Spettri

TEATRO QUIRINO, Dal 13 al 18 dicembre 2022 –

Un urlo fa da prologo allo spettacolo: un urlo per una rottura. Una rottura che rivela come un’unità sia composta da una pluralità di parti.

Giancarlo Previati ed Eleonora Panizzo in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

All’apertura del sipario questo concetto è replicato da un maxi specchio (che fa da fondale) composto da una molteplicità di quadranti, che frantumano l’apparentemente inscalfibile unità di ciascun personaggio. 

Fabio Sartor, Andrea Jonasson e Eleonora Panizzo in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

Fuori dalla scena un rumoreggiare di tuoni: l’aria si sta caricando di energia che a breve esploderà, traducendo le catene della tensione in pioggia, ovvero in una pluralità di gocce. 

Il regista lituano Rimas Tuminas, direttore del celeberrimo Vakhtangov ( il più grande teatro di Russia) di segnali premonitori ne semina in abbondanza: di lì a breve infatti parteciperemo al frantumarsi di ipocrisie perbenisticamente inossidabili.  

Rimas Tuminas ©VMT archyvas

L’interessante adattamento di Fausto Paravidino, fedele al testo di Ibsen che vuole denunciare un dramma borghese, sceglie di veicolare questo obiettivo mettendo in primo piano il dramma lacerante di una donna: rifiutata dal suo amato (che sceglie di proseguire con ipocrisia la sua missione di Pastore, reso in tutte le sue ambiguità da un efficace Fabio Sartor), tradita dall’uomo che ha sposato (ma del quale si è resa complice di innominabili segreti) e perdutamente innamorata del proprio unico figlio.

Fausto Paravidino – curatore dell’adattamento di “Spettri” di Rimas Tuminas

Una donna così fortemente appesantita dal rispetto del diktat del perbenismo borghese qui trova incarnazione, merito anche della magnifica limpida intensità di Andrea Jonasson, in una Helene “dal piè leggero”, che sembra librarsi dal suolo resistendo alla forza di gravità. La sua voce sa essere soave (e ad incorniciarla come tale contribuisce un uso delle braccia che sa disegnare celesti circonferenze nell’aria) ma meglio ancora conosce i toni più gravi. Segreti. È una donna molto bella, nonostante il verde abito monacale nel quale si nasconde e sul quale grava un orologio (ciondolo di una lunga collana) per misurare quel tempo al quale lei si illude di “dare la carica”.

Il mondo nel quale crede di muoversi è una gabbia dorata: un reticolo di chiare e univoche geometrie, continuamente intorbidite da una subdola nebbia, che gravano orizzontalmente e verticalmente su quella sua “joie de vivre”, prima pretesa e poi ceduta ( le scene sono curate, così come i costumi, da Adomas Jacovskis).

A sfidare le pure geometrie ci sono i pensieri e le azioni: ambigue e contorte. Come la scelta di non assicurare l’orfanotrofio, che si sta andando ad inaugurare, per dimostrare alla gente che non bisogna temere la Provvidenza. Ma c’è Osvald (un densissimo Gianluca Merolli), l’amatissimo figlio di Helene, che nonostante l’ereditato destino di fragilità, ha il coraggio di aprire la porta della gabbia dorata, permettendo l’entrata di aria fresca.

Gianluca Merolli e Andrea Jonasson in una scena di “Spettri” di Rimas Tuminas

Ma purtroppo il suo aver “trovato le parole giuste per mettere in ordine gli eventi” provocherà l’apertura del “vaso di Pandora” che sua mamma fino a quel momento era riuscita ipocritamente a tenere ben serrato. E tutti gli spettri si paleseranno: “ombre di antiche convinzioni sbagliate, che continuano ad agitarsi dentro di noi”. Sarà la fine. O forse un nuovo inizio.

Il sinergico cast di “Spettri” di Rimas Tuminas

Perché solo così una madre, fino ad allora morbosamente legata al figlio, scoprirà il suo autentico ruolo: quello di alimentare il desiderio di vita. Nonostante tutto.

Di commovente bellezza alcune scene: la danza con lo specchio degli spettri e l’inedita “Pietà” di una madre che, nel momento di maggior dolore, accetta si “staccarsi” dal figlio, rinunciando finalmente “a tenerlo in braccio”. Permettendogli così di iniziare a reggersi in piedi. Con i propri piedi.

Applausi profondamente intensi alla prima di “Spettri” di Rimas Tuminas


Leggi l’intervista rilasciata da Andrea Jonasson al “Corriere della sera”


Diario licenzioso di una cameriera

TEATROSOPHIA, 11 – 13 novembre 2022 –

E’ in una stazione, luogo dove s’incontrano vite (e metafora della vita che, come un treno, sfreccia tra paure, sogni e desideri) che noi incontriamo Célestine (un’ammaliante e profonda Giovanna Lombardi).

Lei è (apparentemente) l’unica protagonista del “Diario licenzioso di una cameriera”: emozionante adattamento del regista Gianni De Feo della pièce del rinomato drammaturgo Mario Moretti, che a sua volta adattò dal testo originale di Octave Mirbeau “Journal d’une femme de chambre“. 

Seduta, ma cangiante come i colori dei cieli dolci e piovosi della Normandia, Célestine aspetta di arrivare alla sua nuova destinazione lavorativa, al suo nuovo destino. È di una bellezza austera e sensuale: sembra uscita da un manifesto di Toulouse Lautrec (i costumi sono di Roberto Rinaldi).

Henri de Toulouse Lautrec, Divan Japonais – 1893-

Quando inizia a rivolgerci la parola siamo invasi dalla sua malizia. Ci arriva dalla sua voce golosa; dal suo corpo che si offre e si cela; dalla sua bocca così morbida e umida; dal suo tatto così avido di superfici da esporare.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

E dai suoi gesti così in simbiosi con la musica. Ma sono i suoi occhi a stregarti e a portarti via con lei. Dovunque il suo capriccio decida di andare. Occhi che proiettano paure, eccitazioni, gioie. Occhi che sanno parlare anche in quei silenzi così potentemente densi. Nella malìa della sua narrazione, Célestine denuncia l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro, appartenenti a quella borghesia che ostenta “case linde e pinte dietro facce disgustose”.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Lei presta servizio come cameriera e si descrive in una maniera che potrebbe farla risultare un’opportunista. Lo è. Anche. Ma non solo. Il suo non è un mero scambio di servizi. Lei “sa guardare”. Non solo con gli occhi ma anche con la mente. E con il cuore.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Ha la capacità di visualizzare anticipando gli eventi che la coinvolgono e poi la prontezza di sincronizzarvisi. Per questo quando ci parla degli uomini e delle donne che ha incontrato, lei “scatta” veri e propri “ritratti” umani. Non si accontenta di lavorare per vivere. Vuole “sentire”, piuttosto, cosa significa vivere. In quanti modi si può vivere. Quanto può essere seducentemente contraddittoria la vita.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Come può accadere di essere attratti dalla violenza che si mischia alla protezione e dalla malattia che è anche fonte zampillante di vita?

Eppure accade, se non ci si ferma sulla soglia delle ipocrite classificazioni borghesi. Perché se si ha davvero fame di vita, non si può non riconoscere che il bene non si dà mai disgiunto nettamente dal male. Giudicare non ha più senso, allora. E non è più vero, come aveva dichiarato inizialmente, che lei sia impenetrabile: che nulla la meravigli. Lei sa di essere “una donna che fa sangue”, che ha bisogno di sedurre e di essere sedotta. Sa che la sua luce è data dalle sue ombre e non teme di rivelarle, quando anche l’altro le fa dono di ciò che non ha.

Questo adattamento del “Diario licenzioso di una cameriera” di Gianni De Feo è uno spettacolo magnetico: un inaspettato viaggio emozionale . Merito di una regia curatissima, introspettiva e raffinatamente sfacciata. Le scene (di Roberto Rinaldi) sono semplici ma efficaci pennellate di ottimo gusto e il disegno luci, unito alla complicità delle scelte musicali, fonte diegetica: alcuni momenti sono costruiti su immagini scritte con la luce.

Parenti a sonagli

PICCOLO TEATRO SAN VIGILIO, dal 28 al 30 Ottobre 2022 –

Il sipario si apre su un’originalissima scenografia bidimensionale, dal tratto fumettistico. È impeccabilmente bianca e dai contorni molto ben definiti da un deciso tratto nero. Cifra dello stile di Elisabetta Mancini si sta confermando essere quello di prediligere scene che parlino di particolari luoghi della mente.

Nello specifico, qui, la Mancini ci sta conducendo nella bidimensionalità dei personaggi che sono sul punto di entrare in scena: individui “senza spessore”, senz’anima. Sterilmente rispettosi delle regole: quei bordi così “neri” delle convenzioni sociali. La sindrome del “finto rispetto altrui” si è talmente diffusa, da creare “metastasi” anche negli oggetti di scena: anch’essi privati della tridimensionalità.

Questa gabbia perbenista ospita personaggi che, seguendo i dettami della “moda” del momento, vestono totalmente in giallo: il colore del “veleno” di cui sono carichi. Geniale l’ambiguità che si crea, ad un certo punto, all’udire una sorta di scampanellio: sacro rituale di richiamo della “Squilla” o istintiva sonorità di difesa dei serpenti a sonagli?

Ma ecco che “…sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi…”: registicamente la Mancini decide di far uscire queste rispettosissime serpi dalle loro gabbie per farle insinuare tra i corridoi della platea. Facendoci annusare l’odore della tragedia dello squallore borghese. “Sono intorno a me ma non parlano con me, sono come me ma si sentono meglio” .

È la Vigilia di Natale e sembrano così uniti nell’andare alla Santa Messa di Mezzanotte!!! La loro velenosa “pelle” gialla ricoperta devotamente da quei bei capi-spalla rossi ! Ma lo spettatore non può non riconoscere che l’unico momento in cui li scopre davvero uniti, contemporaneamente tutti sintonizzati nello stesso intento, è in realtà quando proprio durante il pranzo di Natale “la dea” televisione, alla quale loro sono soliti rivolgersi quasi fosse l’oracolo di Delfi, emana la soluzione alle loro preoccupazioni.

Sono così devotamente attenti al “responso” che, in quest’unico momento di empatia collettiva, si cercano con lo sguardo. Indossano tutti, per onorare la sacralità della festività, un accessorio blu oltremare. Per andare “oltre”: “niente scrupoli o rispetto verso i propri simili, perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili”.

E pensare che a guardarli, cromaticamente ricordano così tanto un bel cielo stellato vangoghiano… 

Gli attori dell’Associazione “L’equilibrio” hanno dato prova di una buona coralità. Su tutti brilla per spontaneità e naturalezza il giovanissimo Oliviero Chimenti.

Creativi realizzatori dell’estroso progetto scenico sono i due interpreti Giuliano Morelli e Tina Oliveri.

I costumi sono invece curati da Monica Raponi.

Il male dei ricci

TEATRO ARGENTINA, 10 Settembre 2022 –

Uno spettacolo “giocato” sulla ricerca della “giusta distanza”, dove Fabrizio Gifuni interpreta un Pier Paolo Pasolini che anela ad un contatto più vero con il pubblico. Fin da subito, si offre spingendosi sul confine del proscenio per poi “sfondare” la quarta parete fino a sedersi sui gradini, che lo vorrebbero separato dalla platea. E ancora più giù: in platea. Poi risale. Più tardi tornerà.

Quella di Pasolini è un’urgenza ad essere “messo a fuoco”, ad essere “inquadrato” nella giusta luce. E nessuno spazio più del teatro è adatto a dare la giusta ospitalità ad uno “spettro”, ad un “fantasma”. Perché è così che Gifuni si muove e Pasolini si sente ancora. “Un corpo sul quale si continua ad inciampare, non essendogli stata data giusta sepoltura”.   

Nasce da questa esigenza, probabilmente, anche l’idea drammaturgica di interpolare determinati testi (“avvicinandoli” per mescolarli; “allontanandoli”  per ripulirli; “integrandoli” per delucidare) con l’obiettivo, così caro anche ad Antigone, di condividere amore e non odio. Cercando un equilibrio tra “appartenenza” e “separazione”: poli che caratterizzano la nostra stessa esistenza.

L’adattamento di Gifuni parte da un concetto chiave: quello di nostalgia, di rimpianto. Si allaccia alla lettera aperta (scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera) a Italo Calvino dove Pasolini si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia». Il  rimpianto di Pasolini si è sempre  rivolto piuttosto al «mondo contadino prenazionale e preindustriale», che ha vissuto «l’età del pane» ed era «consumatore di beni estremamente necessari». Non una classe sociale ma piuttosto un modo di vivere quasi roussouniano, una spinta a godere del sacro, precedente la storia. Precedente lo stato di alterazione vitale borghese: una “malattia” che provoca la desacralizzazione della vita.

Ciò che colpisce ed emoziona, è la modalità tutta gifuniana di “giocare” con il proprio ruolo: affiancandolo al protagonista del testo, o facendolo apparire/scomparire; nascondendolo o lasciando che il protagonista del testo si nasconda dietro Gifuni stesso. Cosicché lo spettatore finisce per trovarsi ad assistere a una sorta di danza tra narratore e personaggio; tra discorso diretto e indiretto. E come in una magica dissolvenza, Gifuni si appassiona a far balenare frammenti, dettagli. Uno spettacolo di una tale forza dirompente sul pubblico da sancire il sacro rituale della scena. 

Non smette d’incantare, poi, la duttile corposità della sua voce; le mille modalità di “stortare” la bocca e di dare “forme” al corpo, finanche a divenire “fenicottero”: animale simbolo di equilibrio, sensibilità e rinascita. Conquistando e regalando allora, almeno per un attimo, quell’ “equilibrio” anelato.

E “allumando” tutta la scena.

Le favole di Oscar Wilde

TEATRO INDIA, 26 Luglio 2022 –

– PALCOSCENICO PER L’ESTATE ROMANA 2022 –

“Come va?”: così esordisce Gabriele Lavia entrando in scena. E, una volta sistemato il libro sul leggio, si spinge verso il punto più estremo del proscenio: per essere più vicino possibile al pubblico in sala. È consuetudine nei suoi recital, cercare subito il contatto con la platea. Bonariamente la solletica: la pretende preparata e in febbrile tensione d’ascolto. La saggia e, solo una volta raggiunta la giusta sintonia, inizia. E la conduce dentro i sentieri più nascosti delle parole, invitandola ad apprendere la necessaria abitudine di sviluppare una particolare attenzione all’etimologia delle stesse. Perché occorre conoscere il “passato”, incluso quello delle parole: solo il “passato” possediamo ed è attraverso di esso che veniamo traghettati, o come preferisce dire Lavia, “tradizionati” verso il presente e quindi il futuro.

Infine, è con un aneddoto, che rivela il perché della scelta del tema del recital. In verità, ci confida, è stato il libro stesso (quello de “Le favole” di Oscar Wilde appunto) a farsi scegliere, con la complicità di un altro libricino retrostante. Spingendolo, lo aiuta a rompere gli indugi per farlo fuoriuscire dall’ordinato incastro della libreria di casa Lavia. Così cade a terra e, provocando l’inciampo del proprietario, ne attira l’attenzione. Qual è il titolo del libro complice? “Il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist, autore avanguardistico che anche in questo caso, liberando cioè il concetto di “grazia” da quello di rettitudine morale, si distingue per una originalità difficilmente eguagliabile. Una complicità a tutto tondo quella tra i due libri e i due autori !

All’interno di una girandola di eleganza, “Le favole” sono un incanto di ironia e un mosaico di paradossi. Nessuna è a lieto fine: parlano, metaforicamente, di un Oscar Wilde lacerato e travagliato eppure così capace di ricomporre il tutto in un’armoniosa forma (apparentemente) fantastica. All’epoca, il padre era una figura temuta e rispettata dai figli, con cui si manteneva un rapporto formale e freddo.

Oscar Wilde, invece, amava giocare con i propri figli, ignorando quella rigida compostezza tipica del cittadino inglese vittoriano. Era solito leggere loro favole di Jules Verne e di Stevenson, ma anche favole di sua mano. I primi destinatari e giudici delle favole sono stati i suoi figli, ma nel 1888 Wilde decise di pubblicarle in un raccolta. Così nacque “Il principe felice e altri racconti”: cinque racconti per bambini, dallo stile semplice e delicato, che conquistarono subito il cuore dei piccoli inglesi. Anche per la loro originalità: Wilde vi introduce elementi di modernità, come spunti critici sulla società del tempo. 

Gabriele Lavia sceglie per il recital “Il Principe felice” e ” Il razzo eccezionale”. La sua interpretazione conosce e restituisce il magico rapporto in cui ritmo, tono, vibrazione e energia entrano in ciascuna parola, accompagnando il visibile ad una dimensione invisibile. Misteriosa. Nella quale la platea resta immersa fino alla fine. Come in simbiosi.