Pupo di zucchero

TEATRO ARGENTINA, dal 18 al 30 ottobre 2022 –

Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?

È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.

Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?

Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?

Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).

Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.

Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.

Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.

Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.

Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”. 

Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.

Il filo di mezzogiorno

TEATRO ARGENTINA, dal 26 Maggio al 5 Giugno 2022 –

Come si sopravvive ad una caduta? Si può “discernere nel cadere”?

Vibrante e pura, Donatella Finocchiaro veste i panni di una Goliarda Sapienza passionale e onirica, vestita da notte e di notte. Sbuca di nascosto da una quinta, ci viene a cercare, ci prende per mano e come in una ripresa in soggettiva ci apre il teatro della sua mente: allucinato e insieme crudelmente lucido. Così, spudoratamente: come le regole della buona dizione esigono di fare, per pronunciare correttamente quelle maledette “e” aperte. Che ti scardinano la mascella. E non solo.

Con il desiderio impellente di raggomitolarsi vicino a noi della platea, come era solita fare con la madre, nel letto. Lei, però, senza guardarla. E ci avverte che la conditio sine qua non per sopravvivere lì, nel suo teatro mentale, è accettare il caos, dove tutto vive e coesiste nello stesso luogo. Dove i vivi e i morti stanno insieme. Adattando la vista alla foschia che avvolge tutto. Nel disperato tentativo di riallacciarsi alle proprie radici, che l’avviluppano ma insieme la sostengono; che l’aggrovigliano ma anche la nutrono. Ma soprattutto affermando e confermando la propria estraneità ad ogni pregiudizio morale. 

Al termine di questo notturno prologo, Iuzza (vezzeggiativo usato dalla famiglia al posto di Goliarda) entra nel sipario e ci conduce nella stanza della sua casa, dove l’analista (un fragile e immenso Roberto De Francesco) si reca tutti i giorni all’ora di mezzogiorno. Lui, quello che si ostina a chiamarla “Signora” e che ha cercato di organizzare il suo caos dentro categorie assolute, cercando di imporle la sua personale verità. Scoprendo poi nel corso del setting di essere anche lui, però, un paziente bisognoso.

Da qui l’idea registica di Mario Martone, resa con efficacia scenografica da Carmine Guarino, di immaginare uno stanza “a specchio”: rendendo così anche scenograficamente una particolare dinamica relazionale tra paziente e terapeuta (e più in generale umana). Avendo difficoltà a vedere le nostre ombre e persino le nostre virtù, la vita ci regala relazioni. L’altra persona ci fa da specchio, riflettendo la nostra immagine e dandoci la possibilità di ritrovare noi stessi. Da questo meccanismo non è immune neanche il terapeuta.

Come nella vicenda di Goliarda Sapienza, i problemi personali del terapeuta spesso approdano nel suo studio, vestiti dei panni dei propri pazienti. Condizione umanissima, che il regista sceglie di sottolineare senza giudicare, riconoscendogli tutta la dignità che merita. Non a caso, infatti, attraverso l’elegante adattamento di Ippolita di Majo, il registra Mario Martone costruisce una narrazione nella quale ripercorre la terapia con Ignazio Majore, rinomato freudiano dell’epoca, ma lo fa mettendo in scena uno sguardo che, grazie alla sovrapposizione della scrittura di Goliarda Sapienza, va via via rischiarandosi e insieme infoscandosi.

E lo specchio s’infrange: ne sentiamo il rumore; ne vediamo gli effetti. Perché così è la vita: coerenza-repellente. Martone, sulla scia del più profondo sentire della Sapienza, fa di questo spettacolo un inno all’incoerenza, così indissolubilmente legata alla natura umana. La sua è una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi (che a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”).

Terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: uno problematizza l’altro, uno analizza l’altro. Da questa esperienza selvaggia, Goliarda Sapienza raccoglie i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Citto Maselli, il compagno che l’aveva indirizzata nelle mani di Majore, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere.

Ferita ma furiosamente viva, intuisce che ora la sua terapia funzionale e salvifica, è la scrittura. Capace di restituirle una libertà, che non esclude le trappole dell’umano, dolorosamente necessarie. Così, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee ma soprattutto del diritto alla morte. E così, scendendo in platea, per farsi prossemicamente più vicina a noi, ci invita a “pensare”, prima ancora di “dirlo” (cioè di ridurlo nelle convenzioni del linguaggio) che muore solo chi ha vissuto.