Petrolini infinito

SUNDAY BOOGIE THEATER, 20 Febbraio 2022 –

Una serata dedicata ad Ettore Petrolini, genio “deformatore” del Teatro di Varietà, grazie ad un progetto trasversale alla multimedialità di Enoch Marrella.

Lo spettacolo si apre con un prologo musicale fuori campo, dove Petrolini (nelle vesti di Gastone una delle sue più riuscite creazioni) invita lo spettatore a non fermarsi alla superficie ma piuttosto ad ascoltare bene quello che c’è dentro, quello che c’è sotto.

“È il mio motto – dice Gastone – “sempre più dentro, sempre più sotto”.

Solo ora può prendere forma e fare il suo ingresso l’interprete: un profondo ed ipnotico Enoch Marrella in frac scuro, labbra scure, biacca e brillantina, dalla quale sfugge per un attimo un tirabaci. Un volto ed una voce metamorfici, accompagnati incantevolmente dalle note del Maestro Paolo Panfilo. La comicità irriverente erompe lasciando poi il passo a riflessioni più amare e compassionevoli sulle debolezze umane.

Si susseguono, secondo la moda futurista, versi malthusiani. Uno fra tutti:

Petrolini è quella cosa che ti burla in ton garbato, poi ti dice: ti à piaciato? Se ti offendi se ne freg.

Lui è il re dello sberleffo e della satira pungente e caustica con la quale condanna ipocrisia e malcostume. E non risparmia né popolani, né potenti.

È il dadaista Fortunello che – come disse lo stesso Marinetti – “scava dentro il pubblico tunnel spiralici di stupore e di allegria illogica e inesplicabile”.

Sono un uom grazioso e bello

sono Fortunello.

Sono un uomo ardito e sano

sono un aeroplano.

Sono un uomo assai terribile

sono un dirigibile.

Sono un uomo che vado al culmine

sono un parafulmine.

E’ Salamini: una creazione spontanea e insieme elaborata, sciocca ma geniale, che racconta di “un imbecille di statura ciclopica”.

Ho comprato i salamini e me ne vanto

se qualcuno ci patisce che io canto

è inutile sparlar

è inutile ridir

sono un bel giovanottin

sono un augellin…

A seguire il raccontino di Isabella e Beniamino e subito dopo una veloce trasformazione: il frac lascia la scena ad una camicia e a delle bretelle che si sfidano sull’effetto optical, sublimate da una gorgiera bianca. Sui capelli impomatati cala il sipario di una parrucca nera dal taglio carrè con frangia. È il gran finale in cui Marrella/Petrolini, con il teschio di Yorick sotto braccio, interpreta “il pallido prence danese, che parla solo, che veste a nero”: Amleto.

Ma la singolare analisi della storia “deformata” da Petrolini, osa scioglier ogni dubbio:

Si può essere più afflitti, più lagnosi, più melanconici di Amleto?

Poteva essere felice, no!

Poteva essere amato, no!

Io non ho mai capito che cosa voleva Amleto.

Ma che voleva Amleto?

L’amore è facile

non è difficile

si ha da succedere

succederà.

Sulle note di questa ariosa conclusione anche il pubblico si unisce a cantare in coro, dopo l’invito di un insolito Amleto aperto alla condivisione.

Un lavoro interessante dove Enoch Marrella, complice il Maestro Panfilo, riesce a trascinare lo spettatore: divertendo ed emozionando.

Per maggiori informazioni su Enoch Marrella:

-Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2021: vincitore con lo Studio “Tecnicismi”

-Spettacolo “Sottobanco” per la regia di Claudio Boccaccini

Art

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 20 Febbraio 2022 –

Quali sono i confini della nostra tolleranza? Non quella di cui ci fregiamo in discorsi buonisti e di cui sentiamo inesorabilmente il peso, l’imbarazzo. Piuttosto, invece, quanto siamo capaci di sostenere e quindi di accogliere una scelta dichiaratamente diversa dalla nostra, in nome di qualcosa di più alto, come l’Amicizia e più in generale dell’Arte della vita?

Sentirsi solo formalmente tollerato non procura benessere, piuttosto suscita senso di inadeguatezza e quindi disistima. La cortesia senza coinvolgimento emozionale, regala solo un tangibile disagio. Siamo consapevoli quindi di cosa lasciamo all’altro, quando siamo noi a vestire i panni del tollerante?

Lo spazio scenico è vuoto: solo un telo bianco, posizionato a 45gradi, occupa il lato destro del palco. Entrano i tre attori, ognuno dei quali inserito rigidamente nel proprio spazio di luce. Il quadro bianco, oscuro oggetto del desiderio di Serge, non è (almeno non ancora) il telo che vediamo fisicamente sul palco ma un quadro metafisico che i tre attori ci lasciano immaginare attraverso le loro conversazioni ma soprattutto attraverso le loro reazioni. L’ amico ad avere l’onore di fare la conoscenza dell’opera d’arte, appena acquistata da Serge, è Marc.

Scandalizzato dalla scelta estetica ed economica dell’amico, se ne esce con una forzata risata proterva, cercando aiuto, senza troppo successo, in tre granuli omeopatici di Gelsemium o in alternativa di Ignatia. Rimedi utili per cercare di tollerare ansie da prestazione, con il rischio però che la tolleranza diventi sinonimo di indifferenza: la peggiore delle reazioni umane. Arriva poi Yvane, l’altro amico di Serge, uno che con “il bianco” dovrebbe avere dimestichezza lavorando in una cartoleria. In realtà invece la sua capacità di condivisione dell’emozione dell’amico è resa impossibile da una maniacale necessità di porre completezza e uniformità ad una banale esigenza: quella di trovare qualcosa che manca, il cappuccio della sua penna. Quando finalmente la sua personale esigenza di ordine si è (apparentemente) composta, e può concedersi di regalare attenzione al folle acquisto dell’amico, la sua reazione è di totale accondiscendenza: “se ti fa piacere!”.

Una filosofia di vita che dà per scontata la diversità: non ne coglie, né ne riconosce l’essenza. Non si crea insomma quella speciale curiosità verso l’altro che ti porta a partecipare, fino a diventare complice della sua scelta. Piuttosto a crearsi è una netta separazione tra due possibili, e quindi diversi, atteggiamenti. Separazione enfatizzata anche visivamente dagli incomunicabili corridoi di luce che illuminano e fanno risaltare le zone d’ombra che separano i tre amici. Piccoli, subdoli giochi di potere si insinuano in un sentimento, l’Amicizia, che invece proclama di metterli al bando in nome di un totale riconoscimento della dignità dell’altro.

Legame di importanza vitale quello dell’Amicizia, se Aristotele era solito dire che gli uomini potrebbero fare a meno di qualsiasi bene ma non possono rinunciare all’amicizia. Ma quando invece la curiosa attenzione verso la diversità dell’altro diventa sterile giudizio, che fa dei confini solo elementi di separazione e non anche luoghi dove ci si può incontrare, si crea necessariamente uno stato di necrosi delle relazioni. E pensare, come dice Serge (citando il Platone de Il Simposio) che niente di bello si può creare con la razionalità, con l’ordine, con il simile. È solo dalla vertigine di tensione che si crea tra l’ordine razionale e il divino disordine della follia che nasce la vera bellezza.

E quando i tre amici riusciranno a trovare questa speciale accoglienza l’un l’altro, sperimenteranno di vedersi in un modalità diversa: attraverso la colorata diversità delle ombre di ciascuno. Complice il telo bianco che ora, come in uno specchio, restituisce la bellezza dell’Arte di vivere insieme. In Amicizia. Diversi. Perche Arte, come il titolo dello spettacolo ci suggerisce, è la capacità di andare verso qualcuno o qualcosa.

Informazioni sull’autrice del testo Yasmina Reza

Recensione dello spettacolo LA METAMORFOSI di Franz Kafka – adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.


Recensione di Sonia Remoli

Un tram che si chiama desiderio

TEATRO QUIRINO, dall’ 1 al 6 Febbraio 2022 –

Delle gambe di donna salgono dal piano terra al primo piano di uno stabile cinereo e squallidamente tetro. Le stesse gambe che per arrivare lì, al quartiere dei Campi Elisi, sono prima salite su un tram, chiamato Desiderio e a seguire su un altro tram, chiamato Cimitero. Gambe che, non solo “geograficamente” attraversano il luogo del desiderio (eros) e quello della morte (thanatos), per arrivare al quartiere d’oltretomba dei Campi Elisi. Le gambe sono di Blanche, una brillante professoressa di lettere, amante di Walt Whitman e di Edgar Allan Poe, recentemente vedova di un marito e di una tenuta nel Mississippi.

Sta raggiungendo, qui, nel quartiere dei Campi Elisi, sua sorella Stella, che la ospiterà per un periodo. Non appena entra in scena, Blanche (una dannatamente divina Mariangela D’Abbraccio) ci si manifesta subito come una donna fuori posto, disorientata perché già dislocata altrove: “non mi reggo in piedi” è la sua prima battuta. Una donna dall’allure di Jackie Kennedy e amante delle camicette bianche, come l’Arcadina cechoviana, con la quale condivide anche un disperato bisogno di piacere agli altri. “Come sto?” chiede a tutti, mettendosi sotto i riflettori ma scegliendo lei sotto quale luce mostrarsi.

La luce delle ombre (rese intensamente dalla metamorfica D’Abbraccio) che continuano a seguirla dalla tenuta Belle Rêve al quartiere dei Campi Elisi: luoghi che di “bello” hanno solo il nome. Quando i riflettori si spengono e lei resta sola, il suo fallace sostegno è l’alcol, il cui tocco ha il potere di arrivarle dritto nelle vene, surrogato di un calore e di un’ebrezza insoddisfabili.

Ma dall’alcol dipende anche Stanley (un magnetico e bestiale Daniele Pecci), il marito di sua sorella: i due si annusano e si riconoscono subito: “io non lo tocco quasi mai” mente lei. E lui, allusivo: “c’è gente che non lo tocca ma che si lascia toccare”. Perché per Stanley una donna “deve mettere subito le carte in tavola”, non solo quelle relative alla tenuta Belle Rêve.

Così come in casa sua non può esistere privacy e le porte o non ci sono o vengono lasciate aperte. Inclusa quella del bagno. Ma la prima a nascondergli cose è proprio sua moglie Stella, che non solo non lo avvisa dell’arrivo della cognata ma nasconde (soprattutto a se stessa) un desiderio malato dietro un altro bel nome: amore. Stella infatti si lascia accecare da una prepotente tenerezza, che gli fa vedere il marito come “un cucciolotto”: “ci si sopporta un po’ ” dice per giustificare la sua dipendenza, nonostante lui arrivi spesso, invasato dalla rabbia, a distruggere quello che prende in mano. E di fronte ai deliri della sorella, si limita a dire: “come sei buffa”. Stella è sfuggente come una quaglia, analogia che la stessa Blanche intuisce ma che poi applica all’ammorbidirsi del fisico della sorella.

Blanche invece riconosce immediatamente il desiderio animale che l’accomuna a Stanley. E ammiccantemente gli si propone con piume e pelli di volpe, chiedendogli di aiutarla ad allacciare bottoni. Ma lui le dirà che con i bottoni non ci sa fare: non sa, a differenza del bottone, unire e tenere insieme due parti. Non sa entrare in relazione.

Così a Blanche non resta che continuare ad affidarsi al buon cuore degli estranei. Come sempre. Per sempre.

Perché il desiderio può essere il luogo dell’inganno ma anche della verità. Quella verità capace di essere generatrice di vita. Quella vita che è desiderio di essere desiderati dal desiderio dell’altro. 


Una regia potente, quella di Pier Luigi Pizzi, capace di tenere incollato lo spettatore per due ore e mezzo. Complici gli attori e la stessa magnificente scenografia. Pecci e la D’Abbraccio hanno interrotto gli applausi per dedicare lo spettacolo a Monica Vitti.

Info sul testo Un tram che si chiama desiderio

Sottobanco

ROMA, TEATRO MARCONI – 30 e 31 Dicembre 2021 /6, 7, 8, 9 Gennaio 2022

OSTIA, TEATRO NINO MANFREDI, Dal 18 al 30 Gennaio 2022

ROMA, TEATRO ROMA, Dal 5 al 13 Febbraio 2022 –

Impazientemente, una giovane donna attende l’apertura di una porta (sipario).  Ci si rivela uno spazio scenico abitato da una commistione di elementi, accomunati dalla potenziale capacità di educare a valorizzare il disequilibrio, come momento indispensabile al raggiungimento di un equilibrio. Da perdere e ritrovare continuamente.

Tra tutti gli elementi scenici,  a catturare l’attenzione è il fondale, attrezzato con un “continuum” di spalliere ginniche, che un estroso uso della luce, fa sembrare altro. Ad esempio, anche una tenda veneziana: aperta da spiragli di luce e di ombre, che lasciano presagire una malinconica ed inquietante freddezza emotiva, tipica di chi finge di vivere curandosi di avere sempre le spalle coperte. Atteggiamento che si conclamerà nel secondo atto, con il consumato giudizio universale degli scrutini.


Dal soffitto scendono degli anelli ginnici, mentre a terra, in proscenio, troneggia, libera anche di essere insolitamente calciata, una palla da basket.  Un nero pallone da calcio,  invece, resta fissamente intrappolato in alto, tra le assi di una delle spalliere. Quasi a simboleggiare atteggiamenti intrepidi, in un caso, e  mortalmente protettivi, nell’altro. Questo spazio scenico, dedicato all’educazione fisica, viene contaminato da cattedre, sedie e schedari: luoghi comuni di un’educazione della mente e dello spirito.

La giovane donna che, una volta entrata, continua ad agitarsi turbata e disorientata,  intuiamo essere una prof: la prof. Baccalauro. Un misto di ordinata e sapiente scompostezza, come lo stesso cognome suggerisce. Così come i suoi piedi: una donna che fatica ad avanzare e tiene un piede orientato verso il futuro e l’altro a chiudere parzialmente questa apertura. Ma, nonostante tutto, va e comunque si apre ad affrontare la lotta insita in ogni dialogo (forse non a caso indossa delle Converse). E nei momenti più critici, infila in bocca una matita come si farebbe con un coltello: tra i denti. Denti che però usa anche per sabotarsi le unghie, preziosi artigli con i quali lottare. Indossa un piccolo scaldacuore bianco, che subito toglie: quasi delle ali, di cui non riesce a tollerare l’insostenibile leggerezza.

A raggiungerla è il cheguevariano prof di Lettere Cozzolino, che entra in scena con il suo elmo bianco ed un mantello verde. Armatura che, una volta entrato apparentemente depone, pronto a combattere  ammuffiti pregiudizi e a valorizzare nuove e ariose modalità di espressione. Magari anche un po’ sbagliate ma proprio per questo creative. Come quella di Cardini, un alunno che affronta la sua trasformazione adolescenziale nei panni di una mosca. E domandandosi chi, in paradiso, lucida l’aureola ai santi. O come quella di Katia Sbilenchi che, spaventata dai dubbi della crescita, cerca sostegno nelle braccia sbagliate. O come Germani Ursula che, come una barbara,  ama sfidare il pericolo ad alta velocita’.

A mano a mano lo spazio si popolerà di professori, che non faranno che ammonire i due, impavidamente maldestri colleghi, a fare attenzione, ad usare prudenza, a non esporsi troppo. Per non perdere quell’equilibrio che solo un arido rispetto delle regole sembra regalare. Aridità che pensano di colmare bevendo succhi di frutta, comodamente confezionati ma troppo caldi.  Dai quali però continuano a dipendere, nell’illusione di “raccogliere punti fedeltà”. Perché è preferibile schierarsi in nome di falsi legami che accomunano, piuttosto che essere additati per il provocatorio coraggio di togliersi le proprie scarpe per entrare in quelle di un altro. 

Uno spettacolo che, solleticando continue risate, invita a mettersi in gioco. Il miglior augurio per chiudere un anno e aprirsi al futuro. Perché uno spettacolo deve saper entrare come un liquido nelle fessure e prendere la forma di ciò che manca. Facendoci ridere e piangere; pensare e sognare. 

Lavia dice Leopardi

TEATRO VASCELLO, 22 Ottobre 2021 –

Il palco è vuoto. Poi entra lui. E con lui una “donzelletta”. Conosciuta, ma in realtà tutta da scoprire. E’ come se Lavia facesse delle nuove presentazioni e poi ti guidasse attraverso “i perché” della scelta di determinate parole. Che regalano immagini. Che a loro volta ti consegnano la filosofia del Leopardi. Prima fra tutte, l’immagine che la vita si dà nel momento in cui tramonta. Non a caso la donzelletta arriva “in sul calar del sole”. E non a caso Lavia invita a soffermarsi sull’immagine successiva, costruita come un controcampo cinematografico: quella di una “vecchierella”. Che fila e che tanto ricorda le tre Parche dell’Antica Grecia.

E anche quest’ultima viene “incontro laddove si perde il giorno”. La descrizione prosegue e più avanti arriva un “Poi”, che ci sorprende come un colpo di scena. Ma in realtà ritorna sempre lo stesso concetto: “un legnaiuol che s’affretta e s’adopra di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”. Ma se allora così è la vita, se la festa è nella sua fine, non ci resta che godere !

Lo spettacolo è tutto un “dire”, cioè un personalissimo e generoso donare al pubblico l’enigmaticità di alcuni nodi poetico-filosofici. Per poi scioglierli. Con le mani, che sanno svelare più delle parole: la destra sempre più libera e vibrante; la sinistra più contratta. Uno spettacolo che si apre ad una provocante interazione con il pubblico: complice anche quel piccolissimo gradino che separa il palco dalla platea, caratteristico di questo Teatro. E poi la chiusura, che leopardianamente apre a un nuovo inizio: tutti coralmente a “dire” L’Infinito.

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 26 al 31 ottobre 2021 –

Lo spettacolo narra il mito di Fantasia, dea cospiratrice, che dona vita ad una storia senza un copione che contenga i suoi personaggi. Questi, peccando di “hybris”, cioè di vitale e quindi divina esuberanza, finiscono per irrompere nello spettacolo in allestimento dei figli di Immaginazione, dea un pò parassita. Non c’è tra le due narrazioni un confine; o se c’è è di natura porosa, osmotica. Perché un confine è anche il luogo dove ci si incontra.

Come ci viene suggerito già dall’inizio: un regista e il suo assistente “comunicano” anche se separati dal confine del sipario. Questo tema si ripete e insieme si arricchisce per tutto lo spettacolo, quasi come in un sistema organizzato per cerchi concentrici. Lo si ritrova nel confine che stabilisce quando passare dalle prove sedute (a tavolino) a quelle in piedi. E, ancora, nell’invito a far sentire il senso del guscio nello sbattere l’uovo.

Solo la dea Fantasia possiede il dono della creazione; solo lei plasma le percezioni che riceviamo, le emozioni che patiamo e le restituisce in forme coerenti. Per questo i suoi personaggi sono così vibranti, così vivi ! Ma nonostante ciò il regista decide di esortare i suoi attori, figli della dea Immaginazione, ad una “concertazione”, cioè ad un accordo o ad una sfida con i sei personaggi, figli della dea Fantasia. Il fine però è una cooperazione. Il regista promuove cioè, ancora una volta, un passaggio osmotico.

Lo stesso che fatica a crearsi tra i figli legittimi e quelli illegittimi. E ancora tra l’essere donna e l’essere madre di Amalia. Tra l’essere uomo e l’essere donna di Madama Pace. Tra una sartoria e una casa d’appuntamenti. Tra il “falla tua” e il “non è più nostra”. Tra l’illusione e la realtà. Tra il credere d’intendersi e il non intendersi mai. Tra il racconto e la drammaturgia. Fino alla fine. E quindi senza una fine.

Il sipario si apre su una sala prove di un teatro nudo: senza le abituali e così rassicuranti quinte. I muri perimetrali sono a vista, senza veli, esposti a possibili incontri e a reciproci contagi osmotici. Le corde provenienti dalla graticcia e che sostengono gli elementi scenici sospesi, sono lì, disponibili ad essere sciolte. Anche il fondale è diverso: non chiude nettamente lo spazio scenico. E’ della natura di una membrana, disponibile ad essere sfondata e attraversata.

Questo particolare spazio scenico inizia ad essere abitato da alcuni Attori che arrivano alle prove troppo sicuri e quindi aridi, annoiati, privi della sacra apertura a rendersi disponibili ad essere “posseduti” dal personaggio da interpretare. Sono figli di Immaginazione: combinano e ricombinano situazioni tecniche già conosciute, senza generare nulla di nuovo. Sono affatto inclini alla propositività e al rischio di un’osmosi; piuttosto si mostrano fermamente risoluti nell’arroccarsi in posizioni di sterile difesa.

Soprattutto quando il fondale verrà attraversato dall’invasione barbarica dei sei personaggi, figli di Fantasia. Neri, non solo perché visitati da una serie di lutti (desiderosi d’interpretare in una maniera sempre nuova) ma perché disponibili ad ospitare tutte le ombre che illuminano la vita. Lo leggiamo dalle loro posture, così plasmate e segnate dalle vicissitudini. Anche le più tenere. Su tutte la postura, la voce e soprattutto la risata della figliastra. Talmente scevra da sovrastrutture da incarnare la natura istintuale di una fiera. Che non resiste più alla forza di gravità. E si piega o s’inginocchia in un perenne attacco.

Una “spostata”, come l’etichetta subito il regista. Spostato è il suo sguardo: sempre immerso in un altrove irraggiungibile e che spesso crolla a terra. Mai indifeso. Eppure pudico. Si sente, anche se non lo possiamo leggere nei suoi occhi. Che se li incroci, ti possono pietrificare, come quelli di una Medusa. Ma anche lei ha subito questa pietrificazione dagli occhi di chi non l’ha “riconosciuta”. Per questo ora, come Perseo, sa che deve guardare altrove per resistere. E si aiuta ad orientarsi con le braccia, che diventano i suoi occhi. Anche il suo incedere è precario, come quello di un’equilibrista che tenta di camminare su una fune, per saggiare il proprio equilibrio. Un equilibrio che include numerose cadute verso quel basso che tanto l’attira. Come “La ragazza sulla ponte”, avrebbe bisogno di un lanciatore di coltelli che le faccia”sentire” i suoi speciali confini.

E che dire di quel suo fratellastro, così prossemicamente distante ma anche lui così tentato di cadere giù dal palco, di saltare fuori dalla quarta parete. Quasi come in un trompe l’oeil di Pere Borrel del Caso. E poi la matrigna: l’unica che si dà un nome. Anche lei ha una sua natura da fiera, che a differenza della figliastra si sforza di arginare in un dolore composto, che però non sfugge a involontarie torsioni cariche di pathos. Per poi esplodere in tutta la sua materna ferocia, nell’attimo in cui annusa puzza d’incesto. Trauma che rivive assumendo le sembianze posturali di una croce, contenente e contenuto. Dove a urlare è il silenzio. Come in un quadro di Munch.

E infine il padre: una diversa declinazione del vissuto di Mattia Pascal. Che qui dimostra di aver appreso il potere di attrazione degli oggetti: uno su tutti il cappello. Quello per evocare Madama Pace e quello di paglia, ornato da una ghirlanda di rose, per sedurre la sua giovane amante.

Una qualche “concertazione” alla fine viene raggiunta tra i figli delle due diverse Dee: gli Attori finiscono per disarmarsi, riuscendo ad assorbire le ombre dei Personaggi. Lo vediamo dai loro corpi, che perdono ognuno il caratteristico à plomb e si rendono malleabili ad essere piegati dalle emozioni. In particolare la prima attrice, che trasforma l’ossessivo accavallamento delle gambe in un “basic instinct” sguaiato. Di spalle, non per continuare a ricordare a tutti che lei non può perdere tempo ma perché finalmente inserita e catturata osmoticamente nel personaggio. E nel tempo.


Recensione di Sonia Remoli