La dodicesima notte (o Quel che volete)

TEATRO OLIMPICO, dal 25 al 30 Ottobre 2022 –

Ieri sera, per la prima de “La dodicesima notte (o “Quel che volete”) di William Shakespeare, il palco del Teatro Olimpico si è travestito, o meglio, ha preso le sembianze di quello del Globe Theatre. La regista Loredana Scaramella, storica collaboratrice del maestro Gigi Proietti, salita sul palco prima dell’inizio dello spettacolo per suggellare l’emozione del riavvio della programmazione della stagione del Globe presso il Teatro Olimpico, ha realizzato un adattamento del testo shakespeariano intorno al tema centrale del “tempo”.

Loredana Scaramella

Un enorme orologio (le scene sono di Fabiana Di Marco) campeggia appeso al piano superiore della scenografia e si riflette sul palco attraverso la disposizione circolare di dodici sedie, che ospitano gli attori. Tutti, sempre presenti in scena. L’orologio-macrocosmo, appeso in alto, si carica esteticamente “a batteria” (al suo interno ospita il batterista e la sua strumentazione) ma metaforicamente “a carica”, nel senso che è al personaggio di Feste, il Matto, ad essere delegato il movimento di carica e pausa della messa in scena, attraverso la sola lancetta delle ore (come nei primi orologi meccanici del Rinascimento).

Carlo Ragone

Nella ripresa del neoplatonismo, così in voga ai tempi di Shakespeare, l’uomo, ricollocato al centro dell’Universo, è artefice del suo destino (homo faber ipsius fortunae) e può controllare e governare le cose del Mondo. Così anche il Tempo.  Sul palco-microcosmo sono gli stessi attori a occupare da protagonisti le sedie-meccanismo del quadrante delle dodici ore, che danno forma alla dodicesima e ultima giornata dei festeggiamenti (iniziati con il Natale e proseguiti fino all’Epifania). Il periodo festivo per eccellenza, nell’Inghilterra elisabettiana. Non c’è tempo da perdere, quindi ! 

Lo spettacolo si apre all’alba della dodicesima e ultima giornata di festa con un naufragio che si trasmuta oniricamente in una festa sregolata. Coerentemente al “Quel che volete” del titolo dell’opera, viene messa in scena un’onirica contaminazione di materiali e di generi, dando volutamente ospitalità a quelle spinte del desiderio che portano all’allegro coesistere di confusioni e ambiguità. Come in un libero gioco di sentimenti ed azioni. Il tempo della giornata scorre ad un ritmo sempre più accelerato verso una mezzanotte frenetica, che sancisce la fine della festa e l’avverarsi dei desideri.

Ma… “forza e coraggio, che la vita è un passaggio!”. Il carattere dissacratorio e totalmente libero dell’eccezionalità di questo periodo, di questo “spazio temporale curvo”, si è momentaneamente concluso. E il consueto giro delle ore e dei giorni è pronto a ricominciare.

Rinascimentale la scelta di “profanare” i brani musicali (musiche a cura di Adriano Dragotta, canzoni originali di Mimosa Campironi, eseguite dal vivo dal quartetto William Kemp): un mix di brani di classica e punk-rock, eseguiti dall’orchestra ospitata al secondo piano della scenografia e avvolta in un velatino, a rendere ancora più onirica la visione e quindi l’ascolto.

Rockeggianti i fascinosi costumi dei personaggi più altolocati: dalla dark Olivia in total black e capelli rosso fuoco, al Conte Orsino dal torso nudo ornato da imbracature in pelle sadomaso bondage, esaltate dal contrasto con un soprabito gotico-barocco. Molto simile, ma privo di soprabito, il costume di Feste il Matto, un Carlo Ragone che brilla per un “elegantemente folle” uso del corpo.

Geniale l’idea di rendere i due fratelli gemelli Viola e Sebastiano degli avatar in quotidiani abiti pop (tutti i costumi nascono dall’estro di Susanna Proietti).

L’alternanza metrica scelta da Shakespeare, il pentametro giambico (sciolto o rimato) misto a prosa è riproposta qui ma con un’originalità che vira al musical. Il risultato è decisamente efficace. Complice un disegno luci raffinatamente psicadelico (il light designer è Umile Vainieri). Tutti i meccanismi dell’ “orologio attoriale” risultano ben sincronizzati, sia nei tempi reali che in quelli onirici, contribuendo efficacemente alla realizzazione di uno spettacolo di fantasmagorica bellezza.

Pupo di zucchero

TEATRO ARGENTINA, dal 18 al 30 ottobre 2022 –

Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?

È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.

Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?

Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?

Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).

Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.

Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.

Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.

Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.

Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”. 

Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.

La signorina Giulia

TEATRO VASCELLO, Dall’ 11 al 16 Ottobre 2022 –

Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?

Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più fretto­losamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresen­tarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.

Leonardo Lidi

August Strindberg

Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore. 

All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.

Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che sol­tanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.

Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.

Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.

——-

Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico del Ginesio Fest.

Resurrexit Cassandra

TEATRO VASCELLO, Dal 4 al 9 Ottobre 2022 –

Quanta urgenza abbiamo che “risorga” una Cassandra che ci pre-dica scenari che a breve potrebbero inghiottirci? Ne abbiamo un’ardente urgenza, a giudicare dal rapito coinvolgimento del pubblico, ieri sera al Teatro Vascello. Un pubblico calamitato dalla multiforme seduzione di questa profetessa-messia, dalla quale non riusciva a staccarsi e che ripetutamente richiamava al suo cospetto.

Jan Fabre

Il destino che lega a doppio filo “i sordi” di ieri e quelli di oggi, evocato con elegante ferocia dalla Cassandra dell’anarchico adepto dell’arte Jan Fabre, fa sì che la supplice veggente venga finalmente ascoltata e creduta. Il testo di Ruggero Cappuccio, frutto di una sinergia di linguaggi multidisciplinari, è di una bellezza dilaniante.

Ruggero Cappuccio

L’interpretazione di Sonia Bergamasco, così penetrantemente sofferta nella semi-immobilità fisica sulla scena e per contro ossessivamente inquieta nella proiezione, è di sacra potenza. Una Cassandra che fa suo non solo il potere magico della parola ma anche quello di gesti simbolici (quali le mudra) e soprattutto quello della persuasività della musica, che struscia, sibila e schiocca sia nella rapsodia narrata che in quella cantata.

Come i serpenti di cui si circonda, questa Cassandra sa cambiare pelle (habitus) e quindi trasformarsi per risorgere, risvegliando la divina energia kundalini. Come i serpenti, possiede un forte legame con la vita stessa: emerge dalle profondità della madre terra e vive in armonia con ogni sua vibrazione energetica. Simbolo della conoscenza che dall’oscurità emerge verso la luce e che nella poesia “trattenuta” e volutamente mai totalmente libera di Jan Fabre assume la sagoma di un cerchio di luce.

Pieno e vuoto. Uno spazio circolare, la cui tracciatura costituisce una forma di protezione dalle energie negative. Uno spazio di ciclicità e di continuità, dal quale la Cassandra di Fabre esce ed entra con la grazia e l’alterigia di una regina. E nell’uscirne non esclude che sempre con eleganza, ma questa volta primitiva, si abbassi fino a stendersi per tornare ad aderire alla Terra e alle sue vibrazioni, solleticanti trasformazioni.

Qui, a terra, la bagna una luce che esce dal basso, dalla terra stessa, misteriosa ed inquietante, dove lei si immerge come in un ancestrale fonte battesimale. E poi canta, con la straziante e meravigliosa bellezza di chi è “destinata a godere solo il canto della disgrazia” .

E prega, come chi ha bisogno di credere che ci sia qualcuno che ascolti la sua invocazione, il suo grido: la natura torna sempre a reclamare i suoi diritti. Rispettatela. Onoratela. “Avete distrutto quello che nessuna guerra è riuscita a distruggere…sono stanca di risorgere ma se mi ascolterete, se vi andrà di salvarvi…”.

Sonia Bergamasco possiede quella metrica interiore, quella particolare capacità del corpo a vibrare, che ha a che fare con il suo essere, oltre che attrice, anche musicista e poetessa. E in quanto tale sa riconoscere alla musicalità sensualità e insieme rigore. Proprio così, ieri sera, ha conquistato l’intera platea del Teatro Vascello

Mi piace ricordare che Sonia Bergamasco sostiene l’organizzazione Medici Senza Frontiere. Nel 2017 ha visitato tre ospedali di MSF in Giordania e ha prestato servizio a sostegno dei profughi siriani.

Sottobanco

TEATRO GOLDEN, dal 21 Settembre al 2 Ottobre 2022 –

“Quanto gli metti a Cardini?” – ovvero: come si riconosce un talento? E come si valorizza?

In questo spettacolo il regista Claudio Boccaccini, con lo stile che lo contraddistingue e che fa della luce uno speciale contrappunto alla narrazione, sceglie di parlarci delle condizioni in cui versa la scuola. Non solo quella degli anni ’90, descritta nel romanzo di Domenico Starnone “Sottobanco” (1992), a cui lo spettacolo si ispira.

Al netto dei problemi di gestione, la scuola allora come oggi continua ad essere attraversata da una divisione che ne evidenzia due anime: quella che si affida alle valutazioni quantitative, che tendono ad uniformare gli studenti ad uno standard (Foucault la chiamava la “scuola dispositivo”) e quella attenta alla scoperta e alla valorizzazione delle preziose differenze che identificano ciascun studente (la scuola, invocata, ad esempio, dal coro dei bambini nel video “The Wall” dei Pink Floyd).

Qui, nello spettacolo, la sagacia porta Boccaccini a costruire una trama narrativa sotterranea, affiorante attraverso la particolare interpretazione attoriale, dove ad essere pizzicate con tatto sono le corde del riso assieme a quelle della riflessione: amara, a volte, ma anche costruttiva e quindi propositiva. Nello specifico, Boccaccini mette in scena la cosiddetta “scuola dispositivo” affidando ad un irreprensibile “in totem” Paolo Perinelli la poetica ipocrisia del Preside; ad una maledettamente affascinante Silvia Brogi la frustrazione della Prof. Mortillaro; ad un intrigante e viscido Riccardo Bàrbera l’opportunismo del Prof. Cirrotta ; all’irresistibile risata di Marina Vitolo, l’invidia della Prof. Alinovi; e ad un avvincentemente inavvicinabile Enoch Marrella, la religiosa falsità del Prof. Mattozzi . L’anima scolastica, invece, più sensibilmente aperta alla valorizzazione delle diversità degli studenti è affidata all’interpretazione di una strepitosa Gaia De Laurentiis (l’effervescente Prof. Baccalauro) e all’appassionata persuasività di Felice Della Corte, l’attento Prof.Cozzolino per il quale non c’è studente che non abbia qualche qualità.

Al di là delle fragilità umane degli stessi professori, ciò che il regista Boccaccini riesce a far serpeggiare con acume, e qui il teatro diventa strumento sociale e politico di irrinunciabile valore, è l’idea di una scuola dove “infilare un errore dietro l’altro significa essere creativi”. Una scuola, quindi, dove poter apprendere a desiderare: condizione base per permettere a ciascun allievo di scoprire il proprio talento. Soprattutto in questo particolare periodo storico, dove si assiste ad un’eclissi della spinta a desiderare tra le nuove generazioni, accendere il desiderio, e quindi la vita, diventa essenziale.

Perché, come non si stanca di ribadire il Prof. Cozzolino, uno studente come Cardini, caratterizzato da una serie di difficoltà legate alla ricerca della propria identità, non può essere valutato con lo stesso criterio con cui si valuta, ad esempio, l’impeccabile allieva Solofra Sonia. C’è un fascino misterioso insito nell’insegnamento così come c’è una richiesta di essere affascinati nell’apprendimento: “Non abbiamo saputo prendere Cardini dal verso giusto” riconoscerà l’accurata Prof. Baccalauro.

La scuola, così come i libri, sono luoghi dell’apertura, della pluralità dei linguaggi, dell’osmosi. Per enfatizzare questo messaggio, il Teatro Golden, attraverso un’iniziativa davvero preziosa, ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Libri in via di estinzione. Salvali grazie a Sottobanco”. Per tutto il periodo della messa in scena dello spettacolo (ovvero fino al 2 ottobre p.v.) ci si potrà scambiare con il proprio vicino di poltrona un libro, per scongiurarne estinzione.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007

La potenza di un libro può incrinare la rigidità e l’asfissia creata da atteggiamenti di separazione e di discriminazione. Il desiderio ha bisogno di libertà per esprimersi. Ce lo ricorda anche l’installazione “El Castillo” di Jorge Mendez Blake (2007) la quale, basandosi sulla convinzione che la scrittura è di per sé una costruzione e la lettura una forma di creazione, trasforma l’astrazione letteraria in spazio, dando così una dimensione fisica all’azione del leggere. Un muro può cadere, quindi, perché irrimediabilmente minato alla base dalla forza delle parole e dai valori di convivenza civile, che la Letteratura e il Teatro non smettono di metterci a disposizione ogni giorno.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007 (dettaglio)

Addio fantasmi

TEATRO INDIA, 18 Settembre 2022 –

Cosa significa crescere e andare avanti imparando a superare il dolore, le delusioni, le frustrazioni? Significa saper scegliere cosa tenere e cosa buttare, scoprendo di che cosa si può fare a meno. Facendo spazio al nuovo che vuole avanzare e che se non riesce ad espandersi, si inabissa senza fine. Questo, uno dei temi che la scrittrice Nadia Terranova esplora nel suo libro “Addio fantasmi” (finalista del Premio Strega 2019), a cui si è ispirato l’omonimo spettacolo della pluripremiata bottega d’arte  Fanny & Alexander.


Luigi De Angelis, che ne ha curato l’ideazione (assieme a Chiara Lagani) e poi anche la regia, le scene e il disegno luci, è riuscito ad evocare l’essenza del testo originale (la drammaturgia è ancora di Chiara Lagani) declinandola attraverso quel particolare linguaggio di ricerca interdisciplinare che gli è proprio. Ha preso vita, così, un sonoro intarsio di piani narrativi di sublime bellezza onirica.

Luigi De Angelis
Chiara Lagani

Nello spettacolo, forte è la centralità dell’attore: pochi, gli oggetti in scena; mirata, l’estetica dei suoni. Perché il teatro è anche il tentativo di dar corpo all’insostenibile leggerezza di “fantasmi”, portando in scena “ombre” da affrontare a viso aperto. Un teatro d’ “invasione” oltre che d’evasione.

Anna Bonaiuto e Valentina Cervi

È dal buio, che il regista De Angelis fa emergere le protagoniste: Ida (una profonda Valentina Cervi, garbatamente violenta) e sua madre (l’altera e carismatica Anna Bonaiuto). Una presenza, la loro, rivelata esclusivamente da inquietanti tagli di luce laterali, essendo “affondate” in quell’assente perimetro nebbioso che le abita. Un perimetro non solo spaziale ma anche temporale,  perché chi scompare (il padre di Ida) ridisegna sia  lo spazio che il tempo di chi resta: “se la morte è un punto fermo, la scomparsa è un’assenza di punto”. Tanto che Ida è convinta, avendo avuto così tanta paura che il padre morisse, che gli dei l’abbiano punita esaudendo il suo desiderio.

Non a caso il regista De Angelis per dar vita a questo perimetro nebbioso sceglie di posizionare quasi tutti i proiettori del disegno luci dietro il fitto panneggio di tende che ricoprono le pareti della scena. Perché è la luce che crea lo spazio e questo vuole essere uno spazio  disperatamente paludoso, subdolamente rassicurante, senza identità, senza appartenenza. Spazio che il regista lascia (apparentemente) vuoto solo perché troppo pieno di passato, di ricordi, di rimpianti, di rimorsi. Accatastati l’uno sull’altro.

Un debordante materiale inconscio seducentemente accarezzato o violentemente schiaffeggiato da quella presenza “ventosa” così ingombrante, qual è il padre di Ida. Quel padre che ancora ci si ostina a “nutrire” . È Ida quella che vive più “sospesa”, in un eterno limbo, con i piedi poco aderenti al suolo, come la sua postura rannicchiata sulla poltroncina ci rivela. Una parte di lei è ancora ferma a quei tredici anni, quando ancora credeva di poter “pattinare” sulla vita, specchiandosi negli occhi di suo padre.

Un tempo “bloccato”, come quello segnato dalla pendola senza orologio posizionata nel corridoio e che qui in scena è al contrario solo un’ossessiva presenza sonora. In una continua trasparenza tra sogno e realtà, tra dentro e fuori, tra passato e presente si dipanano e si incastrano le diverse narrazioni dei personaggi:

i discorsi diretti e quelli indiretti; i pensieri solo pensati e le parole dichiarate. In una trascinante confusione emotiva, saltano argini e confini.

“Non sei tua madre”, “Non sei come tua madre”, le ricorda Pietro, suo marito. Il “tre” originario (padre, madre e figlia) ha sempre faticato a conservarsi, scivolando a precipizio in una diade ossessiva ora tra figlia e padre; ora tra figlia e madre; ora tra figlia e casa; ora tra madre e padre. Ma la catabasi di Ida, la sua discesa negli inferi della casa di Messina la porterà a scoprire che può accettare di alleggerire il peso che le grava l’anima: imparando a scegliere cosa tenere e cosa lasciare. E affrontare così una nuova anabasi, cioè una risalita, questa volta “tutta sua”, verso la vita con Pietro a Roma.

Lorenzo Mattotti, Vietnam2

Con una leggerezza nuova, “calviniana” , diversa da quella che provava quando, all’uscita di scuola, suo padre le sfilava la cartella dalle spalle per sostenerla lui, con le sue di spalle. E a lei sembrava che le spuntassero le ali. Perché ora le ali, finalmente, saprà lei come farsele spuntare.

Fuggi la terra e l’onde

TEATRO INDIA, 8 Settembre 2022 –

Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.

Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare,  come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.

Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.

E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.

E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.

E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.

Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.

“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.

Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.

Macbeth

GIGI PROIETTI GLOBE THEATRE, dal 2 al 25 Settembre 2022 –

Com’è irresistibilmente umano lasciarsi divorare da un’insaziabile fame d’infinito? E sperimentare l’ingovernabilità del brivido della vita, così come del brivido della morte? Cosa arriviamo a fare quando l’ “immaginario” rapisce l’animo umano a scapito del “visibile”? Quanta crudeltà piacevolmente sopraffina proviamo nell’essere attizzati verso un desiderio (umanamente) irraggiungibile? Su questi enigmi sembra invitarci a riflettere la regia, ferocemente elegante, del “Macbeth” di Daniele Salvo, in scena ieri sera al Gigi Proietti Globe Theatre.

Un regista, Daniele Salvo, capace di coniugare una ‘maniacale’ attenzione filologica sulla scrittura e un rigoroso sguardo sulla foniatria dello strumento vocale ad una interessante apertura verso orizzonti visionariamente umani. È, il suo, un “portare in salvo dal freddo le parole”, per dirla con il poeta Francesco Scarabicchi.

Ma soprattutto è un regista che persegue una sua verità interpretativa, sicuramente con il concorso di tutti i mezzi espressivi a sua disposizione (musica, luci, scene, costumi) ma “in primis” chiedendo all’attore di compromettersi emotivamente. In quest’ottica, il lavoro sul linguaggio diventa un lavoro al servizio dell’emotività, verso un recupero del rapporto originario significante-significato. 

John Singer Sargent, Ellen Terry as Lady Macbeth 1889

Nello specifico, a far risaltare la centralità del linguaggio/vocalità/emozione, la scelta di avere una scena (curata da Fabiana Di Marco) fin dall’inizio quasi totalmente vuota ma che sa come animarsi: pochi ma efficacissimi oggetti entrano ed escono “a vista”; piccole botole evaporano presenze esoteriche; velatini fissi e mobili regalano forti suggestioni.

Suggestione che diventa pura bellezza quando i velatini vengono utilizzati e “accesi” incisivamente (la cura del disegno luci è di Umile Vainieri) a coronamento di scene, vere e proprie opere d’arte pittoriche. Mi riferisco alla scena del banchetto d’accoglienza al re Duncan (splendida rivisitazione dell’ “Ultima cena” di Leonardo da Vinci) e alla scena della morte dello stesso re (drammatica variazione del “Cristo morto” del Mantegna).

Potenti e persuasivamente eleganti i costumi di Daniele Gelsi: dai velluti al latex, dalle pelli ai dettagli in pelliccia, alla magnificenza dei mantelli da “haute couture”. Di sublime efficacia il contributo musicale del versatile ed eclettico M° Marco Podda, compositore e medico foniatra.

Calibratissima la presenza di ogni attore sulla scena: dagli “a parte”, alle scene corali. Brilla di una luce particolare il dilaniato Macbeth di Graziano Piazza e ancor più la sua Lady M, ovvero la ferina e conturbante Melania Giglio: famelica di esuberanti ed invasati riempimenti.

Molto interessante l’adattamento di Daniele Salvo: fedele nell’esaltare le commistioni contrastanti (“ciò che è bello è brutto e ciò che è brutto è bello”) insite nel microcosmo umano e nel macrocosmo metafisico sacro ed esoterico (così vivo anche nel rinascimento elisabettiano);

Alessandra Roccasalva, Marcus Gheeraerts the Younger, Queen Elizabeth I

originale, nell’individuare un’ancestrale potenza del linguaggio erotico, che parte dalle “fatidiche sorelle”, passa attraverso i due coniugi, per arrivare fino al portiere del castello. Un alfabeto capace di far coesistere l’orizzontalità con la verticalità; il sacro e la profanazione; la vita con la morte.

Una sorta di preistoria della coscienza dove cielo e terra, acqua e fuoco, bene e male, non sono ancora nettamente separati. Un inconscio privato e collettivo dove, per dirla con Sigmund Freud, “l’Io non è padrone in casa propria” e ci parla della realtà che atteggiamenti apparentemente ascrivibili a casi di eccezionalità, appartengono in verità a quella fame d’infinito che ci abita e che fatichiamo a gestire.