L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

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