Negli accoglienti spazi del Teatro Marconi, ieri sera ci si è ritrovati per l’apertura della nuova stagione teatrale. Nel loro bistrot si è soliti colmare l’attesa dell’inizio dello spettacolo parlando di nuove e vecchie tendenze teatrali, fino a che non viene fatta sala e si scende in teatro.
In scena sei giovani attori volano con il ritmo e trascinano la platea con inesauribile energia.
Mettono in scena le assurde e strampalate vicende di una compagnia teatrale che durante l’allestimento del proprio spettacolo si trova ad assistere alla morte improvvisa del regista. Proprio lì, sulla scena. Ma in realtà il regista non li lascerà mai, restando tra loro in veste di fantasma-investigatore. E ne scoprirà delle belle !
Lo spettacolo è scritto (assieme a Mattia Marcucci) e diretto da Chiara Bonome, che è anche in scena come attrice.
Il loro è un recitare fatto di stop and go, di non-sense e di presenze che sono tali solo per gli spettatori (e non per gli attori). La tradizionale percezione dello spazio scenico lascia il passo quindi ad un interagire che non assomiglia a quello che avviene nella vita reale. Ne deriva uno spiazzamento esilarante, montato dentro un susseguirsi di situazioni cariche di ironia.
Nell’affascinante e cosmopolita Venezia del Cinquecento tutto può coesistere. Per sua stessa natura è città di terra e insieme di mare; è politicamente gestita da un governo misto (Doge, Senato, Gran Consiglio); è porta d’Oriente e insieme potenza d’Occidente; è disseminata da chiese cattoliche eppure è anche protestante; è conservatrice ma anche tollerante.
Paolo Valerio, il regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”
Scenograficamente il sipario si apre su un’imponente struttura muraria: aperta ma insieme esclusiva (le scene sono di Marta Crisolini Malatesta). Dal 1516, infatti, la Serenissima decide di raccogliere tutti gli ebrei stabilitisi a Venezia in un’isola nella parrocchia di San Girolamo, a Cannaregio: luogo facilmente isolabile dal resto della città. E anche lo Shylock di Paolo Valerio esce da un luogo aperto ma separato dalla zona del proscenio, dove si muovono gli altri personaggi, veneziani.
Piergiorgio Fasolo è Antonio: il mercante di Venezia di questo adattamento
Antonio, ad esempio: mercante e uomo della Venezia del Cinquecento, “fotografato” nel suo essere consapevolmente impotente di fronte alla maledettamente affascinante precarietà della vita. Il suo capitale economico poggia sull’acqua, quindi sul più instabile dei sostegni, così come il suo “investimento” d’amore è tutto ed esclusivamente puntato su un uomo, Bassanio. Questi, oscillando non meno dell’acqua del mare, lo ricambia ma insieme lo coinvolge nell’aiutarlo a conquistare la donna di cui si è innamorato: Porzia. Bassanio ha bisogno di soldi per raggiungere la sua amata; soldi di cui Antonio non dispone sul momento ma che, pur di soddisfare il desiderio ondivago di Bassanio, non indugia a chiedere in prestito, venendo a patti addirittura con il peggiore dei suoi nemici: l’ebreo usuraio Shylock.
La scena cult de “Il mercante di Venezia”
Quest’ultimo, invece, poco incline alle oscillazioni della vita, ne approfitta per saldare la sua vendetta personale e culturale in maniera tragicamente definitiva: se per qualche motivo i soldi prestati non fossero restituiti, in cambio lui avrà diritto ad una libbra della carne di Antonio, tagliata laddove meglio Shylock crederà. E sarà proprio quell’instabilità legata al mare che farà affondare le navi di Antonio, cosicché lui si troverà davvero nella situazione di cedere, per amore e insieme in ottemperanza al capriccioso contratto dell’usuraio Shylock, una libbra della sua carne.
Senonché a salvarlo sarà proprio l’arguzia della sua “rivale in amore” Porzia, l’altro amore di Bassanio, che darà prova a Shylock di come anche la stabilità di un contratto può diventare ondivaga, instabile. L’usuraio farà un passo indietro, mosso dalla ricerca di un ultimo residuo di stabilità. Ma sarà ancora una scelta sbagliata, perché l’effervescente e mutevole vita della Venezia del Cinquecento, e non solo, predilige uomini inclini a “sbilanciarsi”, a perdere l’equilibrio pur di arrivare ad assaporare davvero il fuggevole sapore della vita. La bilancia di Shylock diventa allora il simbolo dell’impossibilità di rincorrere il “giusto” peso delle scelte. Concetto declinato molto suggestivamente nei contributi musicali di Antonio di Pofi, celebre e raffinatissimo compositore.
Franco Branciaroli, lo Scylock di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”
Lo Shylock di Paolo Valerio è un mirabile Franco Branciaroli che si cala nel ruolo facendosi guidare dalla meraviglia per questo essere umano, anche quando sprofonda nelle scelte più perverse. Lo spettatore può così odiare fino al ribrezzo il personaggio ma anche coglierne l’umana ostinazione, dettata da una potentemente fragile insicurezza. Fino ad arrivare a non vergognarsi nel momento in cui scopre di immedesimarvisi. Almeno un po’.
Franco Branciaroli ha la fortuna di avvalersi della complice professionalità degli attori in scena: tutti efficacissimi.
Come in una palingenesi dei fini, arguto risulta il “nuovo” finale immaginato dal regista Paolo Valerio per questo adattamento de “Il mercante di Venezia”.
Molto persuasivo il modo di rendere la compresenza delle scene; acutissima la scelta di utilizzare i proiettori come oggetti di scena; poeticamente suggestiva la scena finale dell’attesa del ritorno a Bellamonte.
Un particolare omaggio poi ai costumi femminili, che rendono, anche visivamente, l’idea del ruolo “speciale” che la donna del Cinquecento aveva solo a Venezia (i costumi sono di Stefano Nicolao).
Qui l’intervista Paolo Valerio, regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”
Il sipario si apre su un’originalissima scenografia bidimensionale, dal tratto fumettistico. È impeccabilmente bianca e dai contorni molto ben definiti da un deciso tratto nero. Cifra dello stile di Elisabetta Mancini si sta confermando essere quello di prediligere scene che parlino di particolari luoghi della mente.
Nello specifico, qui, la Mancini ci sta conducendo nella bidimensionalità dei personaggi che sono sul punto di entrare in scena: individui “senza spessore”, senz’anima. Sterilmente rispettosi delle regole: quei bordi così “neri” delle convenzioni sociali. La sindrome del “finto rispetto altrui” si è talmente diffusa, da creare “metastasi” anche negli oggetti di scena: anch’essi privati della tridimensionalità.
Questa gabbia perbenista ospita personaggi che, seguendo i dettami della “moda” del momento, vestono totalmente in giallo: il colore del “veleno” di cui sono carichi. Geniale l’ambiguità che si crea, ad un certo punto, all’udire una sorta di scampanellio: sacro rituale di richiamo della “Squilla” o istintiva sonorità di difesa dei serpenti a sonagli?
Ma ecco che “…sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi…”: registicamente la Mancini decide di far uscire queste rispettosissime serpi dalle loro gabbie per farle insinuare tra i corridoi della platea. Facendoci annusare l’odore della tragedia dello squallore borghese. “Sono intorno a me ma non parlano con me, sono come me ma si sentono meglio” .
È la Vigilia di Natale e sembrano così uniti nell’andare alla Santa Messa di Mezzanotte!!! La loro velenosa “pelle” gialla ricoperta devotamente da quei bei capi-spalla rossi ! Ma lo spettatore non può non riconoscere che l’unico momento in cui li scopre davvero uniti, contemporaneamente tutti sintonizzati nello stesso intento, è in realtà quando proprio durante il pranzo di Natale “la dea” televisione, alla quale loro sono soliti rivolgersi quasi fosse l’oracolo di Delfi, emana la soluzione alle loro preoccupazioni.
Sono così devotamente attenti al “responso” che, in quest’unico momento di empatia collettiva, si cercano con lo sguardo. Indossano tutti, per onorare la sacralità della festività, un accessorio blu oltremare. Per andare “oltre”: “niente scrupoli o rispetto verso i propri simili, perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili”.
E pensare che a guardarli, cromaticamente ricordano così tanto un bel cielo stellato vangoghiano…
Gli attori dell’Associazione “L’equilibrio” hanno dato prova di una buona coralità. Su tutti brilla per spontaneità e naturalezza il giovanissimo Oliviero Chimenti.
Creativi realizzatori dell’estroso progetto scenico sono i due interpreti Giuliano Morelli e Tina Oliveri.
Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli.
“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.
Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,
Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti
di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.
Claudio Boccaccini
Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.
Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.
Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.
A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza.
Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.
I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).
Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.
Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.
E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”
“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.
Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.
Ieri sera, per la prima de “La dodicesima notte (o “Quel che volete”) di William Shakespeare, il palco del Teatro Olimpico si è travestito, o meglio, ha preso le sembianze di quello del Globe Theatre. La regista Loredana Scaramella, storica collaboratrice del maestro Gigi Proietti, salita sul palco prima dell’inizio dello spettacolo per suggellare l’emozione del riavvio della programmazione della stagione del Globe presso il Teatro Olimpico, ha realizzato un adattamento del testo shakespeariano intorno al tema centrale del “tempo”.
Loredana Scaramella
Un enorme orologio (le scene sono di Fabiana Di Marco) campeggia appeso al piano superiore della scenografia e si riflette sul palco attraverso la disposizione circolare di dodici sedie, che ospitano gli attori. Tutti, sempre presenti in scena. L’orologio-macrocosmo, appeso in alto, si carica esteticamente “a batteria” (al suo interno ospita il batterista e la sua strumentazione) ma metaforicamente “a carica”, nel senso che è al personaggio di Feste, il Matto, ad essere delegato il movimento di carica e pausa della messa in scena, attraverso la sola lancetta delle ore (come nei primi orologi meccanici del Rinascimento).
Carlo Ragone
Nella ripresa del neoplatonismo, così in voga ai tempi di Shakespeare, l’uomo, ricollocato al centro dell’Universo, è artefice del suo destino (homo faber ipsius fortunae) e può controllare e governare le cose del Mondo. Così anche il Tempo. Sul palco-microcosmo sono gli stessi attori a occupare da protagonisti le sedie-meccanismo del quadrante delle dodici ore, che danno forma alla dodicesima e ultima giornata dei festeggiamenti (iniziati con il Natale e proseguiti fino all’Epifania). Il periodo festivo per eccellenza, nell’Inghilterra elisabettiana. Non c’è tempo da perdere, quindi !
Lo spettacolo si apre all’alba della dodicesima e ultima giornata di festa con un naufragio che si trasmuta oniricamente in una festa sregolata. Coerentemente al “Quel che volete” del titolo dell’opera, viene messa in scena un’onirica contaminazione di materiali e di generi, dando volutamente ospitalità a quelle spinte del desiderio che portano all’allegro coesistere di confusioni e ambiguità. Come in un libero gioco di sentimenti ed azioni. Il tempo della giornata scorre ad un ritmo sempre più accelerato verso una mezzanotte frenetica, che sancisce la fine della festa e l’avverarsi dei desideri.
Ma… “forza e coraggio, che la vita è un passaggio!”. Il carattere dissacratorio e totalmente libero dell’eccezionalità di questo periodo, di questo “spazio temporale curvo”, si è momentaneamente concluso. E il consueto giro delle ore e dei giorni è pronto a ricominciare.
Rinascimentale la scelta di “profanare” i brani musicali (musiche a cura di Adriano Dragotta, canzoni originali di Mimosa Campironi, eseguite dal vivo dal quartetto William Kemp): un mix di brani di classica e punk-rock, eseguiti dall’orchestra ospitata al secondo piano della scenografia e avvolta in un velatino, a rendere ancora più onirica la visione e quindi l’ascolto.
Rockeggianti i fascinosi costumi dei personaggi più altolocati: dalla dark Olivia in total black e capelli rosso fuoco, al Conte Orsino dal torso nudo ornato da imbracature in pelle sadomaso bondage, esaltate dal contrasto con un soprabito gotico-barocco. Molto simile, ma privo di soprabito, il costume di Feste il Matto, un Carlo Ragone che brilla per un “elegantemente folle” uso del corpo.
Geniale l’idea di rendere i due fratelli gemelli Viola e Sebastiano degli avatar in quotidiani abiti pop (tutti i costumi nascono dall’estro di Susanna Proietti).
L’alternanza metrica scelta da Shakespeare, il pentametro giambico (sciolto o rimato) misto a prosa è riproposta qui ma con un’originalità che vira al musical. Il risultato è decisamente efficace. Complice un disegno luci raffinatamente psicadelico (il light designer è Umile Vainieri). Tutti i meccanismi dell’ “orologio attoriale” risultano ben sincronizzati, sia nei tempi reali che in quelli onirici, contribuendo efficacemente alla realizzazione di uno spettacolo di fantasmagorica bellezza.
Arriva con la pioggia: lei stessa si fa pioggia. Una melodia al pianoforte ne riproduce il ritmo e il peso. La vediamo scendere dietro una finestra illuminata e poi entrare in sala, catturata dal mistero di una tela bianca. La fissa, poi prende in mano il pennello. E, liberando le emozioni che la invadono, le traduce in canto: sarà la voce a guidare la mano, dal tratto davvero molto interessante.
Rosanna Fedele interpreta una Frida Kalho (i testi infuocati dello spettacolo sono tratti dal libro di Pino Cacucci “Viva la vida!“) quotidiana nella sua eccezionalità, vestita in tuta sportiva, a sottolineare ancor più che “Siamo tutte Frida”. Può capitare a chiunque di vivere un amore che è “un lento avvelenamento” e tardare ad allontanarsene, perché è insieme “arsura e pioggia”. E poi disprezzarsi per come ci si è lasciate martoriare.
Attraverso un uso ammaliantemente icastico della voce, che Rosanna Fedele modula in simbiotico accordo al corpo e allo sguardo, la sua Frida inizia a confidarci il primo incontro con la morte, efficacemente riprodotta dall’inventiva di Alessandro Baronio. Accetta di “danzare” con lei quel giorno dell’incidente in autobus: ne esce in brandelli e il suo corpo risulta “un rompicapo per chirurghi senza fretta”. Le dicono che non si sarebbe più alzata da quel letto. E invece lei riprende a camminare.
Ma non fu un miracolo: solo un diverso passo di danza con la Morte che, poco dopo, riprendendo lei a guidare la danza, le sottrae tutti e quattro i figli. Un dolore immenso, il più grande. Ora, rivivendolo, cerca di incanalarne la potenza dilaniante nel disegnarne i loro quattro ritratti. Immaginandoli, non avendoli mai conosciuti. Ma non è sufficiente: il dolore sfugge agli argini. E allora li canta (i testi delle canzoni sono di Rosanna Fedele, musicati da Paolo Bernardi).
Ritorna poi al suo Diego, al loro primo incontro mentre lui dipinge “eterni murales” e lei gli propone di visionare “senza inutili complimenti” i suoi dipinti. Ma qualcosa torna ad eccedere in Rosanna/Frida: un dolce e straziante ricordo la spinge a lasciare un segno dell’amore che la pervade sul murales di scena. Ma è inutile: è troppo invadente e lei non oppone più resistenza.
Si lega allora a lui, anche fisicamente grazie al guizzo registico di Andrés Rafael Zabala, e si fonde al mascherone di Diego Rivera, creato per l’occasione sempre da Alessandro Baronio. L’elefante e la colomba: così scrivono i giornali il giorno successivo al loro matrimonio. Ma lei non ha dubbi: è la sua personale rivoluzione. È la sua ossessione: “Diego nelle mie urine; nella punta della matita; nell’immaginazione; nella malattia…”. Un legame che “stringe” fino alla lacrime: “io ho avuto tutto, malgrado me”. Torna a rifugiarsi nel canto ma la sua è ora una preghiera, un’invocazione disperata: “ma che diritto ho io di volerti diverso!”. La stanchezza la invade: non sente più la forza di attaccarsi alla vita come una sanguisuga. Si scioglie. In pioggia.
Uno spettacolo incantevole in un luogo incantevole: per non dimenticare Frida Kahlo. Per non dimenticare le donne.
Lo spettacolo è fruibile anche sulla piattaforma a pagamento CHILI TV
I PROTAGONISTI
Rosanna Fedele
Una vita all’insegna dell’eclettismo. Disegnatrice, stilista, pittrice, cantante e attrice. Si dedica con successo al doppiaggio e alla recitazione. E’ protagonista di diversi cortometraggi e pubblicità e nel 2015 è protagonista del film “A Dark Rome” di A. R. Zabala che ottiene riconoscimenti e premi a livello internazionale (MFF di New York, Marbella International Film Festival per citarne alcuni). L’amore per la musica e il canto restano una costante sin dall’infanzia. Il trasporto, in gioventù, per i film “musicali” si tramuta in passione per il jazz. Nel 2010 si dedica alla realizzazione del suo primo album “What is it For?”, titolo del brano originale contenuto nel disco distribuito dalla Philology Records per la Revelation Series. Il desiderio di espressione personale si fa sempre più forte. “Sogni Diversi”, un album in uscita a dicembre 2015, in collaborazione con il Paolo Bernardi Quartet, è il risultato di questo percorso nel quale la cantautrice mette in musica i propri sentimenti, dove le sonorità jazz sono di sostegno alla complessità e alla bellezza della lingua italiana: un omaggio alle proprie radici, alla propria terra.
Il pianista Paolo Bernardi
Nato a Roma, ha compiuto studi musicali classici, diplomandosi in pianoforte presso il conservatorio “Respighi” di Latina; successivamente, ha affrontato lo studio della musica jazz sotto la guida di validi maestri, quali Cinzia Gizzi, Riccardo Biseo, Rita Marcotulli e della composizione con Luigi Verdi, Alfredo Santoloci e Javier Girotto. Si diploma in Musica Jazz e successivamente consegue la laurea di II livello in Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, sotto la guida del M. Paolo Damiani col massimo dei voti e la lode. Ha, all’attivo, numerose registrazioni pubblicate da DODICILUNE, PHILOLOGY, ISMA RECORDS,SINFONICA JAZZ–NUOVA CARISH,SIFARE,collana L’ESPRESSOREPUBBLICA con un progetto di Massimo Nunzi. Nel 2008 nasce il PAOLO BERNARDI QUARTET. Con tale formazione si esibisce in prestigiosi locali romani e in rassegne nazionali significative, ottenendo un consistente riscontro positivo di critica. Laureato, con lode, presso l’università “La Sapienza” di Roma in Lettere moderne con indirizzo musicale, è giornalista pubblicista freelance.
Lo scenografo Alessandro Baronio
Alessandro Baronio, artista romano, umanista, animalista, sognatore, emozionato, “viaggiatore di sogni deragliati”, Alessandro Baronio è stato scenografo teatrale e ha lavorato per Xfactor, per Elisa nel suo tour, per Marco Mengoni, Nina Zilli, Anna Oxa, Angela Finocchiaro solo per citarne alcuni. E’ designer, ceramista, fotografo, restauratore e si occupa, tra le altre cose, di laboratori didattici con materiali di recupero per ragazzi delle scuole. Attento alla forma, attento al valore artistico del progetto cerca di coniugare sempre qualità e sostenibilità.
Il regista Andrés Rafael Zabala
Andrés Rafael Zabala, nato in Argentina e cresciuto fra l’Austria e l’Italia, è laureato in Cinema e Tv e diplomato operatore di ripresa. Nella sua carriera ha curato la regia di spot pubblicitari, video aziendali, documentari,e reality show per Canale 5, RAI 2, Studio Universal, Tele+ e Sky. In qualità di filmmaker, ha all’attivo nove cortometraggi che si sono aggiudicati importanti riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio indipendente “A Dark Rome”, oltre ad essere stato selezionato in dieci festival nazionali e internazionali, ha vinto il premio “Best Thriller on 2015” al Macabre Faire Film Festival di New York. Andrés Rafael Zabala svolge da alcuni anni, parallelamente alla sua attività di regista, l’attività di docente di Regia e Cinematografia. Nel 2020 è uscito il suo libro “Registi disobbedienti – La cinematografia di ieri e di oggi oltre le regole”. (Edizioni Efesto – 2020). Dopo la “La prima notte” scritta e diretta da lui stesso, “Siamo tutte Frida” è la sua seconda regia teatrale. L’ultimo lavoro cinematografico “Malleus” sarà presentato a Febbraio 2023 al Festival di Londra.
A pochi minuti dall’inizio dello spettacolo, la voce di Silvio Orlando si diffonde in sala: si scusa di essere molto raffreddato e conclude, con il suo caratteristico mélange di emozioni: “ad ogni modo, il teatro è bello anche quando l’attore muore in scena !”. Aggiunge poi un’ironica analisi dello spettatore che durante la rappresentazione non riesce a staccarsi dal proprio smartphone: dice di comprendere questa subdola simbiosi e per venire incontro a tale “ineluttabilità”, ri-inizierà daccapo lo spettacolo ogni volta che vedrà illuminarsi uno schermo.
In verità, il suo, non è solo un sagace avviso al pubblico ma un vero e proprio “prologo” allo spettacolo. Ma questo lo si capisce solo dopo, alla fine. Quando la tenera narrazione affamata d’amore del sessantacinquenne Silvio Orlando, credibilissimo nella pelle di un bambino di dieci anni, ci suggerirà che non deve esistere imbarazzo verso nessuno stato di diversità o verso ogni sensazione di incompletezza. E che di fronte alle difficoltà, non bisogna arrendersi mai, mettendo in campo tutta la nostra creatività ma soprattutto sfoderando “la carne viva del cuore”.
Il sipario si apre su un quartiere della periferia parigina: tra lirici fili di lucine si erge il palazzo, dove al sesto piano Momò (il bambino protagonista) è accolto nell’asilo-parcheggio di Madame Rosa. Poetica la scelta scenografica di rendere il palazzo dell’audace quartiere multietnico di Belleville come una torre a sei blocchi, alludendo al più classico dei giochi per bambini (le scene sono di Roberto Crea). Una torre sgangherata che solo l’abbraccio incondizionato di Madame Rosa riesce a tenere in un qualche equilibrio. Nella “piazzetta” circostante suona un’orchestrina (l’Ensemble dell’orchestra Terra Mare diretta da Simone Campa): preziosa presenza elegiaca e squisito sostegno emozionale. Una situazione che sarebbe interessare ambientare anche in uno spazio esterno.
Un testo, quello del romanzo “La vie devant soi” di Romain Gary, che Silvio Orlando sceglie di adattare dopo esserci “inciampato” nel 2017 in occasione di una lettura e che poi non si è più tolto dalla pelle. Sarà perché il romanzo è una storia di relazioni, di affetti, di solidarietà, di reciproca cura fra persone sole ed emarginate ma dotate di grande umanità.
Sarà perché è una storia che ci parla dell’importanza degli altri, senza i quali è impossibile vivere: una storia che ci invita ad osservare con cuore aperto le persone che ci stanno intorno per andare incontro ai loro bisogni. Sarà perché Momò non sa nulla di sé, non conosce le proprie origini se non attraverso le reazioni degli altri e la fantomatica “vita davanti a sé” si rivela essere, per lui, più una minaccia che una promessa.
Sta di fatto che Silvio Orlando dichiara che sebbene il mondo si sia inaridito e nessuno sappia più cosa ci fa stare bene e qual è la maniera giusta per comunicare le nostre idee, questo testo ha contribuito a spingerlo ad essere e a sentirsi un essere umano migliore.
Complice il suo particolare mélange di ironia, autoironia e sincerità, la “connessione” con il pubblico è stata fortissima.
Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?
È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.
Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?
Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?
Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).
Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.
Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.
Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.
Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.
Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”.
Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.
Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?
Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più frettolosamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresentarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.
Leonardo Lidi
August Strindberg
Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore.
All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.
Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che soltanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.
Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.
Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.
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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico delGinesio Fest.
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni adattamento Roberto Scarpetti
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
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Un velo ci separa dal penetrare un lussureggiante ecosistema sonoro: un’orchestra di percussioni, fiati e tastiere (dove Gabriele Coen è ai fiati, Ivano Guagnelli alle tastiere e Gianluca Ruggeri alle percussioni). Di qua dal velo, l’intrigante e intricato ecosistema della narrazione, ovvero delle parole degli interpreti (Tania Garribba, Arianna Gaudio, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Francesco Villano e Roberta Zanardo). Sono le emozioni, quelle più ataviche ed ancestrali, l’elettricità che riesce a collegare i due ecosistemi, stabilendo tra loro una sinergia potentemente visionaria. E metamorfosi magiche prendono vita, attraverso apparizioni/sparizioni, trasformazioni e salti da un luogo all’altro/da un tempo all’altro. Un po’ alla maniera di Georges Méliès.
Visionarietà che la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni (con la collaborazione di Roberto Scarpetti per l’adattamento del testo e di Gianluca Ruggeri per la drammaturgia musicale) organizza e districa nella forma inedita della “serialità teatrale”. Traccia cioè per noi, all’interno della conformazione labirintica del tema della “Selva”, un percorso-spettacolo articolato in tre tappe (tre serate) per attraversare ad ogni tappa ciascuno dei tre romanzi che compongono la “Trilogia dell’Area X”.
Prende forma così un insolito ed affascinante spettacolo, tratto dall’omonimo testo di Jeff VanderMeer, nella forma del melologo sci-fi. Si tratta di una composizione artistica dove la recitazione di un testo letterario accompagnata da musica (melologo) è poi inserita nella più ampia forma dello sci-fi, ovvero del cinema di fantascienza (sci-fi è abbreviazione di science fiction). Ieri sera si è esplorata la prima tappa del percorso, attraverso il primo romanzo della trilogia: “Annientamento”.
In scena le stranianti avventure della dodicesima spedizione, incaricata di continuare l’indagine governativa sulla misteriosa Area X. Una spedizione, questa volta, di sole donne: una glottologa (che si ritira subito), un’antropologa, una topografa, una biologa e una psicologa. Una delle condizioni per procedere nell’arruolamento è la disponibilità a perdere il proprio nome: ciò che più ci caratterizza, che ci ancora al nostro “passato” e che quindi rende meno predisposti a subire necessarie “mutazioni”.
Dal campo base, dopo mesi di strenuo addestramento, solo sotto condizionamento ipnotico le donne attraversano “il confine” per riuscire ad entrare nell’ Area X. Qui scoprono che la mappa, che è stata assegnata loro in dotazione, non contempla la presenza di un’insolita “torre”, che affonda nel terreno. Essendo stata contaminata da spore emesse da misteriosi organismi presenti all’interno della torre, la biologa diventata resistente alle suggestioni ipnotiche e ricevuto uno straordinario potenziamento della propria capacità sensibile e sensitiva, si accorge, lei soltanto, che la torre è un organismo vivente che respira e ha pareti carnose come quelle di un esofago.
Queste iniziali mutazioni aprono ad una narrazione incalzantemente avvincente, immersa in una strabiliante complessità di ecosistemi (fascinosamente proiettati, oltre che raccontati ) e piena di divieti e di “confini” che non aspettano altro se non di essere infranti. Iniziando dal primo divieto: quello di non voltarsi appena valicato il confine dei confini: quello che introduce all’Area X. La biologa lo infrange e il suo sfidante coraggio d’interrogare l’impossibile non trova punizioni. A differenza di quanto avvenne invece ad Orfeo che, voltatosi lungo il tragitto d’uscita dagli Inferi, non poté più riavere la sua Euridice.
La biologa sa, a qualche livello, che “nulla che vive e respira è davvero oggettivo: nemmeno nel vuoto, nemmeno se il cervello avesse obbedito unicamente al desiderio di immolarsi per la verità “. Ma che cosa si nasconde in fondo alla Torre? Che cosa succede a chi osa guardare? Come si torna dopo aver guardato? Cosa si frappone nella mente di chi torna? Un velo.
Uno spettacolo estremamente coinvolgente ed attanagliante, nel quale la sinergia tra parola, suono, musica e immagine raggiunge livelli di altissima suggestione.
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P.S. Le immagini sono quelle che ogni sera trasformano la facciata del Teatro India in una soglia che apre all’universo immaginifico di IF _NEW ERA*22