Uno sguardo dal ponte

TEATRO ARGENTINA, dal 14 Marzo al 2 Aprile 2023 –

Cos’è, davvero, un uomo? 
Cosa possono le leggi del vivere civile nell’arginare l’essenza più “pura”, più autentica di un uomo?

È uno splendido adattamento shakespeariano quello realizzato da  Massimo Popolizio, interprete e regista di questo affascinante testo di Arthur Miller, che mette in luce quanto la natura umana possa rivelarsi insospettabilmente ambigua e contraddittoria: “una malerba soavemente delicata, di un profumo che dà gli spasimi “.  

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

L’attenta regia cinematografica scelta da Massimo Popolizio per “girare un film a teatro” sa dove e come seminare indizi: presagi ineluttabili, a specchio, che tengono sostenuto il tono della suspense. Eddie Carbone (il protagonista) riconoscerà, infatti, l’incendio della passione che lo abita, vedendolo “bruciare” negli altri; scoprirà che denunciare immigrati connazionali è una tentazione in cui anche lui può cadere ma soprattutto che ci si può ritrovare ad essere attratti irresistibilmente da ciò che non è “retto” , che sfugge ai canoni legali, che non è “regolare”.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio


Non a caso la scena (curata da Marco Rossi) è quasi costantemente plumbea, chiusa su se stessa: solo il “Caos” che domina la vita riuscirà a forzare il suo ostinato immobilismo. Il fondale è di un grigio lattiginoso, confuso, che proiettori da terra rendono variamente inquietante, o ambiguamente misterioso, anche nei momenti meno tenebrosi. E poi c’è lui: il ponte di Brooklyn, reso attraverso tre diversi campi cinematografici: corto, medio e lungo. Quel ponte, in teoria collegamento solo verso il meglio, in pratica si rivela “sospensione esistenziale”: varco attraverso il quale la tragedia può entrare nella vita umana sorprendendoci inermi. E poi attraversarla, rompendo i “nostri” progetti, per costruirne altri. Apparentemente solo suoi.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Michele Nani (Avv. Alfieri) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Uno non può sapere ciò che scoprirà“- ci ricorda l’avvocato Alfieri (un inconsapevole Iago, reso da un efficace Michele Nani), unico personaggio del presente a cui viene affidata la funzione, da coro greco, di narratore e commentatore esterno della vicenda, che l’arguta regia di Popolizio trasforma in un lungo flashback.

Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Inaspettate le caratterizzazioni delle due figure femminili: Beatrice ( la moglie di Eddie) e Catherine  (la figlioccia). Intraprendenti ed emancipate. Una scelta, questa del regista Popolizio, coraggiosa ma geniale.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Catherine, un po’ come una Lolita in bilico tra nostalgica fanciullezza e prorompente  femminilità, abbraccia lo zio a cavalcioni e condivide con lui le sue prime seduzioni di donna: il nuovo ammiccante colore di capelli rosso rame; la gonna corta e di un tessuto così generosamente disposto a tirarsi indietro da assecondare i suoi ancheggiamenti, ma soprattutto le nuove scarpe col tacco, che con un guizzo di femminilità, modificano la sua postura. È  portentosa Gaja Masciale: ancora un po’ goffa come sa esserlo una bambina e insieme abitata da quella irruente sensualità di giovane donna, posseduta dal ritmo pulsante della vita.

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

E poi Beatrice, la moglie di Eddie: una Valentina Sperli divina nel suo essere donna anche se di una femminilità diversa, propria dei suoi anni. Una donna che sa educare all’apertura, all’ebrezza della vita e che ha ancora fiuto e quindi annusa il pericolo di chi sta invadendo il suo territorio. Una donna che con classe graffiante reclama il marito e la loro intimità. Che sa parlare entrando in un vero rapporto dialettico con il suo uomo, il cui folle amore però “lo soffia il cielo”.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Massimo Popolizio è un Eddie Carbone densissimo e insieme trascinante. Immanente e trascendente. Un uomo che con “eleganza” ci trasmette la pesante imprevedibilità del vivere.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E’ simpatico, spiritoso, ironico ma anche responsabile e ponderato. È sinceramente affettuoso: come uno zio può esserlo. Però scopre, e noi con lui, che è anche altro: qualcosa difficile da riconoscere ma soprattutto difficile da contenere. Una smania di “avere” ciò che la legge del vivere civile ordina che non si può avere. Una strana “inquietudine” che lo possiede come un corpo esterno: quella che lo Iago shakespeariano chiamava “il mostro dagli occhi verdi”: la gelosia. Qui anche vagamente incestuosa.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E se non c’è modo di arginarla attraverso le leggi, non resta che tentare l’intentabile, il proibito: ciò che lui stesso, razionalmente, aveva definito deprecabile quando a farlo erano stati gli altri. Un incendio il suo, che lo possiede ineluttabilmente e propagandosi brucia anche gli altri. Ed è così vero Massimo Popolizio nell’interpretare questa umanissima difficoltà, che non riusciamo a non comprenderlo, schierandoci dalla sua parte. Come un vero personaggio shakespeariano.

Il cast dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” al completo

Fidati complici di scena sono tutti gli altri interpreti ancora non citati: Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Felice Montecorvino (Tony), Marco Mavaracchio (Agente), Gabriele Brunelli (Agente) e Marco Parià (Louis).

I costumi, curatissimi quanto efficaci, sono di Gianluca Sbicca.

Una pura formalità

TEATRO MARCONI, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

È un punto di fuga decentrato la vita, per noi che ci ostiniamo a passare gli anni che ci vengono concessi in sorte a “ricordare ciò che c’è da cancellare“. Con queste parole Giuseppe Tornatore sceglie di suggellare la chiusura dell’omonimo film al quale questa riduzione teatrale, diretta dal regista Roberto Belli, si ispira.

Scena finale del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

E affida “la rivelazione” contenuta in esse al modulare “decentrato” del canto di Gerard Depardieu:

Ricordare,

ricordare è come un po’ morire

tu adesso lo sai perché tutto ritorna, anche se non vuoi

E scordare,

e scordare è più difficile

ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare…

(“Ricordare”, testo di Giuseppe Tornatore, musica di Ennio Morricone)

Intenzione del titolo, infatti, è quella di indurci, provocatoriamente, a pensare che la morte (così come la vita) non sia altro che una pura formalità agevolmente espletabile. Qualcosa di noioso magari, ma estremamente pulito, lineare. Così semplice e innocuo da divenire quasi inconsistente.

Roman Polanski e Gerard Depardieu in una scena del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Ma è davvero così ? E se invece fosse qualcosa di vischiosamente fangoso e pesantemente rammollito da una pioggia insinuante, ossessiva e disorientante ? Un diluvio che col tempo si modula in una sorta di stillicidio ? Stillicidio che, non a caso, abita davvero la scena (curata da Eleonora Scarponi): reali perdite d’acqua, infatti, s’insinuano dall’alto e, provvisoriamente convogliate in secchi, regalano al clima drammaturgico una sinistra e suadente musicalità dalla scomposta grazia.

Una delle scene iniziali del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Claudio Boccaccini, che siamo soliti conoscere e riconoscere dalle “regie di luce” che caratterizzano i suoi spettacoli, qui è anche l’interprete di Onoff, uno scrittore profondamente in crisi che una notte si ritrova a correre, vagando disorientato, sotto un diluvio di pioggia. Da qui prende avvio lo spettacolo. E desta grande stupore, una meraviglia che ammutolisce, l’intima adesione che Boccaccini riesce a trovare per “farsi personaggio”,  restituendoci tutta la grandezza epica di “un mito” in decadenza capace ancora, tuttavia, d’illuminarsi di una metafisica aura ieratica. E ci commuove. Profondamente. E proprio nel momento in cui riesce a farci mollare ogni resistenza, ci identifichiamo in lui. Nel suo destino, che è anche il nostro. Ed è catarsi.

Claudio Boccaccini è Onoff

Complice di tale incantesimo è anche quell’intesa profonda che riesce ad instaurare con un Commissario qual è quello interpretato da un elegante e calibrato Paolo Perinelli, dalla capacità maieuticamente socratica di “tarare” ciò che non serve. Sarà infatti attraverso l’arte di fare domande (solo apparentemente da Commissario di polizia) che permetterà il parto narrativo ed esistenziale di Onoff, costringendolo a riflettere sulla portata di quei concetti dati erroneamente per scontati e sulle contraddizioni in essi serbate.  Perché solo eliminando il troppo e il vano da ciò che Onoff pensa (e che ha deciso di ricordare), potrà aiutarlo nel conquistare una nuova, autentica e “centrata” consapevolezza di sé. 

Paolo Perinelli (il Commissario)

E da spettatori ci si ritrova ad immaginare che forse sarà su questo che, dopo la nostra morte, una volta condotti in una Stazione di Polizia-Purgatorio, qualcuno ci farà riflettere: su come va cercata la nostra autentica verità. 

Andrea Meloni (Andrè)

Il “quadro” registico “dipinto” dal regista Belli trova compiutezza anche attraverso i contributi interpretativi dei tre collaboratori del Commissario. Andrea Meloni sa regalare ai panni di André il dattilografo una poeticità capace di illuminare la subordinazione verso il Commissario di un intimo e quasi incontenibile trasporto ad accogliere il “fango umano” di Onoff.  Paolo Matteucci (il Capitano) e Riccardo Frezza (la Guardia) riescono a tratteggiare, con un’interessante nota di ambiguo zelo, due insolite figure di angelici aguzzini.

Riccardo Frezza (la Guardia) e Paolo Matteucci (il Capitano)

Il linguaggio delle luci, com’è nella cifra di Claudio Boccaccini, risulta disegnato in modo raffinato e profondo, tecnicamente sobrio ma virtuoso nelle metafore visive. E soprattutto risulta capace di generare toni narrativi estremamente coinvolgenti: tra suspense hitchcockiana e dialogo morale bergmaniano

Claudio Boccaccini

Ne deriva uno spettacolo intimo e insieme aperto al dubbio; generatore di stati d’animo disposti a conversare sui quesiti connaturati alla nostra condizione umana. Un’indagine sulla vita che approda alla scoperta che comprendere è più importante che condannare.

Ed è così che uno spettacolo diventa arte lirica visiva: danza tra musica ed immagini. Riuscendo ad attraversare la pelle dello spettatore per tatuarvisi come ricordo.

Il cast dello spettacolo “Una pura formalità” di Roberto Belli

Come tu mi vuoi

TEATRO QUIRINO, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Elma ! Lucia ! Lucia ! Elma ! Elma ! Lucia !

Nomi, ossessivamente, risuonano sulla scena. Quale migliore inizio poteva immaginare il regista Luca De Fusco per affrontare questo testo così meravigliosamente ostico di Luigi Pirandello ?

Luca De Fusco, regista dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

I nomi propri, infatti, sono il miglior veicolo per affrontare il tema, così caro a Pirandello, delle molteplici identità che ci abitano. Perché pur definendosi “propri” i nostri nomi sono sempre decisi dagli altri. E soprattutto sono carichi delle “loro” aspettative. Il nostro nome proprio non è nostro, sfugge al nostro potere, alla nostra volontà. È un po’ come essere dei copioni scritti da altri.

Lucia Lavia (Elma) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

La protagonista di questo dramma, invece, un nome osa darselo autonomamente: Ignota. Più che un nome è una condizione, di cui è consapevole. Questa la sua vera identità: essere sconosciuta a se stessa e agli altri. Alcuni la chiamano Elma, altri Lucia. Da qui il senso del titolo: sono come tu mi vuoi. “Fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi ! “.

Lucia Lavia (Lucia Pieri) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

Non si sa quindi quale sia la vera identità della donna al centro della trama: è Elma, una lasciva ballerina da locali notturni, oppure Lucia Pieri, moglie borghese scomparsa nel nulla e ricercata dal marito Bruno? Intorno al dilemma ruotano i dialoghi della pièce, che approda a un amaro finale.

Lo smemorato di Collegno

Questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano, può aver tratto ispirazione da un celebre fatto di cronaca, avvenuto in Italia alla fine degli anni ’20, quattro anni prima della stesura di questo testo: il caso giudiziario dello «smemorato di Collegno», ovvero l’ambigua questione dell’identità di un uomo, ricoverato nel manicomio di Collegno, che una famiglia rivendicava con il nome di Giulio Canella e un’altra con quello di Mario Bruneri. Pirandello però negò sempre che “Come tu mi vuoi” avesse preso spunto da quel rebus: amava sottolineare provocatoriamente che piuttosto è stata la cronaca a copiare il suo precedente lavoro “Così è (se vi pare)”, che si conclude con l’iconica frase della signora Frola: «io son colei che mi si crede».

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Un tasso di innovazione drammaturgica molto elevato porta il regista Luca De Fusco a inglobare una molteplicità di contributi nel linguaggio spurio e multi-sistemico del teatro . Questa la sua cifra stilistica perché questa per lui è la forza del Teatro. È il suo un teatro alla Robert Wilson, dove confluiscono fortemente influenze cinematografiche e dove protagonista indiscussa è la luce.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

In questo spettacolo, nello specifico, De Fusco sceglie di dare una lettura dei personaggi non caricaturale ma “esistenzialista”. Complici i preziosi contributi della nota scenografa Marta Crisolini Malatesta e del maestro della luce Gigi Saccomandi. Una tale appassionata sinergia dà vita ad una messa in scena portentosa, dove un telo “vela” la quarta parete per aprirla ad uno sguardo più intimo e conturbante: quello dei pensieri e delle emozioni più inconfessabili. Spudoratamente sezionati e ossessivamente replicati sulla “retina” dei nostri occhi.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

E moltiplicati serialmente da una scenografia di specchi, che come un ipnotico ventaglio ci allontana, in realtà avvicinandoci, le molteplici identità dei protagonisti. Scorre nello spettatore il ricordo della scenografia utilizzata nel 1948 da Orson Welles per “La signora di Shanghai”, così come la trasformazione dell’Ignota defuschiana in una dark lady, alla maniera in cui Welles volle trasformare Rita Hayworth. E ancora, il messaggio intrinseco del film, così vicino a questo testo pirandelliano: squali che divorano se stessi in un cupo mondo coinvolto in inesplicabili complotti. Un universo di inganni dominato dall’ambiguità delle persone e dei sentimenti.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Il ruolo di prima attrice di questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano viene affidato dal regista De Fusco a una delle stelle nascenti del panorama attoriale italiano: la giovane Lucia Lavia. Conosciuta per l’indefessa determinazione e per l’appassionato impegno, Lucia Lavia dimostra di continuare ad affinare le proprie capacità artistiche e la sua intelligenza teatrale, spaziando tra codici recitativi e drammaturgici differenti. La sua interpretazione risulta profondamente intensa: graffiante e insospettabilmente tenera; erotica e struggentemente malinconica. Una Femme fatale venata dalla tragicità di un Pierrot. La sua capacità di restituire una ricchezza di sfumature così umanamente eccessive, emoziona e commuove.

Lucia Lavia

Suoi affiatati compagni di scena si rivelano Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.

Leggi l’intervista rilasciata al Corriere della Sera

Leggi l’intervista rilasciata a Repubblica

Medea

TEATRO ARGENTINA, 19 Maggio 2022 –

Un vero e proprio elogio dell’imperfezione, quello che è andato in scena ieri sera al Teatro Argentina: una preziosa occasione per percorrere nuove strade e trovare nuove soluzioni. Imperfezioni da capire ma soprattutto da ammettere senza pudore. E magari risolvere. Perchè “sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna, che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto” (da Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam).

Ideata e diretta da Dario D’Ambrosi, la Medea di Euripide ci si offre in una particolarissima versione: quella interpretata dagli attori diversamente abili della Compagnia stabile del Teatro Patologico, a conclusione del Corso universitario sperimentale di Teatro Integrato dell’Emozione. Il Corso, realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, coinvolge circa cinquanta ragazzi disabili psichici e fisici, provenienti da tutte le zone di Roma. Nel 2017 questo Corso, unico al mondo, è stato presentato presso la Sede delle Nazioni Unite a New York, in occasione della celebrazione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. Un’ iniziativa che promuove la formazione di una rete di supporto integrato, capace di dare inizio ad una rivoluzione in ambito assistenziale. Ma soprattutto sociale e politico.  Gli interpreti sono affiancati, sulla scena, da attori professionisti, tra cui Sebastiano Somma, Almerica Schiavo insieme a Paolo Vaselli e Marina Starace.

L’ adattamento di Dario D’Ambrosio (fondatore, presidente e direttore artistico dell’Associazione Teatro Patologico) pone al centro dello spettacolo il rapporto tra corpo e linguaggio, veicolato dalla musica dal vivo, che accompagna i momenti in greco antico. Perchè il linguaggio musicale non è un tappeto ma un vero e proprio intervento corporeo, capace di arricchire le suggestioni evocate da un lingua antica e musicale, come il greco antico. Le musiche originali sono di Francesco Santalucia mentre la direzione del Coro e delle Percussioni è affidata a Francesco Maria Crudele, in arte Papaceccio. Potentemente poetico l’intervento al flauto traverso: quasi una visione di Ian Anderson dei Jethro Tull.

Lo spettacolo, che emana un forte senso di coralità, si articola per “quadri” che visualizzano quei momenti della tragedia di Euripide che più si caricano di pathos contraddittorio, dove cioè il desiderio di potenza e il terrore dell’impotenza convivono. Degli interpreti è impossibile non apprezzare la sacralità dei gesti, la precisione coreografica, la concentrazione e la presenza scenica.

Curatissimi e potentemente evocativi i costumi di Raffaella Toni.

Lo spettacolo ha fatto il giro del mondo, calcando palcoscenici internazionali come: il Quartier Generale delle Nazioni Unite di New York (ONU), l’Auditorium Umberto Agnelli di Tokyo, il Winton’s Music Hall di Londra, il Parlamento Europeo di Bruxelles, e ancora il Market Theater di Johannesburg (Sudafrica) e il Teatro Cafè La Mama di New York.

Con vivo auspicio, ci si augura che questo prezioso corso universitario sperimentale possa essere trasformato in corso ufficiale e diffuso nelle Università di tutta l’Italia.

Gli amici di Peter

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 15 Maggio 2022 –

“La verità non è facile da dire”.

Che cosa “ci accade” veramente? Che cosa vogliamo davvero?

Queste le domande sulle quali Stefano Messina, regista di una profonda e brillante commedia, sceglie di farci riflettere. Così come con elegante coerenza Alessandro Chiti, che ne cura la scenografia, riesce ad alludere con efficacia.

Ciò che ci appare chiaro e nitido in realtà non lo è. La verità, come sosteneva Arthur Schopenhauer, è ricoperta da un velo, difficile da attraversare. “Ci vuole arguzia” – sembra volerci suggerire il regista: ecco allora che in apertura dello spettacolo, a mo’ di prologo, la testa di un attore riesce ad individuare una feritoia e da lì sbuca, penetrando il velo del sipario. E così riusciranno a fare anche i suoi amici: acrobaticamente in verticale, sfruttandone morfologicamente l’opportunità.

Perché è con profonda leggerezza, complicità ed altruismo che possiamo riemergere da situazioni disperate, da “stagnaro ignaro”. C’è sempre un modo per “far benzina”, anche quando la macchina si arresta nel bosco: questo è il segreto nascosto nell’allegro e spensierato jungle da avanspettacolo che apre e chiude l’interessante adattamento proposto dal regista.

E dove i suoi attori, come “vecchi guitti”, sanno farsi coinvolgenti interpreti, calandosi nei diversi ruoli nei quali siamo chiamati “a giocare” ogni giorno. Tutti i giorni. Per tutta la vita.

Le canzoni di Pasolini

TEATRO VASCELLO, Dal 21 al 24 Aprile 2022 –

Intermittenze del cuore: così Pier Paolo Pasolini amava definire le canzoni.

Lo conosciamo come poeta, innanzi tutto, ma la sua vastità d’interessi lo portò ad essere anche romanziere, saggista, regista cinematografico, autore teatrale, sceneggiatore, pittore. E poi c’è la musica. Pasolini suonava il violino ed ebbe un periodo di infatuazione totalizzante per la musica, in Friuli, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale. Era ossessionato da Johann Sebastian Bach, nella cui musica trovava il punto di congiunzione tra i due poli di una dialettica della passione, opposti e contraddittori ma sempre in relazione. Sarà poi negli anni Sessanta, ormai cittadino di Roma, a dedicarsi alla scrittura di testi per canzoni: quelle che lui definisce “poesia folclorica” e che raccoglie nella poderosa antologia della poesia popolare “Canzoniere italiano” . Ma è solo l’inizio di un lungo percorso di collaborazioni e di esplorazioni musicali.

In occasione dei 100 anni dalla nascita, dopo i debutti a Casarsa e a New York, dal 21 al 24 Aprile il Teatro Vascello offre la possibilità di rivivere la magia delle “intermittenze del cuore” pasoliniane attraverso lo spettacolo-concerto “Le canzoni di Pasolini”: quattordici pezzi arrangiati dal Maestro Roberto Marino e interpretati a tutto tondo da Aisha Cerami e da Nuccio Siano, che ne firma anche la regia.

Le appassionanti e appassionate voci dei due protagonisti, sono accompagnate dal Maestro Roberto Marino al pianoforte, da Andrea Colocci al contrabbasso e da Salvatore Zambataro alla fisarmonica e al clarinetto. Sul fondale, la video proiezione, realizzata dal regista cinematografico Daniele Coluccini, fa scorrere preziose immagini di archivio che raccontano la vita di Pasolini.

La figlia del grande scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, amico di Pasolini e divulgatore delle sue opere, definisce questi brani “vere e proprie storie: “cantare Pasolini significa interpretare dei ruoli”. In queste serate i ruoli che lei interpreta sono quelli di prostitute: donne di strada ma ribelli e forti. “Tecnicamente queste canzoni sono una sfida – continua l’interprete – prevedono pathos e delicatezza. Essendo canzoni-personaggio occorre lavorare molto sui cambi di registro”. Nel caso del “Valzer della toppa” il tono trasmette tutta la forte energia vitale del mondo di borgata:

“Me so’ fatta un quartino | m’ha dato alla testa, | ammazza che toppa!… An vedi le foce! | An vedi la luna! | An vedi le case!… Me so’ presa la toppa | e mò so’ felice!”. 

Ne la “Ballata del suicidio”, invece, la vitalità e l’energia del mondo di borgata sono ormai soppresse e la voce della donna è schiacciata e rassegnata, incapace di reagire alla durezza della vita e al mutamento che investe e cancella il suo mondo. 

Ad aprire lo spettacolo la voce del poeta nei versi della sua “Meditazione orale” sulle note di Ennio Morricone, in un’incisione del 1970 realizzata da Roma Capitale. Poi, l’avvio dello snodarsi della selezione dei brani, a testimonianza del profondo rapporto di Pasolini con la musica. Canzoni scritte per il cinema, canzonette scritte per puro piacere, poesie messe in musica. Alcuni brani sono molto famosi come i titoli di testa del film”Uccellacci e uccellini”, interpretati dalla voce di Domenico Modugno, così come il brano “Che cosa sono le nuvole?” . Tutti portano la firma di grandi musicisti: da Morricone, Hadjidakis e Umiliani a Endrigo, Modugno e De Carolis.

L’interpretazione e gli arrangiamenti dei quattordici brani (tra cui cinque inediti del Maestro Roberto Marino) riescono a trascinare perdutamente lo spettatore, attraverso il percorso storico-emozionale proposto da questo incantevole spettacolo-concerto. 

Così, nel pieno rispetto del valore che Pasolini attribuiva al pensiero musicale, dove alla musica e ai suoni annidati nelle parole risiede la capacità di oltrepassare i confini visibili del reale, evocarne il mistero e condurre l’espressione a un livello così complesso e profondo da fargli dire : ” …vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare ….”.