IL MUTAMENTO – In viaggio da Atlantide all’Universo

TEATRO DI DOCUMENTI , dal 27 Aprile al 7 Maggio 2023 –

Ieri alle ore 17:45 la creativa regista Stefania Porrino ci ha “convocati” al Teatro di Documenti per condurci, con la complicità dei suoi attori, in “un viaggio al centro della Terra”: un viaggio alla ricerca dei nostri desideri più veri.

L’autrice e regista Stefania Porrino

Tema del viaggio: “Continua a cercarmi”. Sì, perché i desideri, più sono sentiti, più ci viene di nasconderli.

Una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino

Perché? Ma perché abbiamo paura: paura di realizzarli. Per realizzarli occorrerebbe attivare quel coraggio che non sappiamo di avere ma che in realtà è “l’altra faccia” della paura che predomina in noi. Quel coraggio necessario per riuscire ad aprirci ad “un mutamento”. Lasciando indietro quelle nostre amate-odiate abitudini: così rassicuranti sì, ma anche così insoddisfacenti. E con le quali ci siamo ormai abituati a convivere.

Sala del Teatro di Documenti

E quindi, dopo aver preso posto ai lati dell’insolita sala del Teatro di Documenti, un pò come si farebbe in un vagone della metro, gli attori ci hanno “trasportati” in una seduta di psicoanalisi di gruppo. Tecnica del giorno, scelta dalla psicoterapeuta per una sorta di meditazione sui “mutamenti” che soli hanno il potere di condurci a contattare i nostri desideri più veri: l’improvvisazione di uno psicodramma.

Una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino al Teatro di Documenti

In un’affascinante e molteplice meta-teatralità, l’acuto testo dell’autrice-regista Stefania Porrino riesce a coinvolgere anche noi del pubblico in questo “viaggio al centro della Terra”, o meglio al centro di noi stessi. Come agli attori-pazienti, anche a noi è capitato di essere stati messi in crisi da situazioni di “mutamento”. E immedesimarsi nelle situazioni problematiche degli altri, ci aiuta a vedere con più coraggio in noi stessi, non essendo coinvolti direttamente.

Evelina Nazzari, in una scena dello spettacolo “Il Mutamento – In viaggio da Atlantide all’Universo” di Stefania Porrino

E’ così che la sala diventa il palcoscenico dell’inconscio, dove convivono le nostre diverse personalità. A vista, senza alcun filtro, si indossano e ci si libera di quelle maschere che più o meno consapevolmente siamo soliti rappresentare. Di particolare efficacia e cura i costumi di Natasha Bizzi.

Solo così si arriva a scoprire il desiderio di voler sperimentare il piacere, tutto nuovo, di essere continuamente messi alla prova, piuttosto che restare impaludati in una comoda zona di confort.

Solo così si scopre il piacere adrenalinico di voler cavalcare le onde dell’Amore: della voglia di farsi travolgere dalla “capacità di amare”, che vuol dire saper accogliere e gestire la delizia e il tormento; i momenti di riconoscimento e quelli della frustrazione; la gioia e la tristezza.

Giulio Farnese e Nunzia Greco in una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino al Teatro di Documenti

Solo così si riesce a tollerare che a mille domande possano seguire pochissime risposte: perché riusciamo a riconoscere che è in noi che le risposte vanno cercate e trovate. Senza lasciarci paralizzare dalla paura di sbagliare, perché quello che erroneamente chiamiamo “sbaglio” è in realtà un allontanarci dal nostro sentire più autenticamente vero.

Il libro “Il romanzo del sentire – da Atlantide a noi” da cui la stessa autrice-regista ha tratto il testo dello spettacolo

L’effetto catarsi è assicurato: lo spettacolo coinvolge totalmente lo spettatore. Merito di un testo, tratto da “Il romanzo del Sentire – Da Atlantide a noi” di Stefania Porrino, profondo ma fruibilissimo e di una messa in scena seducente. Gli attori Giulio Farnese, Nunzia Greco, Evelina Nazzari, Alessandro Pala Griesche e Carla Kaamini Carretti si sono rivelati degli ottimi “compagni di viaggio” per gli spettatori: la loro interpretazione brilla in credibilità. Notevolissima la loro densità vocale.

La regista Stefania Porrino e il cast dello spettacolo “Il Mutamento-In viaggio da Atlantide all’Universo”

Recensione dello spettacolo IL SUPERMASCHIO – regia di Marco Corsucci

L’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico alla Pelanda

LA PELANDA – Mattatoio – 27 Aprile 2023 –

PROVA APERTA

Tutor del progetto: Antonio Latella

Regista: Marco Corsucci

Interprete: Andrea Dante Benazzo

Dramaturg: Federico Bellini Scena: Giuseppe Stellato Luci: Simone De Angelis Suono: Federico Mezzana Video: Igor Renzetti Consulenza costumi: Graziella Pepe Fonico: Akira Callea Scalise Sarta di scena: Loredana Spadoni Direttore di Scena: Alberto Rossi


Lo spettacolo è vincitore “ex-equo” del Premio Andrea Camilleri 2022

indetto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”

e debutterà in prima nazionale il 30 giugno 2023 al 66° Festival dei Due Mondi di Spoleto


In un’interessante costruzione di “teatro nel teatro”, il regista Marco Corsucci fa del pubblico gli invitati alla riunione che il “suo” André, protagonista del romanzo “Il Supermaschio” di Alfred Jarry, convoca per parlare d’amore.

Ma non è un “simposio” platonico: qui si parla solo di capacità prestazionali. Solo maschili. Solo di un’ élite di “atleti”.

Ma non solo: in una geniale struttura che si articola per cerchi concentrici, dal sapore di un esperimento ma anche di un documentario oltre che di una rappresentazione di teatro nel teatro, chi ci accoglie e fa gli onori di casa, “invita” coloro tra noi che sono di genere femminile, o che tali si sentono, a prendere posto in un determinato settore della sala, metaforicamente anche mente del protagonista: quello di sinistra, luogo mentale dove dominano le funzioni di calcolo. Fuori da ogni contaminazione emotiva, ciò su cui ci si deve concentrare è esclusivamente il calcolo delle prestazioni.

Come se non bastasse collocare il pubblico femminile in un emisfero della mente del protagonista “scomodo” al femminile ma propio per questo meno pericoloso, anche prossemicamente le femmine sono coinvolte nella riunione stando “al di là” della realtà rappresentativa. Ciò che i maschi vedono “dal vivo”, loro lo vedono indirettamente.

O non lo vedono affatto: come avviene per la prova “atletica” dei coiti multipli. Quella da record. Quella solo da maschi. Di maschi. A loro è permesso (solo) “ascoltare”. Sì sa: gli uomini vivono con gli occhi. Le donne, però, sanno usare molto bene anche le orecchie: organo di senso dalla potente densità shakespeariana, capace di dare carne all’immaginazione. E possono “leggere” l’espressività non verbale degli invitati maschili.

E quindi ciò che voleva essere “un confinio” finisce per essere, forse, un’accattivante modalità di esperire.

Ma ciò che è davvero importante è celebrare l’apoteosi del Supermaschio: un maschio che è “super” ma teme la diversità femminile; un maschio che è “super” ma vive solo di approvazione. Un maschio che è “super” perché non si vuole “contaminare” con lo sporco insito nelle emozioni che danno una continua mutevole forma all’amore. E quindi non si specchia. Con l’ Altro.

Il Supermaschio, come il migliore dei meccanismi, è ricco in prestazione ma privo di passionalità, di carattere, di umanità. È un deserto.

Ma qui arriva un altro spiazzamento: il Supermaschio di Marco Corsucci è un candido. Quasi un alieno dal male, anche quando lo fa. E brilla in naturalezza il “suo” dolce e ingenuo André: l’interprete Andrea Dante Benazzo.


Recensione di Sonia Remoli

Fontana Project

TEATRO VASCELLO, dal 26 al 30 Aprile 2023 –

In un efficace dosaggio di fedeltà e necessario tradimento dell’eredità di Lucio Fontana, la compagnia di arti performative “NoGravity” porta in scena al Teatro Vascello un visionario prender vita nel tempo dell’opera-simbolo di Fontana “Concetto Spaziale Bianco”. Geniale idea con la quale Fontana vinse il primo premio per la pittura alla Biennale del 1966. 

Lucio Fontana, Concetto Spaziale Bianco

Nell’immaginario collettivo Lucio Fontana è “l’artista dei tagli” ma queste opere furono il risultato finale di una lunga e complessa ricerca: quella di un uomo che cambiò il corso dell’arte contemporanea, superando le limitazioni legate alla bidimensionalità della tela.

Per qualche motivo, un incantesimo forse, le suggestioni che questo spettacolo suscita portano lo spettatore a “rileggere” l’artista. Ad averne curiosità. Ad averne cura.

Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore

Sulla scia della grande tradizione barocca italiana del teatro delle meraviglie, l’artigiano-filosofo teatrale Emiliano Pellisari (fondatore della compagnia NoGravity, diretta insieme a Mariana/P.) progetta e costruisce un apparato straordinario per lo “Studio su Lucio Fontana”, applicandolo alla messa in scena per il Teatro Vascello.

E incanta il pubblico: proprio come si usava fare nelle corti europee del Cinquecento e del Seicento.

Emiliano Pellicani e Mariana Porceddu

Al centro della scrittura filosofica del “teatro delle meraviglie” della NoGravity sta il concetto scenografico e drammaturgico di “specchio”. Un modo di “guardare” che apre alla molteplicità dei punti di vista. E quindi alla “relazione”, all’inclusione, al conoscere e al conoscersi attraverso l’ “Altro”. Ma soprattutto lo specchio è quel “mezzo tecnologico” di cui parla il movimento artistico dello Spazialismo (fondato da Fontana nel 1946): una nuova forma di linguaggio, prodotta da nuove invenzioni. Perché fine della tecnologia è essere lo strumento attraverso il quale l’homo faber può controllare gli elementi naturali. Esplorando, e poi superando, il concetto di “limite”, così centrale nella ricerca di Lucio Fontana.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

Qui al Teatro Vascello, ci si trova, infatti, di fronte ad uno spazio teatrale dove si annulla la fisica della realtà per dare forma ad un esperimento teatrale sognato ad occhi aperti. Fedele a quanto dichiarato da Lucio Fontana nel “Manifesto Tecnico dello Spazialismo” del 1951 (dove si dichiara, nello specifico, che il movimento è la condizione base della materia) la NoGravity utilizza il movimento per dare vita al tempo ma soprattutto per aiutare lo spettatore a percepirlo.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In una suggestiva relazione tra luce, tempo e spazio, proiettori wood aprono la scena. Dal 1948, infatti, la luce diventa la tecnica più importante per Fontana, in quanto capace di aprire alla percezione dello spazio: da quella al neon, all’effetto delle luci indirette; dalla retroilluminazione alla luce radente, fino ad arrivare alla luce di Wood.

Alla luce wood si mescola una sorta di “racconto onomatopeico” che conduce lo spettatore a rendersi disponibile ad esplorare una dimensione da rituale magico; così come accade ai corpi, che si intravedono dietro la tela: impegnati a sondare il limite della “membrana” bianca.

La “sperimentano” con tutto il corpo, in una sorta di conoscenza tattile. Delicata, frusciante. Senza fretta. Fino a che uno dei due corpi trova il varco del taglio. E da lì, ebbro di un nuovo spazio-tempo, si espande. E come in una croce, si libra e ne gode. È un corpo femminile (una elegantissima Mariana Porceddu): come Eva è lei la prima ad osare in questo nuovo “paradiso”.

Poi è il momento dell’uomo che trasforma l’ingresso (il taglio) in un “habitus” per la donna. Prende avvio così un conoscere e un conoscersi come in una danza, che dà vita a sempre nuovi spazi, nuove forme. Un continuo origami di maschile e di femminile, separati e fusi. Una rete di sempre nuove connessioni.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In questo fruire fisico e spirituale dell’Infinito, si rende immanente l’intervento trascendente di un coreografo demiurgo: Emiliano Pellisari, che rompe i piani della rappresentazione, permettendo anche a noi del pubblico una partecipazione immersiva. Attivi e passivi nella costruzione di nuove geometrie.

Ma il demiurgo Pellisari è anche colui che taglia la tela e nel farlo continua il processo di creazione e di conoscenza, che vede la forza dilaniante della creazione restare sempre unita alla tentazione continua a tornare indietro. A morire. Per poter rinascere. Come avviene nella vita.

E nel teatro: ora infatti sembrano prendere vita, per l’attività poietica dei corpi sulla tela, dei sipari teatrali che, come cornici fluide, rimandano a ” I Teatrini” di Fontana (1964-1966).

Un esemplare de “I Teatrini” di Lucio fontana

Poi nuovi suoni, più materici, sembrano condurci in sculture d’intrecci d’amore, così simili alle ceramiche di Fontana.

Lucio Fontana, “Ballerina” 1952 ceramica policroma smaltata 

Ma basta una torsione, un voltarsi dei corpi, per uscire da questa nuova cosmologia.

Tornando con i piedi per terra. Ma con gli occhi ancora pieni di Infinito.

Una meraviglia di spettacolo.

Uno spettacolo di fantascienza

TEATRO INDIA, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

E se tutte le sovrastrutture che ci rassicurano tanto cadessero giù e rotolassero in acqua come i trichechi “tondi tondi” giù dalla banchisa, anche loro come noi mammiferi in via d’estinzione ? Se provassimo a spogliarci di tutti i nostri falsi “habiti” mentali, con i quali crediamo di identificarci ? Se la fine arrivasse all’inizio, perché è all’inizio che c’è l’immaginazione?

Andrea Cosentino, Petra Valentini e Liv Ferracchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Il “Teatro di Liv” è così incredibilmente credibile che è “fantascienza” !

Il “Teatro di Liv” è un “racconto” e come tale porta in scena lo “sforzo” compiuto da chi pretende di comunicare. Il racconto è solo un tentativo. “Tenta tanto tanto “.

Il linguaggio non aiuta ad esprimere ciò che veramente proviamo perché è una convenzione, così come i platonici principi della logica: quello di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. La Logica non riesce ad identificarci singolarmente. È un codice sul quale si è convenuto di convergere, di trovarci tutti d’accordo per poter comunicare. Più o meno consapevoli che la nostra autenticità è altrove.

Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

La prima parte di “Uno spettacolo di fantascienza” (che in realtà può essere anche “il finale” in una concezione aperta del racconto, così come aperta è la vita) spiazza e diverte lo spettatore portando in scena un racconto privato dei due principi della logica sopracitati. I personaggi-persona infatti non comunicano più grazie al “significato” codificato delle parole, bensì attaccandosi ai loro “sottotesti”, espressi dalle intenzioni, dalle intonazioni, dalla musicalità, dalla cromaticità. Ad esempio, risulta chiarissimo come basti utilizzare un cappotto dal colore diverso per inscenare una nostra diversa identità .

Petra Valentini e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

E di fronte al “non senso” non ci si scandalizza ma ci si accorda, ci si sintonizza. Ed è bellissimo. È ricchissimo. È tutto e niente insieme. È il caos. Ma è verità.

Nel racconto autentico anche la rappresentazione della neve non deve “sembrare vera”, non deve essere ciò che non è. Ecco allora che, a vista, il tecnico rivela l’artificio. Ed è bellissimo, più che se fosse nascosto.

Il tricheco tondo tondo e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

“Prova a dirmi cosa senti. Ma so già che non ci riuscirai” – dice lei a lui. È una crisi? No, è una svolta. Però su una cosa concordano: è la fine del mondo. Ma solo la “fine” prelude ad un possibile nuovo inizio (momentaneo). E ciò che ci tiene vivi non è l’illusione di dare un solo senso, un unico significato alle cose ma, come sanno bene i trichechi, sono le carezze, l’amore. “Che confusione, sarà perché ti amo…ma dopo tutto che cosa c’è di strano: se cade il mondo allora ci spostiamo”.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

I tre attori in scena “danzano” con le parole e con i gesti. Il senso, il presunto significato, passa in secondo piano. Ed è un miracolo di bellezza incontrollabile. Sanno darci prova che si può fare a meno anche di lasciare gli spazi tra le parole: è la musicalità, il ritmo, che riuscirà a guidarci verso “un accordo” istintivo. Perché sotto ciò che è finto (il linguaggio) c’è sempre del vero (i vari sottotesti).

Liv Ferlacchiati, Petra Valentini e Andrea Cosentino

Ciò che ci fa più paura, ora sappiamo, grazie al “Teatro di Liv”, che può essere bellissimo. Perché ci si può orientare anche mentre si fanno giravolte.

E tutto ciò sa molto di decadentismo, alla Treplev de “Il Gabbiano” di Cechov.

Ma “il finale” ? “Aperto” – sentenzia il tricheco, quasi fosse un oracolo.

Aperto come il vento, che dall’inizio alla fine avvolge tutto lo spettacolo.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Un testo, da “teatro dell’assurdo”, ferocemente raffinato, onirico, metafisico. Eppure brillante e davvero molto divertente. Una scena (curata da Lucia Menegazzo) affamata di vuoto, necessario per poter dar vita a piccole-grandi meraviglie, potentemente fragili: come quelle nascoste nel cappello a cilindro della vita.

In scena Liv Ferracchiati è un performer dal tenero fascino ambiguamente cechoviano; Petra Valentini un’eccellente attrice vorticosamente spumeggiante; Andrea Cosentino brilla in ricchezza di maschile e di femminile. Il suo lavoro a ferri, registicamente, è la metafora del “racconto”, dell’intreccio di identità che ci costituiscono.

Il “Teatro di Liv” è “Uno spettacolo necessario” .

Liv Ferlacchiati

autore, regista e performer di “Uno spettacolo di fantascienza”


Leggi l’intervista a Liv Ferlacchiati su Rolling Stone


W.A.M. – Ironia della morte

TEATRO BELLI, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

Arduo accogliere o tollerare la multiforme singolarità di Wolfgang Amadeus Mozart: tutto coesiste in lui. L’enfant prodige che sottostà all’ossessione paterna di continue esibizioni “circensi” è anche un eccentrico buffone che di punto in bianco prende a saltare e a far capriole come un bambino capriccioso;

Il piccolo Mozart all’età di 6 anni durante un concerto nel castello di Schönbrunn. Alla sua destra la famiglia imperiale. Alla sua sinistra il padre e il principe-vescovo di Salisburgo.

l’artista che si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, totalmente immerso nello spirito del genio, è insieme un uomo misconosciuto, ignorato e confinato in un isolamento crescente; il compositore dallo stile chiaro, trasparente ed equilibrato è lo stesso da cui emerge anche una voluttuosa violenza.

Una sintesi del Grand Tour di Mozart, che in 3 anni ha sostato in 88 città

Se arduo è accoglierla, ancor più arduo è tentare di “rappresentarla” autenticamente, questa assoluta singolarità multiforme mozartiana. Ma lo spettacolo di Claudio Boccaccini ci riesce.

Claudio Boccaccini, il regista di “W.A.M. – Ironia della morte” al Teatro Belli di Roma

Proprio come in un palcoscenico psichico sul quale le rappresentazioni vanno e vengono in diversi stati in una multiformità irriducibile, così sulla scena cesellata dallo sguardo registico di Boccaccini, la vibrante drammaturgia di Carlo Picchiotti, interpretata dall’estro poetico di Patrizio Pucello e raffinatamente enfatizzata dal canto lirico del soprano Olimpia Pagni, fa sì che nei nostri occhi riesca ad entrare, a qualche livello, la consapevolezza visiva ed emotiva della capacità unificatrice dell’attività creativa .

A differenza della “coscienza” infatti, che tende a scindere le personalità contrastanti del genio Mozart, la creatività “incosciente” ci consente di tenerle tutte insieme, ri-collegandole in forme sempre nuove.

Perché la musica in generale, e quella di Mozart in particolare, non chiede di essere “capita”. Ma vissuta emotivamente. Il suo alfabeto musicale parla di noi, della “nostra condizione” umana, così fragile e insieme così misteriosamente affascinante. Ma soprattutto ci parla del bisogno che tutti abbiamo di essere “visti” dall’altro e apprezzati proprio nelle nostre più insolite singolarità. Perché sono loro a renderci “unici”.

Patrizio Pucello è Wolfgang Amadeus Mozart in “W.A.M. – Ironia della morte”

Così come “unico” è il tipo d’incontro che il pubblico, in una sorta di teatro nel teatro, si è trovato a vivere ieri sera, nell’intimità del Teatro Belli. Un convegno d’amore, quello che ci ha organizzato “a sorpresa” W.A.M. (un istrionico Patrizio Pucello).

Ci ha preceduti, facendo sì che sul palco, solo la sua giacca avvolgesse la schiena di una poltroncina e solo la sua musica trovasse carne nel corpo e nella struggente voce di una giovane donna (l’ammaliante soprano Olimpia Pagni).

Olimpia Pagni, il soprano in “W.A.M. – Ironia della morte”

Lui farà capolino solo dopo, per spiare le nostre reazioni. Poi entrerà per guardarci bene in faccia e, riconoscendoci tutti, uno ad uno, noi volubili aristocratici viennesi (perché questi sono i panni che ci troviamo a vestire noi del pubblico), troverà l’ardire per dare sfogo apertamente, senza filtri, a tutta la frustrazione che noi gli abbiamo alimentato e che lui per una vita ha represso.

Un convegno d’amore non esclude l’odio: è solo l’altra faccia dell’amore. E ieri sera W.A.M. ha deciso di “consumare” l’odio (un po’ come prescrisse a Tamino il vecchio prete del Tempio della Saggezza) con un altro tipo di rapporto d’amore. Con noi che, seppure sempre così disattenti ed insensibili ai suoi sinceri “corteggiamenti” musicali, continuiamo ad essere maledettamente irresistibili per lui.

Ci dice che ha deciso di morire. Ma è ironico: è un gioco d’amore il suo, una disperata e goliardica manipolazione. Fertile, però: quasi un rito di iniziazione che, solo, può preludere ad un nuovo inizio. Perché la morte, metaforicamente inserita in un processo di purificazione, non va temuta.

E, un po’ come ne “Il flauto magico”, il silenzio diventa una delle prove a cui deve sottoporsi il pubblico-aristocrazia viennese.

Potrà esserci, allora, un nuovo inizio. E risplendere potrà “un nuovo giorno, senza più ombra né velo”.

Tra noi.

Ora.

Illustrazione di Zoa Studio dedicata a W.A.M.

Patrizio Paciullo, l’interprete di W.A.M., attraverso una forte presenza scenica e una recitazione ricca e magnetica, risulta efficace nell’esaltare la feconda ispirazione creativa della drammaturgia di Carlo Picchiotti.

Carlo Picchiotti, l’autore del testo “W.A.M. – Ironia della morte”

Uno spettacolo, che si rivela un piccolo gioiello di cura, di attenzioni e di amore verso “l’uomo Mozart”, prende forma dal cesello del regista Boccaccini, che dà prova di saper dove e come “decorare”: imprimendo, da rovescio, i volumi degli sbalzi o incidendo da dritto variegati dettagli.

Claudio Boccaccini, il regista di W.A.M. insieme a Patrizio Pucello, l’interprete

7 Sogni

TEATRO PORTA PORTESE, 15 e 16 Aprile 2023 –

Quella che la preziosa sensibilità di Alessandro Fea ieri sera ha mandato in scena, con la complicità di quattro talentuosi attori (Matteo Baldassarri, Silvia Nardelli, Giancarlo Testa e Monica Viale) è una “Lettera dall’Inferno”: una di quelle in cui si cerca aiuto ma non lo si trova né in un Dio “che non si libera dagli impegni per liberarci dal male” (come canta Emis Killa), né nelle Istituzioni. È la condizione dell’attendere godottiano che qualcosa arrivi. Qui, però, la solidarietà umana vince comunque su tutto.

Alessandro Fea, autore, musicista e regista dello spettacolo “7 sogni” al Teatro Porta Portese di Roma

Siamo in un quartiere di periferia, o meglio nella periferia di ogni periferia, dove quattro persone, già in condizioni di precarietà fisica o psichica, rischiano lo sfratto esecutivo. La loro fragile esistenza è appesa ad un filo, come quello dei panni stesi ad asciugare che campeggia sulla scena.

Una scena dello spettacolo “7 Sogni” di Alessandro Fea al Teatro Porta Portese di Roma

Un destino da “esiliati”, il loro, perché i poveri oggi sono, per dirla con Beppe Sebaste, “extra-comunitari ontologici”. Uno stare al mondo, il loro, carico di impotenza e di rabbia, che gira intorno ad una panchina: unico luogo dove ci si può sedere gratis. A sognare. E forse non è un caso che le panchine stiano silenziosamente scomparendo: per scongiurare “gli indesiderabili”, i poveri. Il nuovo posto delle panchine, non a caso, è nei centri commerciali. 

Ma è “quello che non c’è”, in fondo, a rendere “speciale” questo “bordo di periferia”: perché è proprio intorno a queste assenze che si staglia la splendida umanità di quattro disperati. Umili sì, ma dall’umiltà nasce, non solo etimologicamente, l’humus, cioè la fertilità. Quella del prendersi cura dell’altro, del farlo sentire osservato e quindi desiderato dal nostro desiderio. I loro occhi “si sbracciano” nella muta richiesta di un “Mi vuoi bene?” . E così, trovato in un dettaglio la conferma, possono affrontare la nuova odissea quotidiana. Occupandosi degli altri, del branco, anche in previsione di quando loro non ci saranno più. 

Una scena dello spettacolo “7 Sogni” di Alessandro Fea al Teatro Porta Portese di Roma

Sanno sognare: si nutrono di sogni; si curano con i sogni. Per loro è un gioco: serio, fondato su delle regole. Sono ammessi sogni belli e sogni brutti: entrambi utili a sopravvivere. Perché, poi, si condividono: sulla panchina. Una zona franca: un teatro nel teatro. 

Alessandro Fea, autore, musicista e regista dello spettacolo “7 sogni” al Teatro Porta Portese di Roma

La bellezza di questo spettacolo è impreziosita da interessanti brani musicali dal denso sentore urbano, composti e riarrangiati da Alessandro Fea, poliedrico autore, regista e musicista. 

La Compagnia Teatrale “Sofis”: Giancarlo Testa, Monica Viale, Silvia Nardelli e Matteo Baldassarri

I suoi attori della Compagnia Teatrale “Sofis” brillano nel loro essere “persone” prima ancora che “personaggi”. Perché il Teatro è un po’ come stare su una panchina: ha uno scopo in sé. È un atto di civile anarchia. 


Qui, la mia intervista ad Alessandro Fea


Recensione dello spettacolo THE HANDMAID’S TALE – Il racconto dell’Ancella – di Margaret Atwood – regia di Graziano Piazza

TEATRO BASILICA, dal 13 al 16 Aprile 2023 –

Nell’adattamento di Graziano Piazza, “The Handmaid’s Tale – Il racconto dell’ancella” si apre con un Prologo sul prezioso valore di una “storia” e del suo “istor”, cioè “colui che ha visto”. 

Graziano Piazza, regista de “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

Una “storia”, infatti, sia che riguardi fatti umani realmente accaduti o anche invenzioni della fantasia, è molto probabilmente la cifra più importante della nostra specie, ciò che ci differenzia dal resto dell’universo. Perché una “storia” permette di mantenere la memoria; di apprendere da ciò che i nostri simili hanno fatto in passato e di ripercorrere quale sia stata la successione cronologica e il perché di umane vicissitudini.

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

Nel Prologo, di tutto ciò parla una giovane donna dei nostri giorni (una magnetica Viola Graziosi). Lo fa attraverso un megafono: il suo però non è un discorso dai toni enfatici di chi sta partecipando ad un evento. No, la sua assomiglia più ad una confessione che è insieme anche un avvertimento. È il suo, un tono che ci predispone ad attivare il prezioso istinto della paura, segnale che ci avvisa della necessità di uno stato di allerta.

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

La “sua” storia, la giovane donna, ci confessa che continua a ripeterla nella sua mente: per non dimenticarla, visto che lì dove sta ora non è permesso scrivere. Ma una “storia” per essere tale, non può rimanere nei confini ristretti di una sola mente: deve essere raccontata a qualcuno. Questa è anche l’essenza del teatro, la sua ontologia. Il suo valore terapeutico: etico, politico e civile. La giovane donna lascia, allora, il megafono e si fa a noi vicina. Ci guarda: sembra incredula. Siamo tanti. Siamo tutti disposti ad ascoltarla. Il racconto della “storia” dell’ancella può avere inizio. 

Nel suo adattamento de “Il racconto dell’ancella”, Graziano Piazza individua e seleziona i passi più intensi dell’omonimo romanzo distopico (1986) di Margaret Atwood, una delle voci più note della narrativa e della poesia canadese, dal quale Harold Pinter ha tratto la sceneggiatura per il film omonimo, diretto da Volker Schlöndorff (1990)

Filo conduttore dell’opera è quello del “cosa accadrebbe se…” ma la Atwood sceglie di non inserire nel romanzo invenzioni fantasiose o eventi irreali, bensì fatti già avvenuti e comportamenti umani già messi in pratica in altre epoche o paesi, concatenandoli tra loro. Ne scaturisce così “la storia” di Paesi che alla fine del ventesimo secolo, si trovano nell’emergenza di trovare una soluzione alle conseguenze di una guerra mondiale che vede le rivolte interne fuori controllo, l’inquinamento a livelli insostenibili e la tossicità delle scorie radioattive causa di un tasso di natalità prossimo allo zero. I capi di Stato allora si accordano su un patto che lascia ai singoli governi la libertà di gestire la crisi, attuando ogni provvedimento ritenuto necessario. 

Margaret Atwood

Nel Nord America (nel Maine), ad esempio, un regime totalitario di stampo teocratico sale al potere con un colpo di stato dando vita a “La Repubblica di Galaad” che, arbitrariamente si ispira alla Bibbia, per regolare le dinamiche sociali. Ne deriva che illegale è ogni altra confessione religiosa; illegali sono i libri, la musica e ogni attività non conforme all’orientamento conservatore del regime. Per dare una soluzione definitiva alla riduzione delle nascite, invece, i galaadiani decidono di destinare le donne fertili alla procreazione a prescindere dalle singole volontà.

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

Nella Genesi, infatti, quando Rachele dice a Giacobbe che non può avere figli, aggiunge: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Dall’esempio della serva Bila nasce la figura dell’ancella.

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

Una Viola Graziosi piena di grazia è qui anche l’ancella: di lei tutto parla. Anche quando non si muove. Anche quando nel suo racconto, sempre carico di un pathos che rifugge dagli eccessi, semina feconde pause. Un raffinato disegno luci e delle sonorità ambiguamente inquietanti fanno da efficace contrappunto alla sua narrazione. La scena è essenziale ma potente, incisiva.

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella”

L’adattamento del testo focalizza l’attenzione non solo sulla pericolosa deriva in cui possono incorrere i diritti umani e la libera espressione di una volontà critica ma anche sull’inumana mancanza di solidarietà tra donne. In particolare, ma non solo, la scelta delle “zie” (le donne che nel sistema piramidale della Repubblica di Galaad avevano la funzione di aguzzine) a perpetrare violenze fisiche e manipolazioni psicologiche sulle ancelle, al fine di spegnere in loro ogni sussulto di desiderio e di libero rispetto della propria volontà. 

Viola Graziosi, protagonista del monologo “Handmaid’s Tale- Il racconto dell’ancella

Suggella la narrazione della “storia”, un Epilogo della giovane donna del Prologo che ora si pone prossemicamente in comunione con noi del pubblico. Non si rivolge più a noi dal fondo del palco, parlandoci attraverso il megafono; ora, grazie alla capacità terapeutica del raccontare e grazie al nostro attento e commosso ascolto, si sente libera di avvicinarsi e di sedersi, a terra, sulla ribalta, come tra chi si è instaurata una relazione di “fertile” complicità umana. E conclude il suo commento con una splendida riflessione sul potere del perdono.


Recensione di Sonia Remoli

LAZARUS di David Bowie e Enda Walsh- regia Valter Malosti

TEATRO ARGENTINA, dal 12 al 23 Aprile 2023 –

La cifra di Valter Malosti, il suo essere cioè un regista, attore e artista essenzialmente “visivo”, si manifesta epifanicamente all’apertura del sipario.

Valter Malosti, regista della versione italiana dello spettacolo “Lazarus”

In principio fu l’Immagine: un maxischermo tv proietta un affastellamento di immagini, una fertile confusione, essenziale al progetto di regia. Malosti sceglie, infatti, di rivelare “visivamente” allo spettatore solo il flusso di coscienza del protagonista, rendendo Thomas Newton il migrante interstellare, un Manuel Agnelli che, chiuso in se stesso, si cela prossemicamente al nostro cospetto. Terrorizzato dall’ignoto di cui noi spettatori siamo portatori, sprofonda con seducente decadenza nella sua poltrona, volgendoci le spalle.

Manuel Agnelli, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

In un allucinato e ossessivo flusso, le immagini del maxischermo progressivamente si quintuplicano su altri piccoli schermi che, come collegati da insolite sinapsi, riproducono dettagli di quelle stesse immagini. E non solo.

Il geniale effetto, travolge e volutamente strania lo spettatore, che si ritrova a perdersi nei loop mentali del protagonista. A scorrere ciclicamente non sono solo i pensieri di Thomas Newton-Agnelli ma, altra efficacissima trovata scenografica, anche il pianeta sul quale è caduto (la Terra), reso da un roteante studio-laboratorio (le scene sono di Nicolas Bovey). Straniamento suggellato dal primo brano di David Bowie, interpretato da un magnificamente tormentato Manuel Agnelli: “Lazarus” .

Manuel Agnelli, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

In questo sinergico adattamento, dove i brani musicali sono parte intimamente integrante della drammaturgia, il progetto sonoro è affidato alla cura di Gup Alcaro e prevede in scena anche una band di 7 elementi, così efficacemente “metafisica” da sembrare essere stata scelta con la stessa folle dovizia con la quale David Bowie andò alla ricerca della propria per realizzare il suo musical. Quasi come sfere celesti, quindi, l’Immagine, la Musica e la Parola si armonizzano come attraverso moti di rotazione e di rivoluzione.

La band in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Ma ciò che rende il tutto un’eccellenza, è la capacità registica di far sì che questo sofisticatissimo meccanismo tecnico-filosofico-psicologico risulti una realtà fruibilissima: di immediata comprensione per ciascuno di noi del pubblico. Perché, in fondo, ciò di cui si parla è la natura della nostra quotidianità: di come “ci incagliamo”, per un barlume di sicurezza, rinunciando alla nostra più autentica libertà: quella del perdersi per poter rinascere. Ogni volta: come “quell’uccellino azzurro”.

Cromaticamente, infatti, l’azzurro è il colore che fa da filo conduttore a tutto lo spettacolo: azzurri, ad esempio, sono i capelli delle Moire: le dee del destino nella mitologia greca.

Le Moire, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Onnipresenti nella vita reale e in quella “immaginata” da Thomas Newton, così come il destino è onnipresente alla vita di ciascuno di noi. Ma lungi dall’essere solo un’ossessione di insicurezza, l’adattamento del testo di David Bowie e di Enda Walsh realizzato da Valter Malosti enfatizza una “visione” del destino traducendolo in un input vitale potentissimo: “volgiti e affronta l’ignoto !”. E, quindi, apriti all’insicurezza ! Ogni volta. Sarai sempre “un assoluto principiante” sì, ma anche “un eroe”. Anche solo per un giorno. In una ciclicità tragica ma piena di grazia.

Casadilego, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Ciclicità come quella sulla quale è costruito il giro di accordi di ” This Is not America”, tale da tollerare lo spostamento di tono ad un’altra altezza. Qui, a “osare” reinterpretare il brano-profezia è una diafana Casadilego che riesce, con la sua umana e celestiale fragilità vocale e posturale, a rendersi carismaticamente “trasparente”, permettendo così anche a noi, come in un incanto, di passare attraverso la pesantezza della natura umana. Come in un gioco di luce. Perché se la prima consapevolezza che gli umani hanno è quella di sapere “ciò che non si è”, è però possibile attraverso l’Altro venire a conoscenza “di ciò che si è”. Se si ama e si è ricambiati. In un perdersi, senza controllo, per potersi scoprire. Non dando le spalle all’ignoto (postura magnificamente resa dal Thomas Newton-Manuel Agnelli di Valter Malosti) ma “voltandosi verso di esso e affrontandolo”. Come il migliore degli incontri. Ogni volta. “Finché ci sarai tu, finché ci sarò io”. 

Una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Valter Malosti ancora una volta, come un alchimista impegnato a lavorare in primis su se stesso, riesce a dare prova di sapere come avvalersi dell’ arte del mescolare elementi della Tradizione a quelli dell’ Avanguardia, dove tutto trova un equilibrio grazie alla valorizzazione di ciascuna preziosa diversità. E così, ciò che arriva al pubblico è un trionfo di coralità. Una “pietra filosofale” nella quale lo spettatore stesso è invitato a prendere parte, dando vita ogni sera a qualcosa di misteriosamente e meravigliosamente nuovo. Perché così è la vita.

Il cast al completo agli applausi


Qui, intervista su Corriere.it


Qui, intervista su RadioDeejay


Qui, intervista su Rolling Stone



Recensione di Sonia Remoli

7 Sogni – Intervista al regista e autore Alessandro Fea

TEATRO PORTA PORTESE, Sabato 15 e Domenica 16 Aprile 2023

A pochi giorni dal debutto del nuovo spettacolo di Alessandro Fea, “ 7 Sogni ” – in scena al Teatro Porta Portese il 15 e il 16 Aprile – ho avuto il piacere di intervistare il poliedrico musicista, autore e regista, per scoprire qualche preziosa anticipazione sull’evento.

Alessandro Fea

“ 7 Sogni “ è uno spettacolo ricco di suggestioni, di significati e di significanti. Molte, quindi, le domande che desidererei sottoporgli. Inizio dal titolo:

Perché, Alessandro, è  importante parlare di ‘sogni”  in questo momento? E perché proprio 7 ?

La scelta del numero 7 e’ legata a un gioco che coinvolge i protagonisti in scena. Non voglio andare oltre per ora: gli spettatori si appassioneranno a scoprirlo nel corso dello spettacolo.

Il “sogno” è il potere che si trova a gestire ciascun personaggio: il loro diverso modo di stare al mondo fa sì che ciascuno ne immagini uno proprio.

La capacità di sognare è, per me, centrale nella vita di noi esseri umani. È uno straordinario potere di cui disponiamo, capace di innescare in noi un meccanismo di reazione-azione ontologicamente terapeutico.

Per dimostrarlo ho scelto personaggi “ai margini”, allo stremo, messi all’angolo dalla cosiddetta società “civile”. Persi sì ma solo apparentemente perdenti o impossibilitati a qualunque reazione. Sarà invece proprio la loro capacità di “sognare una svolta”, di investire in una “presuntuosa” sfida, a regalare loro la più audace voglia di vivere e di reagire.

Mi è sembrato utile ricordare a noi tutti, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo, dov’è che va cercato il fulcro delle nostre esistenze. Da dove si originano le nostre migliori energie.


Trovo molto bella, Alessandro, la scelta di rendere protagonisti degli “esiliati”. Come nasce questa tua esigenza?

Dalla ricerca di una verità di vita. Perché per esperienza personale, e poi lavorativa, mi sono trovato spesso in contesti lontani dalle mie origini, io che sono nato in una Roma borghese. E lì, proprio in quei contesti così “diversi”, ho capito e imparato quanto la vita a volte non offra possibilità di scelta ad alcune persone.

Mi riferisco a situazioni sociali di povertà, di disabilità, di prostituzione. Ma nascere in certi contesti piuttosto che in altri, ti “investe” anche di un imprinting speciale. Paradossalmente, dove c’è “meno” ho sempre trovato “il più“: una umanità “talentuosamente” portata a valorizzare le piccole cose e la preziosa unicità delle relazioni umane. Lungi dall’essere un giudizio, trovo che questa sia la pura realtà.

E dare voce a chi non riesce ad averla, credo sia un dovere per chi come me scrive e sente l’esigenza di dare un volto alla sofferenza. Sono consapevole che risulta “scomodo” parlare di certi argomenti e focalizzare l’attenzione su certe situazioni sociali “al limite”. Preferibile, per i più, ghettizzarle in luoghi lontani dagli occhi.

Ma se penso a figure come Lou Reed che per una vita hanno scritto di periferie, di droga, di emarginati, sapendo trovare il modo di farne “poesia”, allora perché non prendere esempio promuovendo questo impegno sociale a voler dare voce a chi non ha la possibilità di urlare ?



Che cosa rappresenta oggi la periferia, Alessandro ?

La periferia di oggi è diversa da quella descritta da tanti autori anni fa. Oggi, almeno a mio avviso, le città sono sempre più “costruite a blocchi” talmente isolati ed autonomi da divenire “micro città” nelle città stesse.

Al degrado urbano e sociale sempre più marcato dovrebbe rispondere una forte esigenza a far convivere culture diverse. C’è invece una grande difficoltà giovanile a trovare lavoro. C’è una crisi di valori sociali e morali altissima: complice anche la devastante presenza di Internet nelle nostre vite, che tende ad annullare il distacco tra realtà e finzione.

Colori sonori

Che tipo di musica hai composto per accompagnare queste storie? 

Un po’ sulla scia dello spettacolo “Anna e altre Storie”, come cornice sonora sono andato su suoni “attuali”. Mi sono ispirato a brani recenti, ai suoni industriali, alle voci italiane dell’ultima generazione che gridano dolore esprimendo con insofferenza le problematiche da cui sono afflitte.

Non parlo di Trap (che non amo affatto) ma di giovani autori che si esprimono in maniera decisamente interessante in quanto appassionati verso nuove ricerche sonore e testuali. Mi è piaciuto relazionarmi con loro attraverso il mio stile. Trovo che si sia creato così un fertile flusso tra me e loro. Uno stimolante scambio generazionale tra un musicista boomers e nuove leve.

Il “suono” del dramma, della sofferenza, l’urlo che ne viene fuori, ha una base forte. Suoni diretti, duri, quando questo è il messaggio da veicolare. Morbidi, romantici quando serve altro. Come sempre accade nei miei spettacoli, la musica è quel “personaggio” in più che parla con gli attori.

E ora parliamo della tua compagnia “Sofis”: cosa racchiude questo nome? Qual è lo spirito che la guida ? Cosa vi unisce ?

Il nome è nato come omaggio a mia figlia Sofia nata ormai 20 anni fa. Lo spirito che ho sempre cercato di avere è quello di scrivere storie urbane, vere. Ho sempre sperato che potessimo diventare un piccolo punto di riferimento nell’immenso mondo teatrale, con il nostro stile, il nostro linguaggio.

Considero il lavoro per la compagnia un vero e proprio “viaggio”. Un viaggio bellissimo in cui ogni singolo elemento che va, che viene, che entra, che esce, si possa trovare a suo agio e possa dare così il proprio contributo con tutto l’entusiasmo che cerchiamo sempre di mettere in tutto quello che facciamo.

La prima regola per me è sempre quella di creare un clima dove non ci siano “prime donne” ma tutti al servizio di tutti, me compreso. Un lavoro collettivo, di continuo scambio, di crescita continua, fatta di preziose osservazioni critiche, indispensabili per correggere il tiro.

E questa filosofia negli anni ha pagato: lavorare in un clima siffatto evidenzia infatti l’ unicità dei singoli attori. E li aiuta a crescere, non solo sul palco. Vengono valorizzate a 360 gradi le caratteristiche migliori di ciascuno, perché è la forza del gruppo a renderlo possibile. Esattamente come in questo spettacolo.

Mi piacciono molto i concetti di “solidarietà da branco” , di “istinto ferale” e quello di “fare cerchio”. Parliamone.

Come detto sopra, è la forza del gruppo la vera leva. Un gruppo che può anche litigare, avere crisi di qualsiasi tipo ma alla fine trova sempre il modo di compattarsi. E che quando si verifica “un attacco esterno” riesce sempre a trovare energie, quasi inimmaginabili, per combatterlo.

Esplicando un vero e proprio spirito di sopravvivenza ancestrale, dove l’umanità, il vero senso di umanità, vince, vive. Esiste. Valore esistenziale che non sempre nella società di oggi riesce a trovare espressione, soprattutto quando invece invita a chiudersi nel proprio singolo egoismo.

In un orizzonte che accecato dall’egocentrismo dà vita a “isole” umane più che a “reti” relazionali. Mentre invece è proprio nell’aiuto che solo il “branco” può offrire, che ci si ritrova davvero. Nella propria essenza. E si cresce. Ci si evolve. Nel confronto, nello scontro, nel dialogo.

Ti ringrazio Alessandro. Ora non resta che venire a vedere il tuo spettacolo !

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Teatro Porta Portese

7 SOGNI

Sabato 15 e Domenica 16 Aprile

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Ricordate che eravate violini – Meditazione notturna per una voce sola –

TEATRO BELLI, 5 e 6 Aprile 2023

Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.

Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.

Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.

Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales

Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.

È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.

Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.

Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.

In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.

Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.

Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.

“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.

E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .

Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.

E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .

Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?

La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.

Lorenzo Sabene

Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.

Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.

E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.

Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.

Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.

Francesco D’Alfonso

Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.

Due perle, i camei fuori campo di Roberta Azzarone e di Lorenzo Parrotto.

Giorgio Sales ci strazia. Ma non possiamo farne a meno. Riesce ad essere tutto e il contrario di tutto. Suo, è il profumo dell’attore.

Giorgio Sales

” Voi che siete oppressi ed esalti nel male,

ricordate che eravate violini

pronti a suonare le ragioni del mondo ”

(Alda Merini, Cantico dei Vangeli).