Recensione dello spettacolo IL GIORNO IN CUI MIO PADRE MI HA INSEGNATO AD ANDARE IN BICICLETTA di Sandro Bonvissuto – con Valerio Aprea –

TEATRO INDIA, dal 15 al 27 Ottobre 2024

Meravigliosamente ostinato è questo racconto di Sandro Bonvissuto, raccolto nell’opera d’esordio “Dentro” (Einaudi 2012): una qualità dell’occhio e del cuore, la sua, capace di coinvolgere fino a far avvertire il nostro posto nel mondo. 

Il suo è un cordiale insistere – autenticamente sincero, e quindi simpatico, mirabilmente incarnato dall’interpretazione di Valerio Aprea – che nella sua diretta limpidezza ci tocca il cuore. 

Un insistere che si avvale della scrittura per andare a ricontattare quella “polvere” propria della stagione dell’infanzia, che non va via “neanche se ti lavi”: quella in cui si desidera un altrove, ovvero “un non stare dove si è”. E da qui, di nuovo “impolverato”, Bonvissuto arriva a fotografare quell’esigenza urgente dell’avvicinarsi al confine con una nuova consapevolezza di sé, rappresentato dal rituale dell’imparare ad andare in bicicletta.

Ecco allora che tutto il racconto risulta pervaso da una felice sinergia d’indagine sulla psiche umana, che rielabora echi di diversa provenienza. Shakespeariani, ad esempio: dal Prologo del “Riccardo III” sembra arrivare il riverbero di quello” scontento” della stagione dell’inverno che, per il suo “contrarsi” non è foriera di fertili accadimenti. E poi arriva anche il riverbero di quel feroce “dilatarsi” proprio dell’accecante “luminosa” estate, crogiolo invece di interessanti trasformazioni. La punteggiatura interpretativa di Aprea qui è superlativa.

Ma non solo: arrivano echi anche dalla concezione cosmologica dei filosofi presocratici, per il potere generativo attribuito ad alcuni elementi naturali quali il caldo, il freddo, il fuoco, il vento.

E poi c’è poesia. Tanta poesia.

Lo stile di Bonvissuto ha il pregio di essere ferocemente gradevole. Accattivante. Persino consolatorio. Qualità restituite credibilmente da Valerio Aprea, totalmente disponibile ad incarnare le diverse temperature della scrittura dell’autore. Il calore della sua voce sa farsi luce, delineandone tutte le variazioni. Incluse le ombre. Graffiante quel suo rendere l’ “invernale” paura di osare, asfissiata dai legami di causa-effetto, splendidamente cesellata dall’incipit “Non succede mai niente d’interessante d’inverno”.

Valerio Aprea

La dilatazione accecante che ci offre invece l’estate permette alla vita di “uscire fuori da un qualcosa”, proprio laddove l’inverno tenderebbe a ricacciarla dentro. 

E una volta uscita fuori, la vita è “colla”: ti appiccica al bene. Il che non esclude il potersi incontrare con il male, con il pericolo. Come quando il padre del racconto sente – dalla perentorietà con cui il figlio glielo chiede – che è arrivato il momento giusto per insegnargli ad andare in bicicletta, nonostante la madre li inviti a desistere per evitare pericoli. 

Ma far sì che non succeda nulla per eccessiva prudenza, è peggio – sottolinea il padre. Perché nemico del bene non è il male. Ma il Tempo. Cioè il rimpianto. Ecco perché è importante “cogliere” l’arrivo del momento in cui insegnare al proprio figlio a “guidare” un nuovo modo di desiderare: quello che non si lascia guidare. Perché continuamente va cercato e trovato un nuovo equilibrio. Come con la bicicletta. Come con la vita.

Valerio Aprea

Abbiamo a disposizione la nostra infanzia, ci confida Bonvissuto, per prepararci inconsapevolmente alla venuta del giorno in cui fare quel salto verso la consapevolezza di “osare scegliere”. E non più contare “sull’essere scelti”. 

Abbiamo a disposizione ciascuno il nostro “piccolo deserto”, un tempo che appartiene ad un luogo che ogni anno inizia a prendere una diversa sembianza, perché ridisegnato dal vento di un desiderare che cambia, acquistando consapevolezza. Fino a che quel luogo e quel tempo sembrano finire improvvisamente, bruscamente. Come il giorno in cui ti accorgi di essere cresciuto. 

Perché saper andare in bicicletta non è una di quelle cose che tutti acquisiamo per natura. Ma che occorre guadagnarsi individualmente. Non ci sono istruzioni, perché non si può spiegare con la logica un rituale di crescita. Possiamo avere un maestro però, un “testimone dell’incredibile”, capace di insegnarci senza parole. Un padre, ad esempio.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA CASA NOVA di Carlo Goldoni – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA, dal 14 al 24 Marzo 2024 –

“  Ti piace “  ?

E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede. 

E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.

Il regista Piero Maccarinelli

Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia. 

E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso. 

Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente.  Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto. 

Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi.  Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.

Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere. 

Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui. 

Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.

Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.

E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.

Geniale ed effervescente, in equilibrio tra  tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.

Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.

La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’AmicoLorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea,
Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia
– si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.

Stefano Santospago (zio Cristofolo)

E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”. 

Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CAVALIERE INESISTENTE di Italo Calvino – regia di Tommaso Capodanno

TEATRO INDIA, dal 4 al 17 Dicembre 2023 –

Troppo spesso “dorme sepolto in un campo di grano”, sopraffatto dall’istinto a dominarci l’uno sull’altro, fino a farci guerra. È quel tendere verso il desiderare, che sa fare di un certo senso di mancanza, proprio di noi umani, l’arte di individuare e quindi di poter esprimere la nostra unicità, il nostro talento. Regalandoci la “prova”, il senso, della nostra esistenza.

In una sorta di proemio, questa tensione vitale a desiderare prende forma attraverso un motivo musicale: un canto primordiale ricco in mancanze. Quasi una lallazione. Solo successivamente il motivo musicale, declinato in “variazioni”, torna in alcune situazioni chiave della storia prendendo la forma di parole dotate di quell’univocità propria dei principi della logica.

Francesca Astrei, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane e Maria Chiara Bisceglia

In un geniale procedere per cerchi concentrici, le quattro interpreti del canto del proemio sono anche i personaggi stessi del romanzo – a loro affidati attraverso una triplice partitura per ognuna – abitati diversamente dalla presenza-assenza della tensione a desiderare. Ma non solo: a loro è affidata anche la voce narrante della storia, resa attraverso degli a-parte con lo spettatore. Una struttura decisamente convincente.

Nell’allontanarsi o nel sopprimere la tensione a desiderare, i personaggi di questo romanzo sentono di “non esistere” e ognuno a suo modo compensa questa “mancanza” con qualcosa di diverso.

Agilulfo con lo zelo “fascista” e con l’ordine maniacale. Che però non riesce a salvarlo quando in lui si insinua la mancanza di autostima, dono sociale. Socialità dalla quale lui dipende meccanicamente, attenendosi strettamente alle disposizioni. E se le disposizioni vengono meno è la fine, non avendo mai educato un suo spirito critico. Commovente, in questa scena, la capacità dell’interprete Evelina Rosselli a trasferire anche all’armatura il diverso respiro che abita Agilulfo, preda del terrifico dubbio sulla sua “etichetta” da cavaliere. Lui sa solo nozionisticamente che vivere significa “lasciare un’impronta particolare” sul mondo. E inoltre giustifica il suo “aver venduto” il proprio corpo e il proprio giudizio critico ad altri, con il fatto che chi un corpo e quindi “una capacità di sentire” ce l’ha non la utilizza.

Rambaldo preferisce l’ansia di vivere alla pace di chi è morto ma non sa gestirla. Compensa con la vendetta ma resta inerme – almeno inizialmente – di fronte alla follia più  grande, quella dell’amore.

Bradamante oscilla tra una compulsività nell’amare e una ricerca di rigore assoluto, che prima sublimerà – attraverso l’identità di Suor Teodora – con la scrittura, per poi imparare che vera bellezza è entrare “in relazione” con l’altro.

Gurdulù “è uno che c’è, ma che non sa d’esserci”: risponde meccanicamente all’istinto, quasi come un animale, confondendo se stesso con le cose che lo circondano .”Tutto è zuppa”: bellissima, in questa scena, l’espressività delle mani di Francesca Astrei.

“Un po’ è un macello, un po’ è un tran tran” – dice Bradamante – e chi “vince” ci riesce “per caso”, non per la capacità di “riuscire a riuscire”. Poi c’è l’armatura “a reggerli tutti dritti”.

Ma “imparare ad essere, si può… e la paura ha senso, se dietro c’è la vita che spinge !”.

Tommaso Capodanno

Molto fluida e fertile la sinergia con la quale l’interessante taglio registico di Tommaso Capodanno si lega all’adattamento di Matilde D’Accardi, alla resa interpretativa delle attrici in scena – Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane – e alla cura delle scene di Alessandra Solimene. Complice anche una drammaturgia delle luci che rende con efficacia poetica luci, ombre – e luci delle ombre – di ciascun personaggio. Molto suggestivo, soprattutto in alcuni momenti dello spettacolo, quel sapore proprio della drammaturgia del Teatro Povero di Monticchiello.

La coralità eterofonica delle interpreti brilla nel rendere le variazioni della “follia” delle parole e del ritmo del testo di Calvino. Guizzi, laddove emergono, sono accolti e messi a servizio, come chiede lo stile di un “ensemble”. Che trova la sua forza nel riuscire a rendere ciascuno, insostituibile parte di un tutto.

E il pubblico lo percepisce.

Perché così può essere il Teatro. Perché così può essere la Vita.

Soprattutto in questa nostra epoca così “miope”, in cui siamo tentati a lasciare in custodia altrui il porta occhiali con il nostro “sguardo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CIRCE di Luciano Violante – regia di Giuseppe Dipasquale

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Spettacolo pluripremiato il 30 Agosto al Teatro Cortesi di Sirolo in occasione del Festival e Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile

Premio a Luciano Violante (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Nuova Drammaturgia) –   perché «la sua versione dei fatti é la versione di una donna imprigionata dal volere altrui che cerca di liberarsi dai vincoli patriarcali». 

Premio a Viola Graziosi (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior Attrice)

Premio a  Giuseppe Dipasquale (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Regia e Scenografia). Il nuovo direttore di Marche Teatro -Teatro di rilevante interesse culturale- offre «uno sguardo caleidoscopico che ci rimanda ad un linguaggio cinematografico, all’immagine inconscia e metafisica. Circe è parte di un mondo fluido, Circe tra mito e realtà; prigioniera del suo abito crisalide e del suo stesso incantamento che le impedisce la piena libertà: ricca di rimandi iconografici da Bottazzi a Waterhouse in una sinergia tra mitologia e lirismo, il percorso di una donna alla ricerca dell’essenza dell’essere».

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TEATRO INDIA, dal 15 al 26 Novembre 2023

Che cosa significa “raccontare” ?

Il racconto è qualcosa di affidabile? 

Il racconto è  lo sforzo, il tentativo, di chi vuole comunicare qualcosa. Con una determinata intenzione.

Cosa sappiamo di Circe?

Il racconto più diffuso fa di lei una maga ingannatrice e malvagia. Ma è solo un punto di vista, un tentativo di comunicare qualcosa. Ci sarà  dell’altro? 

Luciano Violante

Da qui probabilmente nasce il desiderio di Luciano Violante, ex magistrato e  politico italiano, di approfondire il fatto. Il mito, in questo caso. Ne scaturisce un testo davvero convincente che l’originalissima regia di Giuseppe Dipasquale e l’istrionica interpretazione di Viola Graziosi  rendono irresistibile.

Giuseppe Dipasquale

Questo di Luciano Violante è il racconto su Circe, di Circe: la sua versione dei fatti. Il suo personale e consapevole entrare nell’habitus costruito per lei dagli altri. L’altra faccia della medaglia. La parte mancante, ad ora. Quella che era rimasta ingabbiata in una struttura rigida, mortifera. Che le toglieva respiro.

Viola Graziosi

È la sua voce a farsi corpo. Ma a differenza di un corpo, non è parte determinata di una materia. E’ tutta la materia, tanto è variegata – l’espressività vocale e mimica di Viola Graziosi è stupefacente, al di là degli accattivanti effetti sonori ad essa applicati.

E poi è essenza. Una voce caleidoscopica, dilatata, con echi. Una voce che si specchia e produce un rimando. Una voce epica: fisica e metafisica. Un canto: una melodia sì,  ma anche un punto di vista: quell’angolo dell’occhio che produce quella particolare curvatura. Quel particolare sguardo. Ed è incanto.

Scenograficamente questo suo caleidoscopico sguardo è riprodotto quasi fosse una proiezione cinematografica. Una proiezione lisergica, inconscia, metafisica all’interno di un grande occhio che le fa da fondale. Lei così disponibile a farsi parte di un mondo fluido, marino e non solo. Lei così poliedrica, seppur incarcerata in un racconto che le tarpa il corpo.

L’appassionata regia di Giuseppe Dipasquale visualizza molto efficacemente questa prigionia: non ci sono quasi mai movimenti scenici in Viola Graziosi se non quei piccoli, flessuosamente ondulati, liquidi movimenti delle sue mani. Unitamente alla restituita possibilità di entrare e di uscire dal rigido habitus, confezionato sul precedente racconto intessuto su di lei.

Il magnifico apparato scenografico cita con originalità celebri opere iconografiche dedicate al mito di Circe : partendo dal dipinto del poliedrico pittore romano Umberto Bottazzi (1865 – 1932) per arrivare al britannico preraffaellita John William Waterhouse (1849 -1917). Ma è l’insieme degli sguardi della drammaturgia luminosa a vivificare – in sinergia al lirismo del testo di Luciano Violante – questo nuovo racconto restitutivo.

Eccolo. Fu il padre di Circe a scegliere per lei: le ordinò di rinunciare a tutti i privilegi di essere una divinità, anche se minore, per scendere tra i mortali. Una descensus che solo apparentemente ha il sapore di un esilio: in verità è una missione, una vocazione terapeutica. Un viaggio che lei solo percorrendolo dentro di sé può restituire a coloro che riescono ad avvertirne l’esigenza. Perché – le disse suo padre – “serve uno sguardo diverso sul mondo: serve lo sguardo di una donna”. 

Nella sua discesa interiore – metaforico viaggio fino all’isola di Eea – a lei si uniranno dei mortali ingiustamente condannati a causa di racconti ingannevoli . Proprio come è  successo a lei. Perché “per gli umani sovente la verità è piena di spine, mentre l’inganno di miele”.

L’isola di Eea diverrà così, nel nuovo racconto portato alla luce da Violante, un luogo di purificazione: dove, chi ne avvertirà  l’esigenza, potrà fermarsi per purificarsi, per redimersi.  Un luogo gestito solo da donne e dal loro sguardo sul mondo.

Viola Graziosi e Graziano Piazza (Ulisse)

Vi si fermeranno in molti: non ultimi gli uomini di Ulisse. Uomini affamati di cibo e di donne, di cui si considerano padroni. Allo specchiante sguardo di Circe non passa inosservato questa brama di sopraffazione, di illecito potere: nel suo sguardo ciascun membro della ciurma di Ulisse vede riflessa l’autentica natura ferina che cela.

Ma, essendo ancora incapaci di avvertire l’esigenza di un viaggio interiore purificatorio, è  opportuno che vivano consapevolmente questa momentanea trasformazione propedeutica.

Poi arriverà Ulisse: colui che consapevolmente confeziona racconti mendaci. Lei lo disarma immediatamente. Ma lui oppone resistenza: “Io sono quello che sono”. E non si può mutare il cuore di un uomo, se l’uomo non vuole.

“Io voglio non aver catene, questa è la mia tragica libertà” – continua l’Ulisse di Violante.

Serve infatti un coraggio di donna, per affrontare se stessi.

Serve la capacità e la vocazione a desiderare di entrare in relazione con l’altro.

Relazione, non sopraffazione. 

Preziosissimo questo progetto “DONNE! Trilogia sulle donne dal mito ai social” voluto dal Teatro di Roma.

Perché è importante raccontare, denunciare, far conoscere, rivelare nuovi sguardi su ciò che ci accade.

Perché è importante che i vari racconti entrino in relazione e si faccia chiarezza. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STORIA AL CONTRARIO di e con Elena Arvigo –

TEATRO INDIA, 7 e 8 Novembre 2023 –

La sua non è solo una narrazione: è un canto. La sua voce non si limita a far conoscere, a testimoniare. La sua voce è colma di suoni: di una varietà ricchissima. Modulati con regola e misura eppure così complici, così vicini. Intimi. A tratti, prossimi ad un dolce lamento. In altri momenti, simili ad una preghiera. Come quando Elena Arvigo, ovvero colei che “canta” la storia e quindi le gesta di Francesca De Sanctis – autrice dell’omonimo libro del quale lo spettacolo è una riduzione – legge e ripete passi della Lettera di Gramsci a suo fratello (Lettere dal carcere, 12 Settembre 1927). Non per mandarli a memoria, quanto piuttosto per scriverli nella sua carne. Perché ogni storia è la storia di un corpo.

La narrazione della Arvigo oltre ad essere un canto è infatti anche una danza. È ritmo: vocale e fisico, mimico e simbolico, dove unità e differenza riescono a convivere. E così la storia diventa una grande coreografia, che aspira alla leggerezza proprio mentre resta attratta dalla forza di gravità. 

Oltre che canto e danza la narrazione è una giostra: una struttura girevole nella quale occupare un posto. Accanto agli altri. Un intrattenimento, uno spettacolo vitale carico di confusione turbinante, dove non è semplice trovare di volta in volta equilibri sempre nuovi. In bilico tra sogni e precarietà; tra l’entusiasmo del colore rosso e la chiusura del colore nero, che assorbe luce anziché rifletterla. Colori che danno forma alla scena, metafora dei diversi “habiti” della psiche della protagonista. Spesso “frullati” dal vortice alimentato da sfere girevoli ai piedi di elementi apparentemente stabili. 

Elena Arvigo in una scena dello spettacolo “Una storia al contrario”

Ma soprattutto la narrazione è una sacra testimonianza, un atto di impegno civile ed esistenziale.

È la storia di come il microcosmo professionale ed esistenziale della giornalista Francesca De Sanctis si dilati attraversando gli estremi del fondersi e del distaccarsi dal macrocosmo del settore giornalistico, per arrivare a conquistare progressivamente “il suo libero uso del proprio”, come amava sostenere Friedrich Holderling.

È la storia di una donna che sente urgente l’esigenza di testimoniarci quanto sia complesso – ma non impossibile – imparare a relazionarsi con l’Altro da noi: la famiglia, il mondo del lavoro, i colleghi, il concetto di giustizia e quello di meritocrazia.

È la storia dell’odissea di una ghiandola, il timo, che regola la nostra capacità di difenderci dagli altri, dall’esterno. Come un angelo custode o uno spirito guida, il timo ha la potenza di accompagnarci nel dosare la giusta quantità di difesa da mettere in campo, costruendo confini vitali che ci proteggano senza isolarci. E senza lasciarci invadere.

È la storia dei ” nonostante tutto”, delle avversità cioè che possono diventare preziose per conoscerci meglio. Per realizzarci, non solo e non tanto nel lavoro ma nell’arte di vivere.

È la storia dei traumi che sconvolgono la vita di ciascuno di noi – le varie “storie al contrario” – che ci trovano senza le adeguate risorse per fronteggiarli. Ma solo sul momento: un sano desiderio di ricominciare, di trovare nuovi inizi in ogni fine, ci salva sempre.

Perché noi esseri umani, anche se dobbiamo morire, non siamo fatti – come sosteneva Hannah Arendt – per morire ma per continui nuovi inizi. E come lo stesso fondatore del giornale l’ “Unità”, Antonio Gramsci, non si stancava di ripetere: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio (Lettere dal carcere,12 Settembre 1927).

È la storia delle “pagine bianche”: quelle della sana protesta dei giornalisti dell’ “Unità” ma anche quelle della vita. Perché il vuoto, come era solito dire Furio Colombo, a volte è la condizione necessaria per poter sprigionare il desiderio creativo di scrivere una nuova storia. Un nuovo inizio.

La giornalista Francesca De Sanctis

Una sacra testimonianza civile ed esistenziale – quella della giornalista De Sanctis – la cui voce cerca luce, visibilità. Come le scene -luoghi della sua mente- non mancano di sottolineare: una luce che “grida” il bisogno di essere vista e ascoltata. Perché ciò che è accaduto a lei, giovane e solerte donna, non è successo solo a lei.

Ecco allora che il Teatro – e in particolare il centro di drammaturgia del Teatro delle Donne, con la sua speciale vocazione ad essere spirito critico a tutela della condizione femminile – si rivela il luogo che riesce a soddisfare l’urgenza del dare adeguato spazio al testimoniare. E quindi anche al volo di una farfalla: una donna “rapita” in una scatola rossa che ora, dopo un percorso di autoconoscenza, torna rigenerata a volare. Nuovamente. Di un volo consapevolmente libero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FAHRENHEIT 451 – a cura de La casa d’argilla – regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni –

Spettacolo musicale / melologo sci-fi

“Era un piacere bruciare tutto ” .

Sì, può essere estremamente eccitante tenere tutto e tutti sotto controllo, sentendo pulsare nelle vene quell’esaltante sensazione di dominio, di potere assoluto, di sopraffazione. Senza permettere a nessun’altra emozione di influenzarci. Di invaderci. Tutti chiusi dentro questo confine rigido. Impermeabile.

Così entra in scena il fulgente Guy Montag di lacasadargilla, ensemble che ieri sera al Teatro India ha dato vita ad una infiammata ed infiammante messa in scena dell’omonimo spettacolo musicale/ melologo sci-fi tratto dal romanzo “Fahrenheit 451“.

Scritto da Ray Bradbury nel 1953 e ambientato in un imprecisato futuro, narra ( forse predicendo ) di una società distopica dove leggere o possedere libri è considerato un reato. Per contrastare questo pericolo viene istituito un particolare corpo di vigili del fuoco con l’insolita missione a bruciare ogni tipo di volume. 

“Bruciare sempre, bruciare tutto. Il fuoco splende e il fuoco pulisce”. 

Una brama ad essere “vigili” perversa: a cui qualcuno ha dato un altro verso, un altro valore. Un altro significato: non più quello di spegnere il fuoco per salvare, per donare aiuto. Bensì quello di appiccare il fuoco per distruggere chi ama leggere. Chi brucia di desiderio di sapere.

Perché leggere rivela i vari significati che si possono dare alle parole. E i significati che si danno alle parole sono importanti. Capirli risulta fatalmente pericoloso per chi è invaso dall’obiettivo di sopraffare gli altri. E subdolamente lusinga e fa credere di aver cura dell’Altro solo per indurlo a fare qualcosa che torni, in realtà, a vantaggio solo di se stesso. 

Guy Montag, zelante vigile del fuoco inconsapevole dell’inganno che il sistema sta propagandando, non è però immune dal percepire che successivamente all’eccitazione derivante dall’appiccare il fuoco con zelo e brama, si senta poi mortalmente svuotato. E non fuggendo da questa malinconica sensazione, riesce a percepire, una sera durante una passeggiata, l’ombrosa presenza di qualcuno che inspiegabilmente lo sta desiderando: qualcuno che sta aspettando il suo ritorno, sotto le stelle.

Clarissa, una giovane donna che osa, insieme alla sua famiglia, opporsi al regime dedicandosi alla lettura e preferendo vivere in natura piuttosto che di fronte a obnubilanti schermi televisivi. E Guy sperimenta con lei, per la prima volta, una sensazione insospettabilmente appagante. Finalmente la potente magia di un vero incontro: scoprire di amare dialogare con qualcuno a cui interessa ascoltarti. Per conoscersi, per scoprirsi. Per dare e per darsi: aprendo i propri confini all’osmosi, come membrane permeabili. Generosamente. La vera ricchezza di un’invasione. Come l’amore sa fare. 

lacasadargilla: Alice Palazzi, Maddalena Parise, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

La messa in scena di questo snodo cruciale della narrazione viene reso e valorizzato da lacasadargilla con la grazia di un incanto. Lei, Clarissa, arriva come anticipata da un refolo e emanando un canto favoloso, muovendosi e parlando con elegante leggiadria, quasi fosse una “Primavera” botticelliana.

Alla partitura del corpo e della voce, si legano sinergicamente una drammaturgia delle luci e una drammaturgia musicale particolarmente evocative. Liriche proiezioni floreali e sonorità eseguite dal vivo completano l’epifania, conferendo all’attimo la solennità di una conversione.

“Lei è felice ?” – chiede Clarissa a Guy. Una domanda proibita. Che insinua il dubbio sulla bontà del sistema. Un atteggiamento critico estremamente pericoloso perché induce a pensare. Saranno poi proprio i libri ad aiutare Guy a rispondere a questa domanda. Prova a parlarne lui anche con sua moglie Mildred, per condividere con lei il nuovo orizzonte esistenziale. Ma lei è totalmente assuefatta alla propaganda da non riuscire a cogliere la nuova carica emotiva del marito, se non come un tradimento al sistema. E di fronte al suo citare una poesia – la meravigliosa “Dover beach” di Matthew Arnold  – in risposta alle frivole argomentazioni delle sue amiche, Mildred lo denuncerà al sistema.

Siamo fatti così, noi essere umani: abbiamo un’anima che può aprirsi a diverse direzioni. Può sentire di essere spinta verso la libertà, verso lo spazio aperto della conoscenza, verso l’altruismo, verso la relazione, così da raggiungere un’autentica consapevolezza ma anche, ed è la nostra tendenza più originaria, essere pronta a barattare l’eccitante incertezza della libertà e della felicità per un’illusione di sicurezza, di calma protezione. Che ci vuole chiusi. Insensibili.

E poi, c’è sempre qualcuno che sceglie di approfittarsene. Perché un’indirizzo tutto umano è anche quello alla sopraffazione. Perché una donna e un uomo che abdicano alla libertà di pensiero e di espressione sono facilmente manipolabili. Allevabili, addomesticabili. E quindi innocui. Non pericolosi.

Perché rinunciano al libero arbitrio e quindi a sentire e a pensare e a esprimere qualcosa di diverso, di proprio. Preferendo scegliere di non scegliere e quindi lasciando scegliere l’Altro da sé. Apparentemente consapevoli ma quasi sempre vittime di subdole manipolazioni.

Saccheggiati, non a caso, di ciò che abbiamo di più prezioso: quel libero, creativo e quindi fertile arbitrio che ci rende unici, speciali. Consapevoli. Brillanti. Esplosivi.

L’urgenza preziosa e necessaria di lacasadargilla di dedicare così tanta attenzione al tema dell’ “invasione” nasce, oltre che dall’essere un tema sempre affascinante, anche dall’esigenza di riproporre e ricordare, attraverso la potenza rivoluzionaria dei libri, tutte le declinazioni che il concetto di “invasione” può assumere nei vari ambiti della nostra esistenza. 

Uno spettacolo infiammato e infiammante: come il teatro può e deve essere.

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sabato 2  domenica 3 settembre (ore 21:15)

SPETTACOLMULTIMEDIAL/ MELOLOGO SCI-FI

FAHRENHEIT 451

a cura di lacasadargilla regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
adattamenti Roberto Scarpetti

drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri 
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè 

drammaturgia delle luci Omar Scala disegno sonoro Pasquale Citera
con Arianna GaudioSilvio ImpegnosoFortunato Leccese, Anna MallamaciEmiliano MasalaGiulia Mazzarino, Alice Palazzi, Stefano Scialanga


percussioni Gianluca Ruggeri pianoforte Ivano Guagnelli, percussioni /el. devices Gianfranco Vozza, percussioniCarol Di Vito 

aiuto regia e coordinamento Matteo FinamoreMartina MassaroCaterina Piotti e Francesco Cecchi Aglietti


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA – un progetto di Lacasadargilla – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

TEATRO INDIA, Festival IF/INVASIONI(dal) FUTURO_Dark Ages*2023, 31 Agosto e 1 Settembre

Che cos’ è davvero un’invasione? Questo moto tanto violento quanto pacifico, lento o improvviso, momentaneo o perdurante ? Ma soprattutto qual è la sua cifra, la sua essenza ? Siamo davvero, noi umani, la specie superiore ? Siamo davvero noi i più intelligenti ?

Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023- aspettando l’inizio del melologo scifi “Consigli per sopravvivere in natura”, al Teatro India di Roma

In questi giorni, più precisamente dal 28 agosto al 3 settembre p.v., il Teatro India si lascia invadere e contaminare da realtà diverse, rendendosi permeabile all’osmosi con forme artistiche di disparata natura: narrazioni miste e atipiche di matrice antropologica, scientifica o storica e poi mondi alieni e alterati, con qualcosa di inquietantemente prossimo al reale.

Un dispositivo misto che alterna, nei diversi orari della giornata, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, laboratori, un’istallazione/performance musicale, una video istallazione multimediale, una conferenza di filosofia, un inedito progetto biennale, una biblioteca condivisa, una libreria e un palinsesto radiofonico quotidiano sulla piattaforma spreaker.

Questa è la decima edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023. 

Al Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023 l’installazione multimediale EU_PH0_R1A. A Shining Darkness di Alessandro Ferroni e Maddalena Parise – Teatro India di Roma –

Un progetto promosso da Roma Capitale -Assessorato alla Cultura- e curato da lacasadargilla: una realtà che riunisce intorno a Lisa Ferlazzo Natoli (autrice e regista), Alessandro Ferroni (regista e disegnatore del suono), Alice Palazzi (attrice e coordinatrice dei progetti) e Maddalena Parise (ricercatrice e artista visiva), “un gruppo mobile” di attori, musicisti, drammaturghi e artisti visivi.

Un ensemble allargato, il loro: un’unione di parti, ovvero una realtà che sceglie di essere una complessità, dove la personalità di ciascuno degli artisti in qualche modo “perde spicco” affinché risulti più completa l’armonia d’insieme.

Una realtà, quella della casadargilla, che fa quindi della fertilità dell’ invasione la sua filosofia. Il suo modo di essere e di stare al mondo. Non a caso la loro peculiare vocazione artistica è la realizzazione di progetti speciali “allargati” alle diverse arti. Un’invasione che impreziosisce il dialogo tra le diverse discipline artistiche. Alla base della loro ricerca, il vasto tema dell’estinzione di quei sistemi delicati e complessi che reggono relazioni, immaginazioni, antropologie ed ecosistemi.

Alice Palazzi, Maddalena Parise, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

Da questa ricerca di una fertile osmosi che, sola, permette la sopravvivenza di tali sistemi prende vita anche il primo dei loro due spettacoli musicali/melologhi sci-fi presenti a questa nuova edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023: “Consigli per sopravvivere in natura”.

L’afflato di tutto l’ensemble coinvolto in questo progetto ha offerto al pubblico, copiosissimo in sala, la magnifica possibilità di elaborare la narrazione dei racconti in scena (una selezione di racconti introvabili di quattro autrici di distopie estreme che sfiorano un orrore tutto umano: Lo psicologo che non voleva far male ai topini di Alice Bradley Sheldon; Figlio di sangue di Octavia Butler; Più vasto degli imperi e più lento di Ursula Le Guin e Palla di pelo di Margaret Atwood) come “un movimento” immaginifico e riflessivo.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

In uno spazio scenico aperto e quindi disponibile ad essere invaso, velate membrane protettive disegnano ambienti fluidi dove attori e i musicisti sempre in scena (tutti efficacissimi nelle loro partiture di corpo e voce) sostano, si muovono, assaporano le zone di confine e se ne inebriano.

Una sapiente drammaturgia delle luci crea ambienti umani dalla raffinata solitudine hopperiana, sottoposti alla tentazione a sfumare in nuovi ecosistemi: è l’ebrezza della clorofilla. E non solo. Complici i fascinosi ed enigmatici ambienti visivi e l’ossessionante e seducente disegno del suono capace di contribuire a rendere plastica la suggestione che la paura sia solo l’altra faccia del desiderio.

Un momento del melologosci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

La cura dei costumi si esprime attraverso la scelta di vestire gli attori in eleganti abiti in tessuti rigorosamente osmotici, quali il lino e il cotone.

Perché noi esseri umani, pur essendo dotati di un cervello, non siamo le creature più intelligenti sul pianeta. Essendo esseri animati siamo solo le creature più veloci a trovare soluzioni per adattarci ai mutamenti dell’ambiente. Ma la nostra organizzazione verticistica ( che per di più abbiamo replicato a livello sociale, governativo, aziendale, ecc. ) ci rende fragili nella durata.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

A differenza delle piante, che invece non si muovono e di conseguenza sono organizzate in maniera tale da essere estremamente sensibili e recettive ai mutamenti dell’ambiente ( molto più di noi esseri umani) per poter resistere a lungo. Prova ne è anche il fatto che la loro presenza sul pianeta è pari 87% mentre quella degli animali (tra cui l’uomo) è solo dello 0,3%.

La salvaguardia del rispetto delle varie specie viventi è necessario ed urgente ma contemporaneamente risulta una tensione contro natura. L’ “amore per il prossimo”, cioè per l’altro, per il diverso da noi, è un obiettivo da costruire pazientemente e costantemente, arginando l’originaria tensione umana alla sopraffazione.

Ecco perché il lavoro di ricerca de lacasadargilla, teso alla salvaguardia dell’estinzione di tutti quei delicati e complessi sistemi che sono alla base delle “relazioni” tra ecosistemi naturali, antropologici e immaginativi, è fortemente prezioso. Oltre che di una caratura poetica speciale.


giovedì 31 agosto – venerdì 1° settembre (ore 21:15)

SPETTACOLO MULTIMEDIALE / MELOLOGO SCI-FI

CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA

a cura di lacasadargilla regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
adattamenti Roberto Scarpetti

drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè 

drammaturgia delle luci Omar Scala disegno sonoro Pasquale Citera
con Lorenzo Frediani, Arianna GaudioFortunato Leccese, Anna MallamaciPaolo Minnielli, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Roberta Zanardo
chitarra elettrica Fabio Perciballi, el. devices Alessandro Ferroni 

aiuto regia e coordinamento Matteo FinamoreMartina MassaroCaterina Piotti e Francesco Cecchi Aglietti


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo L’ODORE

TEATRO INDIA, 27 e 28 Maggio 2023

Cosa può un odore? Soprattutto quando l’odore è quello della persona amata? 

Cosa può succedere se un uomo recluso in cella continua a fiutare l’odore della sua donna fino ad esserne ossessionato, non potendola vedere se non raramente?

Monica Rogledi, l’interprete di Maria

Certe passioni particolarmente intense hanno il potere di far ribollire mente e corpo. Ed è quello che accade al protagonista di questo spettacolo, Anton (un appassionato ed enigmatico Blas Roca-Rey) condannato pubblicamente a quattro ergastoli e privatamente condannato a rimanere prigioniero del legame che lo unisce alla sua donna: Maria (una Monica Rogledi, ricca in raffinata passionalità).

Blas Roca-Rey, interprete di Anton

A nulla servirà il potere del racconto e della parola per sublimare la sconvolgente passione rievocata dall’odore di lei. Anton infatti si confiderà totalmente con il suo giovane compagno di cella, Andrea (il tempestoso messaggero Andrea Pittorino) ma le sue giornate, e ancor di più le sue notti, continueranno ad essere letteralmente invase dal carnale fantasma di Maria.

Andrea Pittorino (Andrea) e Blas Roca-Rey (Anton)

Non riuscendo più a tollerare la propria impotenza verso la condanna penale unita all’impotenza di poter indirizzare e quindi dare concretezza al suo fiuto erotizzante, Anton crederà di poter trovare un modo per dominare la situazione orchestrando un piano che farà del suo compagno di cella – promosso a un progetto rieducativo esterno – un insolito messaggero. E quindi, in qualche modo, un ponte tra lui e Maria. Ma per una eterogenesi dei fini la situazione sfuggirà ancora una volta dal controllo di Anton.

Una scena dello spettacolo “L’odore”, tratto dal testo di Rocco Familiari per la regia di Krzysztof Zanussi

Gli interpreti Blas Roca-Rey, Monica Rogledi, Andrea Pittorino e Gabriele Sisci (lo scrupoloso secondino del carcere) hanno saputo trovare, ognuno nell’universo microcosmico del proprio personaggio, una particolare lettura per poter rendere l’insolita poesia racchiusa in una passione di origine olfattiva, insieme ancestrale e metafisica. 

L’avvincente testo di Rocco Familiari unito all’intensa regia di Krzysztof Zanussi – che brilla per il raffinato utilizzo della tecnica cinematografica a teatro – danno vita, in questa versione ampliata dal contributo registico di Blas Roca-Rey, ad uno spettacolo intensamente evocativo dell’urgenza, tutta umana, di una relazione costante con i propri affetti. Pena il rischio di percorsi mentali ed emotivi deraglianti, lesivi della dignità umana di uomini e donne che per un periodo della loro vita si trovano a riabilitarsi in carcere per errori precedentemente commessi.

Lo spettacolo, risultato vincitore del Premio Flaiano 2022 per la miglior regia teatrale, costituisce l’occasione per portare al centro dell’attenzione pubblica ed istituzionale il drammatico tema della separazione affettiva dei reclusi dall’amore e la loro esclusione da affetti e famiglie, nucleo centrale della salute psicologica durante il soggiorno in carcere.

Il 26 Maggio scorso, in occasione della Giornata della legalità, il Teatro India ha anticipato la messa in scena di questo spettacolo con un Convegno pubblico sul tema della Sostenibilità come alternativa alla corruzione e sul Diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Il Convegno ha visto la partecipazione del Sindaco di Roma Roberto Gualtieri, Il Presidente della Regione Francesco Rocca e il Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati on.le Federico Mollicone.


L’odore

di Rocco Familiari
regia Krzysztof Zanussi
con Blas Roca-Rey, Monica Rogledi, Andrea Pittorino, Gabriele Sisci 
regista assistente Blas Roca-Rey


Recensione di Sonia Remoli


TRE SORELLE di Anton Cechov – regia di Claudia Sorace

TEATRO INDIA, dal 9 al 14 Maggio 2023 –

Che cosa significa vivere?

Lentamente avanzare nel buio e nel silenzio. Ogni parto, non solo il primo – tante infatti sono le occasioni in cui si può rinascere – implica questo passaggio nel buio: é il “venire alla luce”.  

E così inizia lo spettacolo: con il parto mistico delle tre sorelle.

Lentamente, a fatica, un sipario di buio inizia a fendersi. Sono mani che cercano e aprono una fessura, quasi come il “Concetto spaziale” di Lucio Fontana.

Sono mani che danno vita ad un rito: scomposto, ancora non codificato. Sono mani che tagliano il buio creando, con il primo spiraglio di luce, “un effetto stroboscopico”.

Sono mani che si uniscono e si separano, quasi alchemicamente, creando un nuovo spazio e un nuovo tempo. Sono il linguaggio più primitivo, più efficace. Sono la parola prima della parola. Sono mudra che creano nuovi collegamenti energetici tra i vari livelli di percezione. 

“A Mosca tornerei” : le prime parole. Il primo desiderio. Confuso. E allora le tre “ri-nate” sorelle tornano a consultare le loro mani, come oracoli da decodificare per conoscere se e quando si tornerà a Mosca. 

È nel mondo ancestrale del rito che le “Tre sorelle” dei Muta Imago riescono a trovare una nuova condizione di esistere, nella quale l’assenza dei principi della logica, che permea comunque anche il loro mondo “reale”, riesce qui, nel sacro, a far loro assaporare l’ebrezza e l’angoscia del sentirsi libere di sperimentare di essere se stesse.

Riccardo Fazi (drammaturgo e sound design) e Claudia Storace (regista) de i Muta Imago

In questa nuova dimensione, riescono a spogliarsi dalla sottomissione apatica o meccanica al “reale” fino a contattare finalmente il mondo dell’istintualità. In questo nuovo campo energetico i loro corpi “desiderano” e osano perdere la loro forma rigida per sciogliersi in una danza singolare e plurale. Maschile e femminile.

Anche la pelle più esterna, l’abito, perde i connotati del testo originale; inclusi quelli cromatici del blu, del nero e del bianco, che le irrigidivano in “ruoli” e in una nazionalità ben precisa (i tre colori compongono la bandiera estone).

Qui, prima di tutto, le “Tre sorelle” sono creature in continua metamorfosi (inclusa quella dal maschile al femminile) vestite da abiti disponibili a prendere le forme che il loro sentire, di volta in volta, desidererà assumere.

Il colore è un volutamente indefinito blu elettrico: una sfumatura insieme eterea e abbagliante, divenuta il colore dell’elettricità nell’immaginario comune, dove le molecole di azoto e di ossigeno si eccitano con violenza, rilasciando fotoni visibili ad occhio nudo.

In questa nuova dimensione possono essere “demiurghe” di luce e quindi di nuovi spazi. Magici. Dove la morte non viene più anelata come fuga dalla disperazione impotente ed apatica dal reale ma come preludio ad una nuova ri-nascita. Le “Tre sorelle” se ne vanno dal fondale. Buio. È di nuovo una fenditura a permettere il loro passaggio in un nuovo spazio. Luminoso.

Questo interessantissimo lavoro di ricerca dei Muta Imago, creando nuove sinapsi tra immaginazione e realtà, ci regala una rilettura ipnotica e magica dell’originale cechoviano, complici un uso della luce e del suono davvero ammaliante. Che apre ad una diversa percezione del tempo.


Leggi l’intervista ai Muta Imago su Harpers Bazaar


Recensione di Sonia Remoli

Uno spettacolo di fantascienza

TEATRO INDIA, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

E se tutte le sovrastrutture che ci rassicurano tanto cadessero giù e rotolassero in acqua come i trichechi “tondi tondi” giù dalla banchisa, anche loro come noi mammiferi in via d’estinzione ? Se provassimo a spogliarci di tutti i nostri falsi “habiti” mentali, con i quali crediamo di identificarci ? Se la fine arrivasse all’inizio, perché è all’inizio che c’è l’immaginazione?

Andrea Cosentino, Petra Valentini e Liv Ferracchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Il “Teatro di Liv” è così incredibilmente credibile che è “fantascienza” !

Il “Teatro di Liv” è un “racconto” e come tale porta in scena lo “sforzo” compiuto da chi pretende di comunicare. Il racconto è solo un tentativo. “Tenta tanto tanto “.

Il linguaggio non aiuta ad esprimere ciò che veramente proviamo perché è una convenzione, così come i platonici principi della logica: quello di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. La Logica non riesce ad identificarci singolarmente. È un codice sul quale si è convenuto di convergere, di trovarci tutti d’accordo per poter comunicare. Più o meno consapevoli che la nostra autenticità è altrove.

Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

La prima parte di “Uno spettacolo di fantascienza” (che in realtà può essere anche “il finale” in una concezione aperta del racconto, così come aperta è la vita) spiazza e diverte lo spettatore portando in scena un racconto privato dei due principi della logica sopracitati. I personaggi-persona infatti non comunicano più grazie al “significato” codificato delle parole, bensì attaccandosi ai loro “sottotesti”, espressi dalle intenzioni, dalle intonazioni, dalla musicalità, dalla cromaticità. Ad esempio, risulta chiarissimo come basti utilizzare un cappotto dal colore diverso per inscenare una nostra diversa identità .

Petra Valentini e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

E di fronte al “non senso” non ci si scandalizza ma ci si accorda, ci si sintonizza. Ed è bellissimo. È ricchissimo. È tutto e niente insieme. È il caos. Ma è verità.

Nel racconto autentico anche la rappresentazione della neve non deve “sembrare vera”, non deve essere ciò che non è. Ecco allora che, a vista, il tecnico rivela l’artificio. Ed è bellissimo, più che se fosse nascosto.

Il tricheco tondo tondo e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

“Prova a dirmi cosa senti. Ma so già che non ci riuscirai” – dice lei a lui. È una crisi? No, è una svolta. Però su una cosa concordano: è la fine del mondo. Ma solo la “fine” prelude ad un possibile nuovo inizio (momentaneo). E ciò che ci tiene vivi non è l’illusione di dare un solo senso, un unico significato alle cose ma, come sanno bene i trichechi, sono le carezze, l’amore. “Che confusione, sarà perché ti amo…ma dopo tutto che cosa c’è di strano: se cade il mondo allora ci spostiamo”.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

I tre attori in scena “danzano” con le parole e con i gesti. Il senso, il presunto significato, passa in secondo piano. Ed è un miracolo di bellezza incontrollabile. Sanno darci prova che si può fare a meno anche di lasciare gli spazi tra le parole: è la musicalità, il ritmo, che riuscirà a guidarci verso “un accordo” istintivo. Perché sotto ciò che è finto (il linguaggio) c’è sempre del vero (i vari sottotesti).

Liv Ferlacchiati, Petra Valentini e Andrea Cosentino

Ciò che ci fa più paura, ora sappiamo, grazie al “Teatro di Liv”, che può essere bellissimo. Perché ci si può orientare anche mentre si fanno giravolte.

E tutto ciò sa molto di decadentismo, alla Treplev de “Il Gabbiano” di Cechov.

Ma “il finale” ? “Aperto” – sentenzia il tricheco, quasi fosse un oracolo.

Aperto come il vento, che dall’inizio alla fine avvolge tutto lo spettacolo.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Un testo, da “teatro dell’assurdo”, ferocemente raffinato, onirico, metafisico. Eppure brillante e davvero molto divertente. Una scena (curata da Lucia Menegazzo) affamata di vuoto, necessario per poter dar vita a piccole-grandi meraviglie, potentemente fragili: come quelle nascoste nel cappello a cilindro della vita.

In scena Liv Ferracchiati è un performer dal tenero fascino ambiguamente cechoviano; Petra Valentini un’eccellente attrice vorticosamente spumeggiante; Andrea Cosentino brilla in ricchezza di maschile e di femminile. Il suo lavoro a ferri, registicamente, è la metafora del “racconto”, dell’intreccio di identità che ci costituiscono.

Il “Teatro di Liv” è “Uno spettacolo necessario” .

Liv Ferlacchiati

autore, regista e performer di “Uno spettacolo di fantascienza”


Leggi l’intervista a Liv Ferlacchiati su Rolling Stone