lI soccombente

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Marzo 2023 –

Desiderio, più o meno confessato, di ogni essere umano è quello di avere “un testimone”: qualcuno che si interessi al nostro modo di stare al mondo, che condivida con noi esperienze e, proprio per aver avuto diretta conoscenza dei fatti della nostra vita, possa far fede nel rievocarla. Mantenendone la memoria.

Sandro Lombardi è il Narratore nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

Speciale investitura che in questo testo di Thomas Bernhard (tradotto da Renata Colorni e ridotto da Ruggero Cappuccio) cala su un innominato Narratore, testimone e unico sopravvissuto di una singolare amicizia, una e trina, che dà vita a diversi esiti, tutti riconducibili però alla medesima domanda: chi siamo? Ovvero, cosa ci identifica davvero? O meglio: che cosa ci rende “realizzati”? E poi: cosa siamo disposti a fare per individuare e portare a compimento il nostro “daimon”, il nostro talento?

Thomas Bernhard, autore del testo “Il soccombente”, facente parte di una Trilogia sulle Arti

Il regista Federico Tiezzi affida l’interpretazione di questo particolare “testimone-narratore” a un lucido e ancora tormentato Sandro Lombardi, a cui regala un ironico disincanto che contribuisce a renderlo ricco in fascino passivo. In un corposo flusso di coscienza, il Narratore, comodamente assiso in una poltroncina del suo salotto/camerino, rievocando gli effetti di quell’indimenticabile incontro con Glenn Gould , prova a rintracciarne le cause. Ora, a circa trent’anni dall’evento e a pochi giorni dal suicidio di Wertheimer. Gould era solito identificare l’amico-collega qui Narratore con l’appellativo di “filosofo”. E forse, proprio per questa sua presunta natura socratica, non riesce a colmare attraverso la scrittura di un libro quell’epifania che Glenn Gould rappresenta. Ancora.

Glenn Gould, tra i più grandi pianisti mai vissuti

Il suo elegante spazio, insieme luogo della mente, ri-ospita gli amici che per due mesi e mezzo hanno frequentato il corso tenuto dal grande maestro russo Vladimir Horowitz a Salisburgo. Periodo in cui hanno condiviso tutte le ore del giorno e quelle della notte a studiare e ad esercitarsi ossessivamente al pianoforte: lui, il Narratore, Wertheimer e l’immensamente ingombrante Glenn Gould, iconograficamente rappresentato dal nero Steinway, oggetto del desiderio nel quale Gould anelava trasformarsi.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

Ricchissimo di suggestione “lo scenario” che ospita questa ambientazione salottiera, così lontana dalla frenesia che contraddistingueva lo spazio che li voleva uniti nel condividere un’irrefrenabile passione per la musica. Ma le “morbide” linee curve del salotto vengono inscritte in rigide geometrie sulle quali si incide la perfezione, e quindi il mistero, di una triangolazione. E su tutto cala, come un deus ex machina, l’eterna presenza di Glenn Gould, rapito esecutore delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. Una scenografia che con il rigore di un pentagramma ospita i corpi degli attori, punteggiatura “in posa”, priva di un autentico “daimon”.

Pagina dello spartito con la prima Aria delle Variazioni Goldberg scritte da Johann Sebastian Bach

Geniale il lavoro sul corpo dell’attore che il regista Tiezzi ha individuato per ciascuno di loro.

Federico Tiezzi, regista dello spettacolo “Il soccombente”

La staticità per il corpo del Narratore (Sandro Lombardi) che, rapito dall’urgenza del flusso di coscienza, sceglie un punto di vista da cui riesaminare tutta la vicenda.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

La funambolicità per il corpo di Wertheimer (Martino D’ Amico): quella della psiche trova espressione in una fisica sfida all’equilibrio gravitazionale, che lo porta ad assumere quasi esclusivamente posizioni da “soccombente”. Lo scopriamo, infatti, o spalmato sul pianoforte (come appena atterrato dal volo per suicidarsi), o continuamente tentato a salire sopra gli oggetti d’arredo (quasi volendo pregustare il febbrile osare lanciarsi in volo da ogni altezza).

Martino D’Amico è Wertheimer nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

E poi la prossemica della sorella di Wertheimer: predata come una cerbiatta e responsabile per lungo tempo di essersi resa disponibile ad accettare di gravitare intorno a lui, quale unica forza di attrazione. Assecondandolo, e così illudendolo, di colmare in qualche modo i suoi insopportabili vuoti di senso. Plasticamente strabiliante la duttilità vocale e fisica dell’interprete Francesca Gabucci.

Francesca Gabucci

Perché quello che fin dall’inizio Gould aveva ri-nominato ” il mio caro soccombente” (Wertheimer) era in qualche modo predestinato a tale fine, non avendo in sé (già molto prima del loro incontro) un vero baricentro di consapevole unicità esistenziale. Oscillando, da sempre, tra il prevaricare e l’arrendersi.

Fatale esito di un processo già avviato, la paralisi sinestetica provocata in Wertheimer dall’ascolto dell’esecuzione delle Variazioni Goldberg da parte di Gould si originava in chi si era accorto che ciò che fa la differenza tra essere o non essere un Artista è saper “entrare in relazione” con la musica . E non semplicemente sottomettersi ad essa, oppure prevaricarla. Un fuoco che arde perché crea. Non per incenerire.

Glenn Gould

Gould, ci riferisce lo stesso Narratore, era solito usare espressioni come “stare nella pelle”, “stare nei panni”. Di più: sapeva lasciarsi rapire dalla musica come da un’amante, complice la consapevolezza che poi lei stessa avrebbe saputo come ricondurlo in superficie. Temporaneamente. Fino al successivo amplesso.

Come descritto da Platone ne “Il Simposio”. E come dichiarato dallo stesso Gould, che definiva il lavoro incubatorio che avrebbe portato alla luce le sue opere “un romanzo d’amore” . Una relazione amorosa tale da riuscire a rendere “speciale” e quindi “unica” anche quella “diversità” che per i suoi amici è restata solo una discriminante malattia.

Questo, forse, è l’Artista.

Questo, forse, è riuscire a fare qualcosa di fertile con l’Infelicità.


Leggi articolo ANSA

Settimo senso – Moana Pozzi

TEATRO PARIOLI, dal 19 al 22 Gennaio 2023 –

Se è vero che nulla l’uomo teme più dell’entrare in contatto con l’ignoto, vero è anche che l’ignoto è ciò che può eccitarlo maggiormente. Eterna è la dialettica tra Eros e Thanatos; tra mancanza e desiderio.

“Siamo ciò che ci manca”.

Siamo ciò che desideriamo. 

Nadia Baldi, la regista dello spettacolo “Settimo senso”

Desiderio urgente del fertile sodalizio artistico tra l’inventiva della regista Nadia Baldi e l’autore Ruggero Cappuccio, noto per l’esaltazione del segno sonoro, è quello di far conoscere l’ “altra Moana Pozzi“, quella che è restata celata dietro ciò che ci siamo ostinati a voler vedere. Così come è loro desiderio far cadere il velo “sul non visto” del concetto di pornografia.

Ruggero Cappuccio, autore dello spettacolo “Settimo senso”

Un rimando iconografico apre lo spettacolo: “I fortunati casi dell’altalena” (1767) di Jean-Honoré Fragonard, pittore della sensualità del rococò francese. Anche la Moana della Baldi (una metamorfica Euridice Axen) come la donna sull’altalena ritratta nel quadro siede su “un trono” di tulle rosso. E dondolando sospinta dal suo pubblico ottusamente fedele, si lascia intrigare da un misterioso uomo, al quale ha maliziosamente lanciato la sua scarpina.

Jean-Honoré Fragonard, “I fortunati casi dell’altalena” – (1767)

Nella narrazione è una balaustra in ferro battuto a definire il limite generatore di mancanza (e quindi di desiderio) tra la donna e il misterioso sconosciuto della terrazza accanto. E, come nel quadro di Fragonard, lei si priva di una scarpa. Ma, a differenza del quadro, qui siamo in una splendida notte stellata, riprodotta da magiche architetture in pizzo nero: scene curate e sapientemente celate/rivelate dal disegno luci di Nadia Baldi.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

Canta, Moana ma il suo canto ha un’anima dolente, quasi lamentosa, che ricorda il threnos (canto funebre) greco. Perché “la morte è un passaggio dal sonoro al muto”. E la morte di Moana Pozzi ? È stata forse una messa in scena? Di certo il suo corpo è stato “un distributore d’oblio sulla vita”, la quale è “una malattia mortale, trasmessa per via sessuale”.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

No, il suo è stato “un gioco per il gioco”: lei ne fissa le regole ma senza nessun inganno. Senza violenza. Come accade nel gioco delle “6 cose da toccare”. Un incastro perfetto come quello tra “presa e spina”. 

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”

Euridice Axen, l’interprete in scena di Moana Pozzi, strega lo spettatore attraverso una così vasta gamma di espressività vocale, che lo spettacolo potrebbe funzionare anche a luci spente.

Euridice Axen (Moana Pozzi) in una scena dello spettacolo “Settimo senso”


Leggi l’intervista a Euridice Axen su “Vanity Fair”


Ferito a morte

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 15 Gennaio 2023 –

Pigramente guardare. Preferire sabotare i timpani e usare l’orecchio come fosse “il buco di un lavandino”, addomesticandolo solo all’ascolto di racconti. Non farsi tentare dal fascino conviviale dei cibi; non lasciarsi guidare dal fiuto; non abbandonarsi al tatto. Solo guardare. E poi: preferire rinunciare.

Andrea Renzi (Massimo adulto) in una scena dello spettacolo “Ferito a Morte” di R. Andò

Quasi creando un rapporto biologicamente chiasmico tra natura e vita umana: la natura è la nemesi della vita, perché nemesi è la grande occasione mancata. “Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?”. E allora perché non godere perversamente nel perdere occasioni. Soprattutto quando è proprio lì, facile, a portata di mano. Galleggiando.

Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli (Sasà) in una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Per poi abbandonare ogni pigrizia nel costruire una propria narrrazione : attenti e accuratissimi nel creare la “suspense”. Obbedendo alle aspettative “degli altri” che pretendono, seppur impazienti di arrivare al punto, di venir eccitati dalla dovizia dei particolari. Inventati, spesso. Ma non importa: la vita si inventa, non si vive.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte ” di R. Andò

È colpa della città che “o ti ferisce a morte o ti addormenta”. Nella magnifica regia di Roberto Andò costruita sull’adattamento di Emanuele Trevi (celebre “coltivatore” di pure forme laterali di scrittura, dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario) quest’affermazione diviene un mantra. “Boccheggiato” da uomini che, in un seducente gioco di specchi e di proiezioni tridimensionali, si accontentano di vivere nel mare della vita, come in un rassicurante acquario.

Il rinomato regista Roberto Andò

Dove, grazie ad una sapiente costruzione scenografica continuamente in movimento, abilmente “velata” o “freezzata”, il passato si confonde con il presente. Un tempo scandito e numerabile solo attraverso il ricordo della donna che quell’estate “furoreggiò”. Si fa per dire: ogni donna si dà cura di informare “in anticipo” quali sono i suoi “gusti “, così da evitare insopportabili sorprese. Insomma, si vive con “un libretto delle istruzioni” per tutto.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

I dialoghi, com’è nella cifra stilistica di Andò, che qui si coniuga perfettamente con la qualità del testo di Raffaele La Capria, tendono ad essere sostituiti da lunghi monologhi-confessioni: dimensione dove poter rintracciare la misura, la chiave, per penetrare la città e i suoi misteri, aldilà di una misurazione del tempo cronologica. Concezione “iniziatica” della letteratura, declinata assieme a Emanuele Trevi, che ne ha curato l’adattamento con la sua caratteristica lucidità impeccabilmente intensa.

Emanuele Trevi

È un uomo dal thymos ancora intriso del trauma della guerra, quello raccontato in questo spettacolo, terrorizzato dall’ambiguità del reale, nonché dall’ambiguità del linguaggio. E che, per “reazione”, preferisce riporre la propria fiducia chiudendosi, nella presunta verità di un solo punto di vista. Perché come non si sa cosa nasconda l’acqua, così non si può sapere cosa ci nasconda la vita.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Si celebra così lo iato tra ciò che appare e ciò che è, tra la voce dei monologhi e la realtà dei fatti. Ma così gli “appetiti” finiscono per sopirsi, se si decide di rinunciare alla “caccia” (tranne Sasà, il Mandrake dell’improvvisazione). Paura e coraggio sono le due facce del desiderio ma qui si sceglie di “parlare” di fare l’amore, piuttosto che farlo davvero.

Sabatino Trobetta (Massimo giovane) e Laura Valentinelli (Carla) in una scena dello spettacolo

Tutta la narrazione è registicamente gestita da Massimo, narratore interno ed esterno, che anche scenograficamente abita prevalentemente una cameretta, di vanghoghiana memoria, costruita fuori dal palco ma ad esso contigua. Sospeso tra flusso di coscienza, sogno, ricordi e flashback. Sul palco si aprono e si chiudono fluidamente scene (curate da Gianni Carluccio, così come il disegno luci), a volte anche parallelamente, come fossero cassetti di un grande troumeau: la vita. Dove si vive come “monadi”, come “fotografato” con genio registico attraverso la scena esemplare dell’apparente “convivio”.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Non si ama entrare nella relazione con l’imprevisto che l’altro costituisce. Così ognuno si costruisce una propria weltanschauung, una propria visione della realtà, rendendola consona e accettabile a se stesso e agli altri. Quelli del Circolo: nuovo macrocosmo. È così confortevole! “Una vestaglia tiepida”, così come il sole. “Noi del Sud siamo predisposti al fascismo”. Ovvero ad abdicare al libero arbitrio, che implica quel gran fardello delle responsabilità. Meglio le catene, l’obbedienza: com’è nelle più intime corde della natura umana. Restare eternamente figli, incapaci di desiderare lo sviluppo della propria autonomia.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Ma è anche tutto così noioso! Inevitabilmente. E subdolamente feroce. Tanto che la solitudine prende il sopravvento, nonostante si stia prossemicamente vicini. E ci sono scene che sembrano uscite dal pennello di Edward Hopper.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

E si finisce per eccitarsi per l’ebrezza della morte. E per il dolore, che fa sentire vivi, in un mondo ovattato dalla menzogna, rivelata narrativamente in scena da superfici specchianti che non si limitano a “riflettere” ma anche a “proiettare”.

Complici di eleganti vizi e bizzarrie, un microcosmo di due camerieri: una donna e un uomo che nell’assecondare i loro “padroni” contribuiscono visivamente a creare scene alla Jack Vettriano. Meravigliosi i costumi di Daniela Cernigliaro.

Uno spettacolo fatto per gli occhi. Uno spettacolo che incanta. Che sceglie le immagini come veicolo privilegiato per arrivare a toccare il fondo. Delle nostre anime. Un inno alla risalita, all’ebrezza dell’aprirsi alla tridimensionalità della vita. Complice un cast impeccabile.

Pupo di zucchero

TEATRO ARGENTINA, dal 18 al 30 ottobre 2022 –

Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?

È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.

Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?

Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?

Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).

Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.

Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.

Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.

Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.

Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”. 

Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.

Sottobanco

TEATRO GOLDEN, dal 21 Settembre al 2 Ottobre 2022 –

“Quanto gli metti a Cardini?” – ovvero: come si riconosce un talento? E come si valorizza?

In questo spettacolo il regista Claudio Boccaccini, con lo stile che lo contraddistingue e che fa della luce uno speciale contrappunto alla narrazione, sceglie di parlarci delle condizioni in cui versa la scuola. Non solo quella degli anni ’90, descritta nel romanzo di Domenico Starnone “Sottobanco” (1992), a cui lo spettacolo si ispira.

Al netto dei problemi di gestione, la scuola allora come oggi continua ad essere attraversata da una divisione che ne evidenzia due anime: quella che si affida alle valutazioni quantitative, che tendono ad uniformare gli studenti ad uno standard (Foucault la chiamava la “scuola dispositivo”) e quella attenta alla scoperta e alla valorizzazione delle preziose differenze che identificano ciascun studente (la scuola, invocata, ad esempio, dal coro dei bambini nel video “The Wall” dei Pink Floyd).

Qui, nello spettacolo, la sagacia porta Boccaccini a costruire una trama narrativa sotterranea, affiorante attraverso la particolare interpretazione attoriale, dove ad essere pizzicate con tatto sono le corde del riso assieme a quelle della riflessione: amara, a volte, ma anche costruttiva e quindi propositiva. Nello specifico, Boccaccini mette in scena la cosiddetta “scuola dispositivo” affidando ad un irreprensibile “in totem” Paolo Perinelli la poetica ipocrisia del Preside; ad una maledettamente affascinante Silvia Brogi la frustrazione della Prof. Mortillaro; ad un intrigante e viscido Riccardo Bàrbera l’opportunismo del Prof. Cirrotta ; all’irresistibile risata di Marina Vitolo, l’invidia della Prof. Alinovi; e ad un avvincentemente inavvicinabile Enoch Marrella, la religiosa falsità del Prof. Mattozzi . L’anima scolastica, invece, più sensibilmente aperta alla valorizzazione delle diversità degli studenti è affidata all’interpretazione di una strepitosa Gaia De Laurentiis (l’effervescente Prof. Baccalauro) e all’appassionata persuasività di Felice Della Corte, l’attento Prof.Cozzolino per il quale non c’è studente che non abbia qualche qualità.

Al di là delle fragilità umane degli stessi professori, ciò che il regista Boccaccini riesce a far serpeggiare con acume, e qui il teatro diventa strumento sociale e politico di irrinunciabile valore, è l’idea di una scuola dove “infilare un errore dietro l’altro significa essere creativi”. Una scuola, quindi, dove poter apprendere a desiderare: condizione base per permettere a ciascun allievo di scoprire il proprio talento. Soprattutto in questo particolare periodo storico, dove si assiste ad un’eclissi della spinta a desiderare tra le nuove generazioni, accendere il desiderio, e quindi la vita, diventa essenziale.

Perché, come non si stanca di ribadire il Prof. Cozzolino, uno studente come Cardini, caratterizzato da una serie di difficoltà legate alla ricerca della propria identità, non può essere valutato con lo stesso criterio con cui si valuta, ad esempio, l’impeccabile allieva Solofra Sonia. C’è un fascino misterioso insito nell’insegnamento così come c’è una richiesta di essere affascinati nell’apprendimento: “Non abbiamo saputo prendere Cardini dal verso giusto” riconoscerà l’accurata Prof. Baccalauro.

La scuola, così come i libri, sono luoghi dell’apertura, della pluralità dei linguaggi, dell’osmosi. Per enfatizzare questo messaggio, il Teatro Golden, attraverso un’iniziativa davvero preziosa, ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Libri in via di estinzione. Salvali grazie a Sottobanco”. Per tutto il periodo della messa in scena dello spettacolo (ovvero fino al 2 ottobre p.v.) ci si potrà scambiare con il proprio vicino di poltrona un libro, per scongiurarne estinzione.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007

La potenza di un libro può incrinare la rigidità e l’asfissia creata da atteggiamenti di separazione e di discriminazione. Il desiderio ha bisogno di libertà per esprimersi. Ce lo ricorda anche l’installazione “El Castillo” di Jorge Mendez Blake (2007) la quale, basandosi sulla convinzione che la scrittura è di per sé una costruzione e la lettura una forma di creazione, trasforma l’astrazione letteraria in spazio, dando così una dimensione fisica all’azione del leggere. Un muro può cadere, quindi, perché irrimediabilmente minato alla base dalla forza delle parole e dai valori di convivenza civile, che la Letteratura e il Teatro non smettono di metterci a disposizione ogni giorno.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007 (dettaglio)

Fuggi la terra e l’onde

TEATRO INDIA, 8 Settembre 2022 –

Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.

Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare,  come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.

Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.

E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.

E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.

E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.

Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.

“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.

Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.

Nella solitudine dei campi di cotone

TEATRO INDIA, Dal 17 al 29 Maggio 2022 –

Qualcuno ci sta spiando, laggiù in fondo al palco. Oltre il palco. La scena è senza argini: si dà senza pudore. Il sipario c’è ma ha perso la sua funzione: ne resta solo una parte ed è relegato verso la metà del palco, raccolto solo sul lato sinistro. Il suo rosso acceso è l’unica nota di colore in uno spazio indefinito.

Anche le luci sono dislocate: lasciano l’alto e s’incarnano su due treppiedi che dominano la scena: loro i primi personaggi che si palesano. Il flusso luminoso non è libero, a differenza dello spazio in cui sono immerse. È contenuto, delimitato e indirizzato verso la destra del proscenio, verso qualcuno o qualcosa che deve arrivare E poi c’è sempre quella donna laggiù, in fondo, oltre il fondale.

Ci osserva, uno ad uno, mentre prendiamo posto in sala. Ci legge. Sembra saperne più di noi. È una presenza imbarazzante. Ma ad un certo punto non resiste. E avanza verso di noi: scalza, dal crine sciolto, indossando (ancora) un costume d’epoca. Arriva fino in proscenio: ci guarda tutti, si spoglia del soprabito e lo stende a terra. Come a deporre le armi. Solo ora le luci si abbassano e si diffonde la prima Variazione Goldberg: “Aria”. La donna ci rivela che quello che stiamo condividendo con lei è un particolare momento del giorno: “l’ora che volge al crepuscolo”, quella in cui s’incontrano solo persone alle quali “manca qualcosa”. Come noi. Come colui che si sta avvicinando da fuori, rasentando il muro, dal quale con difficoltà e di malavoglia si stacca.  

La donna si dichiara, con spavalda e seducente umiltà, come colei che possiede la capacità di soddisfare i desideri altrui. Ma anche lei può e vuole desiderare. E per farlo ha bisogno “che le sia chiesto” di soddisfare quel particolare desiderio. Questa è la sua “mancanza”, di cui è consapevole, e che anela fino ad esigere di soddisfare. Come “la sporgenza cerca l’incavo”. In una geometria di prossemici avvicinamenti e fughe, sui quali sono costruite le stesse Variazioni Goldberg, qui interpretate da Glenn Gould.

Una geometria che non rifugge l’ampio spettro delle emozioni, anzi le esalta, le scova, toccandone ogni possibilità espressiva. Ma occorre saper modulare “le altezze” dalle quali si guarda. Lei attacca, dall’alto della sua consapevolezza, sfoderando tutte le sue arti di seduttiva venditrice. Ma lui le resiste. Sebbene riconosca che lo sguardo di lei “potrebbe far venire a galla il fango”, si trincera dietro i canoni dell’omologazione. Ora, però, è avvenuto questo incontro e nulla è più come prima.

Nonostante ciò, resiste alla forte spinta eversiva: si posiziona più in alto e si gloria di “saper dire no”. E lei, di “conoscere tutti i sì”. Ovviamente non succede nulla e la venditrice retrocede all’indietro, di spalle, senza voler riconoscere e offrire la propria vulnerabilità. Torna a quel che resta del suo sipario e da lì ricava nuova energia per risorgere dalle due ceneri, come solo la fenice sa fare. E così farà più volte, per tutti i “no” che lui le dirà.

Fino a che non inizierà a guardarlo da “una nuova altezza” concedendogli di non guardarla, di immaginare “di chiederle” di esaudire il suo desiderio nella solitudine tipica di un campo di cotone. Ancora un “no”: lei è troppo “strana”. “Laddove mi aspetterei pugni, arrivano carezze”- si difende lui. Ma la donna sa aspettare e sa che ognuno ha i suoi tempi per riconoscere dignità ai propri desideri. E solo quando lei, iniziando a scendere dal suo piedistallo, si confesserà “povera” per il bisogno che la abita costantemente, anche lui allenterà le redini.

Troveranno un piano comune sul quale incontrarsi senza difese, dove riuscire a scambiarsi la propria pelle, quella più sospettosa. Perché il desiderio ci vuole disarmati, poveri, aperti. E i proiettori che prima erano indirizzati solo sull’ “altro”, con fare inquisitorio, ora la donna li indirizza verso il sipario: il luogo del “noi”, che ci vede tutti inclini ad abbassarci fino al più profondo degli inchini. Per poterci, poi, librare alti come aquile. E poi di nuovo anelanti del “basso”: condizione indispensabile per poter spiccare davvero nuovi e intrepidi voli. Altissimi.

Magnifica, la scelta del regista Andrea De Rosa di affidare ad una donna la parte del “venditore”. I sospetti verso chi è interessato a creare o scoprire bisogni in noi sono amplificati esponenzialmente da ciò che risulta più difficilmente traducibile: la natura femminile. Lo straniero più straniero. La più ricca di variazioni. Ma anche nell’uomo abita una donna difficile da tradurre (anche per una donna).

Federica Rosellini e Lino Musella ne sono stati enigmatici ed illuminanti interpreti. Uno spettacolo sulla potenza vitale dell’incontro. Perché ciò che dà sapore alla vita è il carattere rivoluzionario di certi incontri. Come il teatro ci insegna da sempre.