Pirandello. Tra le due “maschere”, potente è l’ascolto.

Stesso cruccio sul nome ha il Dottor Fileno de La tragedia di un personaggio, il più ambizioso dei personaggi presenti all’udienza, insoddisfatto dell’ascolto ricevuto dal precedente autore che non ne ha saputo valorizzare la grandezza. L’ambizione del personaggio è poeticamente superata dalla splendida meraviglia che trabocca dallo sguardo dell’interprete (Edoardo Maria Lombardo) e dalla particolare metrica, incalzata da efficacissime micro pause.

Edoardo Maria Lombardo

Vitali pause, o meglio sarebbe dire “vitali evasioni uditive”, ha inaspettatamente scoperto di vivere il Ragionier Belluca de Il treno ha fischiato, impossibilitato a gestire diversamente l’opprimente e dolorosa esistenza quotidiana. Tanto alienante nella quotidianità quanto creativamente liberatoria all’udir l’allucinazione del fischio del treno. Dell’interprete (Danilo Turnaturi )non si può non apprezzare l’ottima espressività corporea, fatta di piccolissimi ma efficacissimi dettagli.

Danilo Turnaturi

Incontenibile e quindi non facilmente arginabile è anche il desiderio vitale, fatto di sospiri e spasmi, della Sig.ra Perella de L’uomo, la bestia e la virtù (reso con efficacia “acrobatica” da Francesca Astrei) che, laddove non riesce a trovare un contenimento nei gesti, al minimo solletico emotivo, sbuca fuori con veemenza in un potentissimo gorgoglio vocale, quasi un grammelot, dove la parola corre “molto molto” più velocemente del pensiero. Interessante registicamente anche la sua prossemica.

Francesca Astrei

Simile difficoltà trova Pirandello nel concedere uno “spazio di rispetto” alla storia, dai risvolti incestuosi, della Figliastra dei Sei personaggi in cerca d’autore, qui interpretata da Antonietta Bello, la cui inespressa voglia di tenerezza viene, in un’interessante analisi del personaggio, celata con notevolissimo fascino, in un’alterigia felina. Sempre suggerita. Mai sfacciata.

Antonietta Bello

Ma proprio quando il caos iniziale sembra prendere una forma, un qualche ordine, è lo stesso Pirandello a seminare dubbi. Anche tra il pubblico. E così, come si fa con i mandala, arriva il momento di dare spazio al nuovo, al mutevole ed incessante fluire.

I personaggi, come surfisti attendono l’onda in arrivo, per un attimo la cavalcano e poi si fondono ad essa. I teli blu oltremare tornano a gonfiarsi e ad inglobare tutto ciò che incontrano. È la straziante bellezza del mistero della vita.

Il regista Roberto Gandini e il suo gruppo di lavoro al completo


Il vero scrittoio di Pirandello

è visitabile presso la dimora romana di Pirandello in via Antonio Bosio, 13 B.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RESURREXIT CASSANDRA di Ruggero Cappuccio – ideazione, regia, scenografia, film di Jan Fabre

TEATRO VASCELLO, Dal 4 al 9 Ottobre 2022 –

Quanta urgenza abbiamo che “risorga” una Cassandra che ci pre-dica scenari che a breve potrebbero inghiottirci? Ne abbiamo un’ardente urgenza, a giudicare dal rapito coinvolgimento del pubblico, ieri sera al Teatro Vascello. Un pubblico calamitato dalla multiforme seduzione di questa profetessa-messia, dalla quale non riusciva a staccarsi e che ripetutamente richiamava al suo cospetto.

Jan Fabre

Il destino che lega a doppio filo “i sordi” di ieri e quelli di oggi, evocato con elegante ferocia dalla Cassandra dell’anarchico adepto dell’arte Jan Fabre, fa sì che la supplice veggente venga finalmente ascoltata e creduta. Il testo di Ruggero Cappuccio, frutto di una sinergia di linguaggi multidisciplinari, è di una bellezza dilaniante.

Ruggero Cappuccio

L’interpretazione di Sonia Bergamasco, così penetrantemente sofferta nella semi-immobilità fisica sulla scena e per contro ossessivamente inquieta nella proiezione, è di sacra potenza. Una Cassandra che fa suo non solo il potere magico della parola ma anche quello di gesti simbolici (quali le mudra) e soprattutto quello della persuasività della musica, che struscia, sibila e schiocca sia nella rapsodia narrata che in quella cantata.

Sonia Bergamasco

Come i serpenti di cui si circonda, questa Cassandra sa cambiare pelle (habitus) e quindi trasformarsi per risorgere, risvegliando la divina energia kundalini. Come i serpenti, possiede un forte legame con la vita stessa: emerge dalle profondità della madre terra e vive in armonia con ogni sua vibrazione energetica. Simbolo della conoscenza che dall’oscurità emerge verso la luce e che nella poesia “trattenuta” e volutamente mai totalmente libera di Jan Fabre assume la sagoma di un cerchio di luce.

Sonia Bergamasco

Pieno e vuoto. Uno spazio circolare, la cui tracciatura costituisce una forma di protezione dalle energie negative. Uno spazio di ciclicità e di continuità, dal quale la Cassandra di Fabre esce ed entra con la grazia e l’alterigia di una regina. E nell’uscirne non esclude che sempre con eleganza, ma questa volta primitiva, si abbassi fino a stendersi per tornare ad aderire alla Terra e alle sue vibrazioni, solleticanti trasformazioni.

Sonia Bergamasco

Qui, a terra, la bagna una luce che esce dal basso, dalla terra stessa, misteriosa ed inquietante, dove lei si immerge come in un ancestrale fonte battesimale. E poi canta, con la straziante e meravigliosa bellezza di chi è “destinata a godere solo il canto della disgrazia” .

Sonia Bergamasco

E prega, come chi ha bisogno di credere che ci sia qualcuno che ascolti la sua invocazione, il suo grido: la natura torna sempre a reclamare i suoi diritti. Rispettatela. Onoratela. “Avete distrutto quello che nessuna guerra è riuscita a distruggere…sono stanca di risorgere ma se mi ascolterete, se vi andrà di salvarvi…”.

Sonia Bergamasco

Sonia Bergamasco possiede quella metrica interiore, quella particolare capacità del corpo a vibrare, che ha a che fare con il suo essere, oltre che attrice, anche musicista e poetessa. E in quanto tale sa riconoscere alla musicalità sensualità e insieme rigore. Proprio così, ieri sera, ha conquistato l’intera platea del Teatro Vascello

Sonia Bergamasco

Mi piace ricordare che Sonia Bergamasco sostiene l’organizzazione Medici Senza Frontiere. Nel 2017 ha visitato tre ospedali di MSF in Giordania e ha prestato servizio a sostegno dei profughi siriani.

Sonia Bergamasco e Medici Senza Frontiere


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ADDIO FANTASMI dal romanzo di Nadia Terranova – di Fanny & Alexander –

TEATRO INDIA, 18 Settembre 2022 –

Cosa significa crescere e andare avanti imparando a superare il dolore, le delusioni, le frustrazioni? Significa saper scegliere cosa tenere e cosa buttare, scoprendo di che cosa si può fare a meno. Facendo spazio al nuovo che vuole avanzare e che se non riesce ad espandersi, si inabissa senza fine. Questo, uno dei temi che la scrittrice Nadia Terranova esplora nel suo libro “Addio fantasmi” (finalista del Premio Strega 2019), a cui si è ispirato l’omonimo spettacolo della pluripremiata bottega d’arte  Fanny & Alexander.


Luigi De Angelis, che ne ha curato l’ideazione (assieme a Chiara Lagani) e poi anche la regia, le scene e il disegno luci, è riuscito ad evocare l’essenza del testo originale (la drammaturgia è ancora di Chiara Lagani) declinandola attraverso quel particolare linguaggio di ricerca interdisciplinare che gli è proprio. Ha preso vita, così, un sonoro intarsio di piani narrativi di sublime bellezza onirica.

Luigi De Angelis
Chiara Lagani

Nello spettacolo, forte è la centralità dell’attore: pochi, gli oggetti in scena; mirata, l’estetica dei suoni. Perché il teatro è anche il tentativo di dar corpo all’insostenibile leggerezza di “fantasmi”, portando in scena “ombre” da affrontare a viso aperto. Un teatro d’ “invasione” oltre che d’evasione.

Anna Bonaiuto e Valentina Cervi

È dal buio, che il regista De Angelis fa emergere le protagoniste: Ida (una profonda Valentina Cervi, garbatamente violenta) e sua madre (l’altera e carismatica Anna Bonaiuto). Una presenza, la loro, rivelata esclusivamente da inquietanti tagli di luce laterali, essendo “affondate” in quell’assente perimetro nebbioso che le abita. Un perimetro non solo spaziale ma anche temporale,  perché chi scompare (il padre di Ida) ridisegna sia  lo spazio che il tempo di chi resta: “se la morte è un punto fermo, la scomparsa è un’assenza di punto”. Tanto che Ida è convinta, avendo avuto così tanta paura che il padre morisse, che gli dei l’abbiano punita esaudendo il suo desiderio.

Non a caso il regista De Angelis per dar vita a questo perimetro nebbioso sceglie di posizionare quasi tutti i proiettori del disegno luci dietro il fitto panneggio di tende che ricoprono le pareti della scena. Perché è la luce che crea lo spazio e questo vuole essere uno spazio  disperatamente paludoso, subdolamente rassicurante, senza identità, senza appartenenza. Spazio che il regista lascia (apparentemente) vuoto solo perché troppo pieno di passato, di ricordi, di rimpianti, di rimorsi. Accatastati l’uno sull’altro.

Un debordante materiale inconscio seducentemente accarezzato o violentemente schiaffeggiato da quella presenza “ventosa” così ingombrante, qual è il padre di Ida. Quel padre che ancora ci si ostina a “nutrire” . È Ida quella che vive più “sospesa”, in un eterno limbo, con i piedi poco aderenti al suolo, come la sua postura rannicchiata sulla poltroncina ci rivela. Una parte di lei è ancora ferma a quei tredici anni, quando ancora credeva di poter “pattinare” sulla vita, specchiandosi negli occhi di suo padre.

Un tempo “bloccato”, come quello segnato dalla pendola senza orologio posizionata nel corridoio e che qui in scena è al contrario solo un’ossessiva presenza sonora. In una continua trasparenza tra sogno e realtà, tra dentro e fuori, tra passato e presente si dipanano e si incastrano le diverse narrazioni dei personaggi:

i discorsi diretti e quelli indiretti; i pensieri solo pensati e le parole dichiarate. In una trascinante confusione emotiva, saltano argini e confini.

“Non sei tua madre”, “Non sei come tua madre”, le ricorda Pietro, suo marito. Il “tre” originario (padre, madre e figlia) ha sempre faticato a conservarsi, scivolando a precipizio in una diade ossessiva ora tra figlia e padre; ora tra figlia e madre; ora tra figlia e casa; ora tra madre e padre. Ma la catabasi di Ida, la sua discesa negli inferi della casa di Messina la porterà a scoprire che può accettare di alleggerire il peso che le grava l’anima: imparando a scegliere cosa tenere e cosa lasciare. E affrontare così una nuova anabasi, cioè una risalita, questa volta “tutta sua”, verso la vita con Pietro a Roma.

Lorenzo Mattotti, Vietnam2

Con una leggerezza nuova, “calviniana” , diversa da quella che provava quando, all’uscita di scuola, suo padre le sfilava la cartella dalle spalle per sostenerla lui, con le sue di spalle. E a lei sembrava che le spuntassero le ali. Perché ora le ali, finalmente, saprà lei come farsele spuntare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL MALE DEI RICCI – un’idea di Fabrizio Gifuni

TEATRO ARGENTINA, 10 Settembre 2022 –

Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.

Fabrizio Gifuni

Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.   

Pier Paolo Pasolini

Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli”  per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.

Pier Paolo Pasolini

L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il  rimpianto di Pasolini si è sempre  rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.

Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena. 

Fabrizio Gifuni

Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.

E “allumando” tutta la scena.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FUGGI LA TERRA E L’ONDE – di e con Lino Guanciale –

TEATRO INDIA, 8 Settembre 2022 –

Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.

Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare,  come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.

Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.

E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.

E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.

E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.

Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.

“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.

Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MACBETH di William Shakespeare – regia traduzione e adattamento di Daniele Salvo-

GIGI PROIETTI GLOBE THEATRE, dal 2 al 25 Settembre 2022 –

Com’è irresistibilmente umano lasciarsi divorare da un’insaziabile fame d’infinito!

E sperimentare l’ingovernabilità del brivido della vita, così come del brivido della morte!

Cosa arriviamo a fare quando l’ “immaginario” rapisce l’animo umano a scapito del “visibile”?

Quanta crudeltà piacevolmente sopraffina proviamo nell’essere attizzati verso un desiderio (umanamente) irraggiungibile?

Su questi enigmi sembra invitarci a riflettere la regia, ferocemente elegante, del “Macbeth” di Daniele Salvo, in scena ieri sera al Gigi Proietti Globe Theatre.

Daniele Salvo

Un regista, Daniele Salvo, capace di coniugare una ‘maniacale’ attenzione filologica sulla scrittura e un rigoroso sguardo sulla foniatria dello strumento vocale ad una interessante apertura verso orizzonti visionariamente umani. È, il suo, un “portare in salvo dal freddo le parole”, per dirla con il poeta Francesco Scarabicchi.

Ma soprattutto è un regista che persegue una sua verità interpretativa – sicuramente con il concorso di tutti i mezzi espressivi a sua disposizione (musica, luci, scene, costumi) – ma “in primis” chiedendo all’attore di compromettersi emotivamente. In quest’ottica, il lavoro sul linguaggio diventa un lavoro al servizio dell’emotività, verso un recupero del rapporto originario significante-significato. 

John Singer Sargent, Ellen Terry as Lady Macbeth 1889

Nello specifico, a far risaltare la centralità del linguaggio/vocalità/emozione, la scelta di avere una scena (curata da Fabiana Di Marco) fin dall’inizio quasi totalmente vuota ma che sa come animarsi: pochi ma efficacissimi oggetti entrano ed escono “a vista”; piccole botole evaporano presenze esoteriche; velatini fissi e mobili regalano forti suggestioni.

Suggestione che diventa pura bellezza quando i velatini vengono utilizzati e “accesi” incisivamente (la cura del disegno luci è di Umile Vainieri) a coronamento di scene, vere e proprie opere d’arte pittoriche. Mi riferisco alla scena del banchetto d’accoglienza al re Duncan (splendida rivisitazione dell’ “Ultima cena” di Leonardo da Vinci) e alla scena della morte dello stesso re (drammatica variazione del “Cristo morto” del Mantegna).

Melania Giglio è Lady Macbeth

Potenti e persuasivamente eleganti i costumi di Daniele Gelsi: dai velluti al latex, dalle pelli ai dettagli in pelliccia, alla magnificenza dei mantelli da “haute couture”. Di sublime efficacia il contributo musicale del versatile ed eclettico M° Marco Podda, compositore e medico foniatra.

Graziano Piazza (Macbeth) e Melania Giglio (Lady Macbeth)

Calibratissima la presenza di ogni attore sulla scena: dagli “a parte”, alle scene corali.

Brilla di una luce particolare il dilaniato Macbeth di Graziano Piazza e ancor più la sua Lady M, ovvero la ferina e conturbante Melania Giglio: famelica di esuberanti ed invasati riempimenti.

Melania Giglio è Lady Macbeth

Molto interessante l’adattamento di Daniele Salvo: fedele nell’esaltare le commistioni contrastanti (“ciò che è bello è brutto e ciò che è brutto è bello”) insite nel microcosmo umano e nel macrocosmo metafisico sacro ed esoterico (così vivo anche nel rinascimento elisabettiano) e

Alessandra Roccasalva, Marcus Gheeraerts the Younger, Queen Elizabeth I

decisamente originale nell’individuare un’ancestrale potenza del linguaggio erotico, che parte dalle “fatidiche sorelle”, passa attraverso i due coniugi, per arrivare fino al portiere del castello. Un alfabeto capace di far coesistere l’orizzontalità con la verticalità; il sacro e la profanazione; la vita con la morte.

Una sorta di preistoria della coscienza dove cielo e terra, acqua e fuoco, bene e male, non sono ancora nettamente separati. Un inconscio privato e collettivo dove, per dirla con Sigmund Freud, “l’Io non è padrone in casa propria” e ci parla della realtà che atteggiamenti apparentemente ascrivibili a casi di eccezionalità, appartengono in verità a quella fame d’infinito che ci abita e che fatichiamo a gestire.


Recensione di Sonia Remoli