L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

Recensione dello spettacolo ELETTRA -Tanta famiglia e così poco simili – di Hugo Von Hofmannsthal – adattamento e regia di Andrea Baracco –

TEATRO VASCELLO, Dal 25 Marzo al 3 Aprile 2022 –


di Hugo Von Hofmannsthal
con Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Carlotta Gamba, Alessandro Pezzali

scene Luca Brinchi e Daniele Spanò 
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche originali Giacomo Vezzani
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
adattamento e regia Andrea Baracco

produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

con il patrocinio di Forum Austriaco di Roma


Quasi una Proserpina rock, l’Elettra, dea degli Inferi, messa in scena dal regista Andrea Baracco ieri sera in Prima Nazionale al Teatro Vascello di Roma: stesa a terra in posizione fetale, è attratta prepotentemente dalla terra-utero, dove sceglie d’imprigionarsi alla morte del padre. Lui si rende presente da un’aldila virtuale ma non la guarda: fissa noi del pubblico e si commuove. Quasi a chiedere la nostra misericordia verso questa storia. Anche Elettra (una potente Flaminia Cuzzoli) non lo guarda e gli dà le spalle. Ma lo canta: solo così riesce a instaurare una qualche forma di comunicazione emotiva. In un angolo, in un canto.

Flaminia Cuzzoli è Elettra

Dietro di lei, il castello-acquario con quel che resta della sua famiglia: incancrenita, al vetriolo.

Carlotta Gamba è Crisantemi

In fondo a sinistra, nell’angolo opposto rispetto a quello in cui si rintana Elettra, il rifugio colmo di abiti da sposa di sua sorella Crisotemi (la fremente Carlotta Gamba, ostinatissima nell’impugnare il suo bouquet nuziale) disposta ad accogliere qualsiasi marito decidano per lei, pur di essere gravida, pur di riempire quel vuoto così mostruosamente pieno di cose da nascondere. 

Al centro del castello troneggia lei, un’oniricamente lussureggiante Manuela Kustermann nei panni di Clitemnestra, la donna il cui sguardo semina morte. Dice di vivere in una vertigine (in cui riesce a muoversi su argentei tacchi) e per questo si serve di un bastone ( che però usa come uno scettro). Dice di essere infestata da Elettra, come dalla più irritante delle ortiche e di essere perseguitata in sogno dal figlio Oreste, che succhia sangue dal suo seno.

L’ Oreste di Baracco (un inquietante Alessandro Pezzali), ancor più di quello di Hugo von Hofmannsthal, è un eroe-non eroe spogliato di ogni propositività, che ha bisogno di tatuarsi sul petto il proprio nome per poter essere riconosciuto.

Carlotta Gamba, Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Alessandro Pezzali

Qui, la prossemica, cioè la comunicazione che si instaura nell’occupare lo spazio, parla delle dinamiche psicologiche che si instaurano tra i personaggi, più delle parole. E poi ci sono i loro corpi a parlare: dove qualcosa soffre, qualcosa parla. Perché il corpo è anche il luogo dell’altro: delle parole e dei gesti con cui ci crivella.

Il regista Alessandro Baracco adatta il testo di Hofmannsthal, enfant prodige della modernità letteraria austriaca, perla poetica (dimenticata e poi ritrovata da Antonio Taglioni) che continua ad essere di straordinario interesse per il pubblico di oggi.

Andrea Baracco

Un adattamento che evidenzia come i disagi psichici dei personaggi derivino da una difficoltà a “desiderare”, a gestire cioè quella vitale “mancanza”, che può raggiunge gli estremi di “vuoto” (Oreste) o di “troppo pieno” (Elettra).

Personaggi, tutti a loro modo, mitologicamente eredi del capostipite Tantalo, condannato dagli dèi, a causa delle sue efferatezze, ad essere dominato da un desiderio di fame e di sete, impossibili da placare. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MACBETTU di Alessandro Serra –

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 19 Marzo 2022 –

Uno spettacolo meravigliosamente bestiale. La regia di Alessandro Serra sceglie di non rintracciare un ordine dove Shakespeare stesso dice che non ce n’è: nella natura umana, così come nella vita, nonostante tutto, regna il caos. Serra quindi mette in scena un’umanità bestiale, immersa nella sacralità ancestrale dei riti magico-dionisiaci.

È la dimensione istintivo-pulsionale: quella dove per riconoscersi ci si annusa; per sentire sapore e quindi piacere ci si lecca; per esprimere disappunto ci si sputa. La bocca occupa un ruolo fondamentale in questo spettacolo: è lo strumento con il quale si conosce e si esplora il mondo.

Così come avviene attraverso la sessualità: con essa si ha una confidenza tale, da escludere qualsiasi tabù. È un’umanità che vive di appetiti e che è essa stessa appetito. Come il regista ci lascia intuire dalle posture: le streghe camminano piegate, creando angoli di novanta gradi, quasi animaletti-giocattolo a carica; nei banchetti si beve dalla stessa ciotola in una postura simile; Lady Macbeth si piega ad angolo fino a far toccare i suoi capelli a terra, quando deve portare via il cadavere del re.

La figura geometrica del triangolo ricorre spesso; triangolari sono i percorsi che si fanno fare ai corpi uccisi, quasi a voler alludere ad una forma di diversa spiritualità. Tra sacralità, sessualità e mondo naturale c’è una fortissima interazione.

Lo spettacolo prende avvio da una specie di scossa tellurica, da un vortice ventoso che il regista sceglie di farci sentire e non vedere. Di sonorità è carica tutta la messa in scena: come Shakespeare, anche Serra sa l’importanza di ciò che si versa nell’orecchio dell’altro. Sa quale potenza può scatenare.

Dal mondo naturale si recupera anche un potentissimo legame con il mondo animale che plasma prepotentemente i personaggi: metamorficamente le streghe sanno scimmiottare, mettersi in ascolto come gufi; beccare come galline; conversare come pipistrelli. I cavalieri sanno trottare come cavalli. Le guardie mangiano e bevono come i porci. Si cavalcano i morti per dare loro l’ultimo colpo fatale: come fa Lady Macbeth con il re Duncan e poi il sicario con Banquo. 

Anche la scelta della lingua, un sardo oscuro e fascinosamente evocativo, completa magistralmente questo mondo indecifrabile, che ognuno di noi si porta dentro e che è specchio di ciò in cui siamo gettati.

A coronamento, l’onirico disegno luci: uno spettacolo tutto immerso in atmosfere notturne, dove la luce, quando c’è, è densa, bassa e a servizio delle ombre.

L’adattamento permette una messa in scena snella ed accattivante andando ad evidenziare le parti del testo dove emerge in maniera più energica il carattere orrorifico della natura umana.

Bella l’immagine di far avanzare, di spalle, Lady Macbeth rivelando il suo essere uomo solo alla fine. Ancor più bella l’intenzione registica di veicolare, come già accadeva nella scrittura di Shakespeare, il concetto che l’eterosessualità non è un fatto di genere. E infatti Lady Macbeth ha una sensualità tutta femminile. Anche nudo. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”.

Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro.

Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima.

A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico.

Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia.

Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebbrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.


Recensione di Sonia Remoli

Museo Pasolini

TEATRO VITTORIA, Dal 15 al 20 Marzo 2022 –

Da cosa nasce l’urgenza di proporre e fondare un Museo (cioè un luogo “sacro”, un luogo che raccoglie e conserva meraviglia) su Pier Paolo Pasolini? Che cosa ne è stato fatto del “nome” e del “corpo” di Pasolini nel Novecento? Perché quella porta spudoratamente bianca, che campeggia sulla scena, non si apre mai e solo in alcuni momenti rivela il suo vero colore? Di cosa si nutre la “tensione” che la fa restare chiusa?

Si nutre della strategia dell’insinuare su Pier Paolo Pasolini ingannevoli dubbi. Quei dubbi che spesso abbiamo con pregiudizio accolto e che ci hanno tentato a non fare, a non andare a fondo. Così, come “cani da cancello: tra il vorrei e il non posso, una catena”. Pregiudizi che ora tutti noi siamo chiamati a lasciar andare.

Ascanio Celestini con questo spettacolo porta in scena il suo personale contributo. Uno spettacolo dove prevalentemente si ride ma proprio grazie all’utilizzo di questa “chiave” Celestini riesce a solleticarci fino a pungerci. Fino a farci tenere a mente che “faccia aveva Pier Paolo”.

Entra in scena dalla porta “spalancata” del suo Museo, proponendosi come “guida” alla rivisitazione di una particolare biografia del Poeta: una geografia umana, fatalmente intrecciata agli eventi del periodo fascista. Dalla sala d’ingresso, la guida entra poi nel cuore del Museo: uno spazio circolarmente delimitato da luci liquide, opalescenti, aspre ed ancestrali, come il friulano nel quale Pasolini sceglie di scrivere. Luci liquide nelle quali immergersi per purificarsi nella “rosada” (rugiada).

Come vediamo fare dalla nostra “guida”, che entra nel circolo “sacro” e, sedendosi sulla sedia rossa, rompe il piano della verticalità per immergersi. In questo nuovo “stato” può immaginare oniricamente un incontro “ventoso” alla fermata del 109 proprio con il Poeta, questa volta Lui la sua guida. Durante il percorso sull’autobus, Celestini è ancora tentato di mettere una distanza con Pasolini. Lui invece rivendicherà con dolcezza proprio quella vicinanza che non gli è stata concessa: “Ma io non faccio pensieri meno poetici se li condivido con te”.

Perché la poesia è un bene “inconsumabile”, che vive nonostante tutto ma risplende nell’essere accolta, nell’essere tenuta a mente. Nell’essere riconosciuta. 

Uno spettacolo scatenato e scatenante, che attraverso il ritmo “zounamico” della narrazione ci coinvolge e ci travolge. A spalancare quella porta chiusa.

Maggiori informazioni su Ascanio Celestini

I Malavoglia

TEATRO QUIRINO, Dall’11 al 13 Marzo 2022 –

Progetto Teatrando
presenta

ENRICO GUARNERI

I MALAVOGLIA

di Giovanni Verga

regia GUGLIELMO FERRO

con

Francesca Ferro   Rosario Minardi   Nadia De Luca   Rosario Marco Amato
Gianpaolo Romania   Elisa Franco   Pietro Barbaro   Mario Opinato   Giovanni Arezzo
Turi Giordano   Giovanni Fontanarosa   Verdiana Barbagallo
Federica Breci   Giuseppe Parisi   Ruggero Rizzuti   Viola Auteri

All’apertura del sipario, si entra in una scena che sembra emergere da una sovrapposizione di dipinti: “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, per l’impatto cromatico e “Le déjeuner sur l’herbe” di Claude Monet, per l’armoniosa disposizione microcosmica dei personaggi, che origina un affascinante contrasto tra la fatica del lavoro e l’eleganza delle posture. Il rimando iconografico si verificherà anche in altre scene successive: una su tutte il bagno di Alessi, d’impronta caravaggesca. 

Da un fondale profondamente nero emergono, grazie ad un sapiente uso della luce, i Malavoglia insieme ad alcuni abitanti di Aci Trezza. Sono disposti per gruppi, quasi isole di un arcipelago. Sono vestiti con abiti umili ma il raffinato gusto dell’accostamento dei colori (tutti declinati in sfumature dall’ocra al fango -uniche eccezioni “in nero” i personaggi con cui la Morte entra più in confidenza-) rendono l’insieme profondamente emozionante.

I personaggi si muovono sopra un’architettura di praticabili fissi e mobili, che sanno far immaginare situazioni di terra e di mare. All’occorrenza, scende la vela della Provvidenza che oltre a rendere più vivide le scene delle tempeste, va a costituire un interessante secondo fondale, sul quale far vivere suggestive scene di ombre.

L’allestimento quasi totalmente corale, viene enfatizzato da una narrazione che si muove spesso come in un campo sequenza cinematografico.

L’adattamento privilegia le scene che vedono centrale il ruolo della Natura (“mare amaro”), crudelmente indifferente al destino degli umani. Natura declinata sia come macrocosmo che come microcosmo delle passioni, inflitte e subite da e tra gli uomini.

Elemento di raccordo, umano e narrativo, la figura di Padre ‘Ntoni: un Enrico Guarneri vibrante e commovente; dilaniante e dilaniato nel suo urlo finale. Lui, scoglio, a cui sanno avvinghiarsi, con naturalezza, tutti gli altri interpreti.

Particolarmente efficace e suggestiva la regia “per immagini” di Guglielmo Ferro.

Recensione dello spettacolo CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO – ideazione, drammaturgia e interpretazione di Fabrizio Gifuni –

TEATRO VASCELLO, dall’8 al 13 Marzo 2022 –

Come in attesa di un rituale è organizzato lo spazio scenico, nel quale è inscritto non un cerchio ma un rettangolo, il cui perimetro è tracciato dai fogli scritti da Aldo Moro durante la prigionia. Richiamano la stessa geometria i tre oggetti scenici, scelti per officinare il rito: un piccolo tavolo, una sedia e un microfono.

Fabrizio Gifuni

E poi entra in scena lui, Fabrizio Gifuni: non è ancora il passo di colui che officina il rito. Piuttosto il corpo, il passo e la voce di chi, quasi come un coreuta, sceglie una diversa prossemica (spingendosi cioè sul confine del proscenio) per informare chi (il pubblico) con lui a breve entrerà metaforicamente nel sacro spazio del rito. L’obiettivo da raggiungere è saggiare se la pietra-meteorite-AldoMoro risuona ancora ustionante o se invece sta perdendo calore. E se così fosse, allora occorrerà rianimarla, riportandola ad un’alta temperatura. L’ultima attenzione è per la parte del pubblico più giovane: per loro (numerosi in sala ieri sera) Gifuni traccia una mappa del contesto storico-politico, relativo all’episodio da vendicare e onorare. Da riscaldare e rianimare.

Fabrizio Gifuni

Ci siamo quasi. Ora non resta che gettare l’ultimo ponte per entrare nel vivo del rituale: Fabrizio Gifuni ci parla allora del teatro come del luogo dei fantasmi. E’ infatti il luogo dove hanno preso forma I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello; il fantasma del padre di Amleto e ora avverrà la stessa cosa per Aldo Moro. Perché fantasmi sono i corpi che non hanno ricevuto un giusto onore. E allora tornano a trovarci, a disturbarci, a farci sentire più fortemente la loro presenza. 

Ora tutto è pronto. Dal fondale, una luce opalescente e lattiginosa allude al fatto che stiamo entrando in una dimensione sacra, dove nel rettangolo magico prenderà forma l’ombra del fantasma.

Fabrizio Gifuni

Gifuni si accinge ad entrarvi e nell’attraversamento cambia corpo: il passo diventa un balzo leggero, quasi un piccolo volo e le braccia lasciano la consueta tensione rendendosi disponibili a diventare altro. Entratovi, il suo primo gesto è quello del piegarsi sulle ginocchia (quasi un inchino) per raccogliere da terra della polvere bianca ammucchiata, con la quale si cosparge una parte dei capelli: ecco la fiezza dei capelli bianchi di Aldo Moro. Si avvicina quindi ai fogli del Memoriale e delle Lettere, appoggiati sul piccolo tavolo. Ma prima di prenderli in mano, si toglie la giacca e resta in camicia: è quella bianca di Aldo Moro, quella che lui amava indossare. Ora può impugnare i fogli e qui avviene un’ulteriore trasformazione: le braccia e le mani sono pronte a ricevere la tensione di quelle di Moro. Quella particolare tensione pervade il resto del corpo: le gambe, i piedi, il busto. Raggiunge il microfono. E, nell’offrirsi alla luce, vediamo nella sua interezza “il fantasma” di Aldo Moro. Anche le nostre orecchie ricevono la conferma di questa magia: dapprima percepiamo la trasformazione del respiro, poi il cambio di deglutizione ed ecco arrivano i primi segnali vocali, quasi gemiti. E poi, lei: la voce, che raccoglie, manifesta e sublima tutta la metamorfosi. Perfetta espressione del metodo mimico del suo amato Maestro Orazio Costa. Gifuni inizia l’interpretazione dei testi, alternando quelli del Memoriale alle Lettere alla famiglia.

Fabrizio Gifuni

Testi che si conoscono ma che ora raggiungono una temperatura inaspettata: diventano materia vivente, pulsante, lacerante e lacerata. Le parole hanno tutte un loro sapore, un loro odore e dettano il ritmo della narrazione. Insieme alle mani: che realizzano una traduzione visiva della potenza espressiva delle parole. Nell’attraversare questa esperienza, quasi mistica, il corpo del fantasma prende sul finale la postura disperata del protendersi in avanti, per tentare fino all’ultimo di provocare un qualche mutamento nei destinatari del Memoriale. Quando poi il mistero del rito si completa e raggiunge la sua conclusione, il fantasma di Moro non vuole abbandonare il corpo di Gifuni. Lo si legge dalla sofferenza che trapela nel raccogliere gli applausi. E anche noi del pubblico, testimoni partecipi del rito, lasciamo la sala portando impressa la sua traccia sulla nostra pelle.


Recensione di Sonia Remoli

Uscita d’emergenza

TEATRO MARCONI, Dal 10 al 13 Marzo 2022 –

Uno spettacolo sulle affinità geodinamiche tra un territorio e un modo di stare al mondo. Il lento abbassarsi e alzarsi del suolo accompagnato da scosse, trova il suo corrispettivo umano nel bradisismo emotivo di due stralunati individui. Ad una lentezza del fenomeno (percepita come tale solo nel tempo degli umani) viene applicato, con il guizzo registico caratteristico di Claudio Boccaccini, un ritmo recitativo geologicamente rapido ed incalzante. In alcuni casi, vertiginoso. Complici anche la scelta e l’efficace utilizzo degli effetti scenografici e musicali.

Due strani tipi si ritrovano a condividere lo stesso spazio vitale. Vengono da mondi molto diversi fra loro: quello della sacralità religiosa della chiesa e quello della sacra laicità del teatro. Pacebbene, è un ex sacrestano bigotto e quindi perseguitato da fantasie sessuali inaccettate. Cirillo, è un orgoglioso “souffleur” , un suggeritore teatrale, che saltuariamente ancora lavora e che non perde occasione per profanare le stantie citazioni sacre, ancora (apparentemente) così rassicuranti per Pacebbene.

Soli e abbandonati da tutti, si trovano a condividere quel che resiste di un “appartamento” e di uno stare al mondo di oscillante precarietà. In una condizione inaccettatamente incontrollabile, cosa ci può essere di più prezioso di un sacrestano (cioè di qualcuno che sceglie di fare il custode delle cose sacre) e di un “souffleur’, cioè qualcuno che costantemente è a nostro servizio per soffiarci nuova linfa e quindi suggerirci ciò che per natura tendiamo a dimenticare?

Inconsapevoli di essere loro stessi “gli splendori” di un’esistenza buia, si riducono a vivere rintanati nel loro buco di cemento. Consapevoli di venirne ricoperti ma con un desiderio incontenibile di voler essere trovati e (finalmente) scoperti, come sotto le macerie di Pompei.

Oscillando nell’attesa che questo accada, o all’opposto che una (improbabile) chiamata annunci loro la nuova “terra promessa”, non si accorgono di essere loro stessi le “colonne” che, non solo scenograficamente, vibrano ma resistono alle scosse della Terra e della Vita. Proprio perché in qualche modo capaci di assorbire e trasformare queste scosse in una lotta di abbracci, disperatamente solidali. Loro, collante per un’esistenza destinata a “crepare”.

Uno spettacolo in cui, grazie ad una lettura del testo particolarmente accurata, il regista Boccaccini attraverso il suo adattamento traduce e rintraccia la maniera di rendere al meglio anche il sottotitolo dell’interessante opera di Manlio Santanelli: “Beati i senza tetto perché vedranno il cielo”, originale parafrasi della sesta beatitudine evangelica. Perché al “tetto” delle ipocrite sicurezze solo alcuni hanno il coraggio di rinunciare. Uomini toccati dal cielo e da cui il cielo si è lasciato toccare. Questa, forse, è la vera umanità: quella beatitudine che ci è concesso cercare e forse trovare.

Efficace l’interpretazione dei due attori: un coinvolgente “flâneur” in pantofole Felice Della Corte nei panni di “Cirillo” e un polimorfico Roberto D’Alessandro nei panni di “Pacebbene”.

Per maggiori informazioni sullo spettacolo

Effetto serra

TEATRO VITTORIA, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Un tuono imperioso e profetico. Lo strepitio atmosferico trova riflesso nello strepitio emozionale di una coppia: come quando qualcosa folgora a causa di un’esplosione elettrica.

In un plumbeo soggiorno inglese, Sally e Thomas stanno prendendo un thè: lui, un “ingrugnito tricheco”, nella speranza che spiova; lei, un’ironica “donna dal cervello misterioso”, nel timore di un’esondazione. La loro casa è stata costruita proprio sulle sponde del fiume Severn, nella parte che piega a sud verso Birmingham.

Thomas, adora il fiume; anzi , la sua è una vera e propria dipendenza: non può fare a meno di vivergli vicino. Non solo, costruisce anche la sua attività commerciale sull’acqua: una disco-boat. “Brutto rischio le case sul fiume” – gli ripete sua moglie Sally – “te lo avevo detto! “. “Ormai – continua – neanche Dio vorrà più aiutarci, proprio come fece con i peccatori di Sodoma e Gomorra: Dio volse la testa dall’altra parte e punì la loro malvagità”.

La pioggia continua ad aumentare, quasi sintonizzata sullo scatenamento dei malumori e dei risentimenti della coppia. E prima del previsto arriva l’esondazione, come anche l’impianto scenografico evidenzia con suggestiva efficacia: il plumbeo soggiorno viene letteralmente schiacciato dall’impeto dell’esondazione del fiume e con un sorprendente colpo di scena ritroviamo la coppia in salvo dentro la loro barca a remi, nel fiume senza sponde. Nell’orizzonte senza sponde.

“Una crisi aggiusta sempre le prospettive” -proclama Sally- “ed è il momento in cui tutti si stringono gli uni con gli altri”. Anche con chi, purtroppo, non ce l’ha fatta: il corpo della bambina che incontrano sulle acque del fiume. Sally non riesce a non guardare l’inguardabile: “se non la guardiamo noi chi la guarderà, chi la piangerà, chi onorerà la sua morte!?”.

E così resistono per settimane Sally e Thomas, scoprendo affinità inesplorate: una viva complicità, una nuova intimità. E la bellezza del perdersi tra le stelle. Stelle, loro stessi, in un liquido cielo blu. 

Particolarmente degna di nota l’interpretazione dei due attori: una Viviana Toniolo (Sally) immensamente espressiva nella sua naturalezza e un Roberto Della Casa (Thomas) “trichecamente” adorabile e quindi credibile.

Uno spettacolo che sa affrontare un tema di scottante attualità con cruda dolcezza.

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Recensione dello spettacolo COSI’ E’ (O MI PARE) – Spettacolo in realtà virtuale – adattamento e regia di Elio Germano –

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 24 febbraio 2022 –

Una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, adattata e diretta da Elio Germano, con la partecipazione di Isabella Ragonese e di Pippo Di Marca.

Un esempio di quando le nuove tecnologie scelgono di configurarsi come campi di ricerca, per affrontare “i classici” da un punto di vista differente, senza la pretesa di sostituirsi alla tradizionale fruibilità del teatro. Creazioni che nascono dal teatro e che al teatro ritornano. La sfida piuttosto è sui contenuti e sui modi per realizzarli.

Le riprese si sono svolte presso la Tenuta Bossi dei Marchesi Gondi e presso il Teatro della Pergola di Firenze, il cui Direttore Artistico, Stefano Accorsi, ha sostenuto fortemente questo progetto, che segna l’inizio di un cammino ideativo con Elio Germano.

Indossando cuffie e visore si entra direttamente dentro allo spettacolo, attraverso una ripresa in soggettiva, cioè nei panni del Commendator Laudisi, personaggio appositamente inventato rispetto al copione originale. A lui, anziano padre di Lamberto (interpretato da Elio Germano), tutti i personaggi si rivolgono con rispetto. Questa trovata, che procura un iniziale piccolo shock allo spettatore (che si scopre in una diversa identità) agevola una visione sferica della scena.

Il testo pirandelliano è stato riadattato da Elio Germano ambientandolo nella società moderna, nella fattispecie in un salotto dell’alta borghesia, dove l’umana perversione a “spiare l’altro” risulta amplificata dalla possibilità di usufruire dei nuovi media. Il risultato che ne scaturisce è che questo supporto aiuta a perdersi ancor di più all’interno dell’ossessione di trovare un’unica verità, universalmente riconosciuta.

La storia della signora Frola, del signor Ponza suo genero, della sua giovane moglie e di un paese che non può fare a meno di interrogarsi su di loro e sulle loro insolite abitudini, non smette di farci riflettere sul nostro umano bisogno di mettere argini, confini e quindi (apparenti) certezze all’indeterminatezza nella quale, per natura, siamo gettati. Indeterminatezza e quindi incertezza che da un lato ci spaventa (perché ci dà la misura di un’impossibilità di controllare totalmente la realtà) ma che dall’altro ci intriga, ci rapisce, perché i vuoti d’informazione liberano il nostro desiderio (di sapere, di spiare) incarcerato dentro alle regole apatiche di un cero modo di vivere, accettato solo in quanto riconosciuto dai più.


Recensione di Sonia Remoli