TEATRO INDIA, Trilogia dell’Area X, 5-7 Agosto 2022
AUTORITA’ / 6 agosto/ dal testo di Jeff VanderMeer –
adattamento Roberto Scarpetti – a cura di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Arianna Gaudio, Silvio Impegnoso, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Paolo Minnielli, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Francesco Villano, Roberta Zanardo
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri – brani di G. Ruggeri, Biosphere, R. Sakamoto, Glass, F. Rzewsky, G. Vozza – con Gianluca Ruggeri percussioni, Gianfranco Vozza mallet keyboard
tecnico del suono Pasquale Citera – tecnico video Tiago Branchini
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L’ecosistema della narrazione sembra prendere il sopravvento su quello delle sonorità, in questa rappresentazione del secondo romanzo della “Trilogia dell’Area X”. Sembra. Ma non è una perdita di “autorità”: è piuttosto un lasciare spazio per far crescere. Un saper attendere. La prossemica degli attori sul palco, il loro comportamento nello spazio scenico, sembra suggerircelo: ci parla di una brachilogia, di un continuo investigare, di un cercare attento, attraverso piccoli dettagli, attraverso interventi brevi, un parlare conciso. Perché, sotto la prima pelle della conversazione tipica di un inquirente, si cela la ricerca di un incontro di anime. Quasi un’attività maieutica. Perché è nell’animo dei personaggi che può nascondersi “la verità”.
Come quella tra Controllo e Uccello Fantasma, dove proprio perché nessuno riesce ad imporre nulla, una qualche verità poi nasce, viene alla luce. Anche se non può essere definitiva o assoluta, rappresenta comunque un punto di vista autentico.
L’ecosistema della narrazione si dedica così alla rappresentazione di una serie di domande stringenti e scomode, portando a riflettere (anche lo spettatore) sulla portata di concetti in realtà solo dati per scontati e che non “si reggono da soli”; sulle contraddizioni che serbiamo; sulle convinzioni infondate che esibiamo. Il risultato che si raggiunge permette di eliminare il troppo e il vano da ciò che si pensa.
Come quegli ammassi di rifiuti, materiale inutile, obsoleto, ormai inautentico, che campeggiano sul palco. Zavorre di cui liberarsi, per poter permettere la nascita di un nuovo ecosistema microcosmico: “-Voglio sapere chi sono- ….. Lei (Uccello Fantasma) lo soppesò con lo sguardo. Il discorso era chiuso. Buttò la pistola. Si tuffò nell’acqua profonda. Lui guardò un’ultima volta il mondo che conosceva. Lo bevve con gli occhi, con la memoria. -Buttati- gli disse una voce nella sua testa. Controllo si buttò”.
“Autorità” è far crescere: promuovere l’inizio dell’ultima occasione.
P.S. Le immagini sono quelle che, al calar della sera, danno inizio alle serate: un’installazione multimediale site specific viene proiettata sulla grande facciata del teatro India. E’ Across the Universe into a Paper Cup #3, a cura di Alessandro Ferroni e Maddalena Parise. Immagini e suoni trasformano la facciata del Teatro in una soglia che apre all’universo immaginifico di IF_NEW ERA*2022
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni adattamento Roberto Scarpetti
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
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Un velo ci separa dal penetrare un lussureggiante ecosistema sonoro: un’orchestra di percussioni, fiati e tastiere (dove Gabriele Coen è ai fiati, Ivano Guagnelli alle tastiere e Gianluca Ruggeri alle percussioni). Di qua dal velo, l’intrigante e intricato ecosistema della narrazione, ovvero delle parole degli interpreti (Tania Garribba, Arianna Gaudio, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Francesco Villano e Roberta Zanardo). Sono le emozioni, quelle più ataviche ed ancestrali, l’elettricità che riesce a collegare i due ecosistemi, stabilendo tra loro una sinergia potentemente visionaria. E metamorfosi magiche prendono vita, attraverso apparizioni/sparizioni, trasformazioni e salti da un luogo all’altro/da un tempo all’altro. Un po’ alla maniera di Georges Méliès.
Visionarietà che la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni (con la collaborazione di Roberto Scarpetti per l’adattamento del testo e di Gianluca Ruggeri per la drammaturgia musicale) organizza e districa nella forma inedita della “serialità teatrale”. Traccia cioè per noi, all’interno della conformazione labirintica del tema della “Selva”, un percorso-spettacolo articolato in tre tappe (tre serate) per attraversare ad ogni tappa ciascuno dei tre romanzi che compongono la “Trilogia dell’Area X”.
Prende forma così un insolito ed affascinante spettacolo, tratto dall’omonimo testo di Jeff VanderMeer, nella forma del melologo sci-fi. Si tratta di una composizione artistica dove la recitazione di un testo letterario accompagnata da musica (melologo) è poi inserita nella più ampia forma dello sci-fi, ovvero del cinema di fantascienza (sci-fi è abbreviazione di science fiction). Ieri sera si è esplorata la prima tappa del percorso, attraverso il primo romanzo della trilogia: “Annientamento”.
In scena le stranianti avventure della dodicesima spedizione, incaricata di continuare l’indagine governativa sulla misteriosa Area X. Una spedizione, questa volta, di sole donne: una glottologa (che si ritira subito), un’antropologa, una topografa, una biologa e una psicologa. Una delle condizioni per procedere nell’arruolamento è la disponibilità a perdere il proprio nome: ciò che più ci caratterizza, che ci ancora al nostro “passato” e che quindi rende meno predisposti a subire necessarie “mutazioni”.
Dal campo base, dopo mesi di strenuo addestramento, solo sotto condizionamento ipnotico le donne attraversano “il confine” per riuscire ad entrare nell’ Area X. Qui scoprono che la mappa, che è stata assegnata loro in dotazione, non contempla la presenza di un’insolita “torre”, che affonda nel terreno. Essendo stata contaminata da spore emesse da misteriosi organismi presenti all’interno della torre, la biologa diventata resistente alle suggestioni ipnotiche e ricevuto uno straordinario potenziamento della propria capacità sensibile e sensitiva, si accorge, lei soltanto, che la torre è un organismo vivente che respira e ha pareti carnose come quelle di un esofago.
Queste iniziali mutazioni aprono ad una narrazione incalzantemente avvincente, immersa in una strabiliante complessità di ecosistemi (fascinosamente proiettati, oltre che raccontati ) e piena di divieti e di “confini” che non aspettano altro se non di essere infranti. Iniziando dal primo divieto: quello di non voltarsi appena valicato il confine dei confini: quello che introduce all’Area X. La biologa lo infrange e il suo sfidante coraggio d’interrogare l’impossibile non trova punizioni. A differenza di quanto avvenne invece ad Orfeo che, voltatosi lungo il tragitto d’uscita dagli Inferi, non poté più riavere la sua Euridice.
La biologa sa, a qualche livello, che “nulla che vive e respira è davvero oggettivo: nemmeno nel vuoto, nemmeno se il cervello avesse obbedito unicamente al desiderio di immolarsi per la verità “. Ma che cosa si nasconde in fondo alla Torre? Che cosa succede a chi osa guardare? Come si torna dopo aver guardato? Cosa si frappone nella mente di chi torna? Un velo.
Uno spettacolo estremamente coinvolgente ed attanagliante, nel quale la sinergia tra parola, suono, musica e immagine raggiunge livelli di altissima suggestione.
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P.S. Le immagini sono quelle che ogni sera trasformano la facciata del Teatro India in una soglia che apre all’universo immaginifico di IF _NEW ERA*22
Entrano insieme, attraversando velate nuvole, uniti dal comune intento della narrazione. Sono Uccelli che si appollaiano in diagonale sulla sinistra del palco; Umani che si stanziano nel centro; Suoni che si sintonizzano sulla destra.
Rievocano “l’inverno del loro scontento”, quando dalla notte del 3 dicembre, tutte le nuvole, sepolte nel petto profondo del mare, iniziarono ad incombere minacciose. Un vento di ghiaccio a salire. Gli intenti a mutare. E gli Uccelli ad essere “sempre più agitati e fruscianti come seta”.
Nell’omonimo racconto di Daphne Du Maurier, a cui lo spettacolo si ispira, non sono stati gli Uomini ad andare a chiedere agli Uccelli di prendere il governo delle loro città, come nella celebre commedia di Aristofane. No. Qui gli Uccelli, animati da una fame senza desiderio, sembrano stregati da un incantesimo. Costretti “con regole assegnate” e “codici di geometrie esistenziali”. Ubriachi di moto: il vento li anima, il vento è il segnale che precede i loro attacchi. Vento che gli interpreti rendono magnificamente nella voce; attraverso un’accurata prossemica ed esteticamente con ventagli neri, di piume.
La scrittrice Daphne Du Maurier
Gli uomini li guardano ma non sanno osservarli: solo Nat Hocken (colui che ripara cancelli e rafforza argini) sa farlo. Solo lui si rende conto che stanno “cambiando le prospettive al mondo”. Ma come Cassandra non viene creduto. Gli Uccelli hanno modo così di invadere le città, come gli Achei di uscire (apparentemente) all’improvviso dal cavallo di Troia.
Li vediamo anche, gli Uccelli: inquietantemente disegnati e proiettati su teli di velatino. Sono bianchi, sono neri, sono piume, sono becchi: “mescolati in strane amicizie, in cerca di una specie di liberazione, mai soddisfatti, mai fermi…come uomini che temendo una morte prematura, per reazione si buttano a capofitto nel lavoro oppure impazziscono”. La strana agitazione degli Uccelli risalta con evidenza anche perché le città sono molto tranquille e apparentemente si sentono ben protette. Appese alla routine quotidiana, alla musica della radio o ai comunicati-oracolo, trasmessi di tanto in tanto. Che questa volta non sono frutto dell’appassionata recitazione di Orson Welles, quando la sera del 30 ottobre del 1938, convinse mezza America che i marziani avevano dichiarato guerra alla Terra, dando vita a “La Guerra dei Mondi” !
Aleggia un’incomprensibilità della natura umana che ricorda “l’immensa complessità e la confusione dell’andare avanti degli uomini” raccontato con disperata malinconia in “Uccellacci e uccellini” da P.P.Pasolini.
Particolarmente accordati gli attori (Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Stefano Scialanga e Camilla Semino Favro): la voce di ognuno, “corpo” più di un corpo. Sofisticatamente efficaci i costumi dei tre “Uccelli” , riempiti da posture e piccoli scatti assai credibili.
Suggestivo il contributo sonoro di rumori e strida di uccelli (l’elettronica è di Alessandro Ferroni) deformati e ritmati come in una partitura e malinconicamente accompagnati dalla chitarra elettrica di straziante bellezza di Fabio Perciballi.
La regia di Lisa Ferlazzo Natoli e l’adattamento di Roberto Scarpetti hanno saputo restituire efficacemente il clima d’attesa, le atmosfere ossessive e il finale inquietantemente risolto nella minaccia di un’attesa ulteriore. Particolarmente persuasiva, inoltre, l’idea di coniugare metaforicamente la narrazione a tinte gotiche con il clima di rilassatezza, da club degli anni ’40.
Come una sinfonia: armonia di elementi, fusione di suoni !
È questa l’impressione che si può ricevere assistendo alla rappresentazione dello spettacolo di Massimo Popolizio“La caduta di Troia”, dove un’affascinante orchestra di tre elementi si suggella alla voce dell’Attore, crogiuolo di sonorità.
Come l’affresco di Raffaello “L’incendio di Borgo” (del 1514, situato nella Stanza dell’incendio di borgo, una delle Stanze Vaticane) così l’orchestrazione dello spettacolo trasforma il testo in un palco dove si proiettano corpi, gesti, sguardi, colori. Ma soprattutto è l’occasione in cui trovano rivelazione quelle visioni “sonore” custodite dalle parole, dai ritmi dell’esametro e dai necessari silenzi.
Nel raggiungere tali esiti, risulta essenziale il lavoro d’ensamble, musicale e canoro, cucito con artisti di grande sensibilità, quali Barbara Eramo, Stefano Saletti, Pejman Tadayon. È loro il contrappunto di paesaggi sonori, antichi e arcani, creato attraverso strumenti a fiato, a corda, membranofoni (kemence, daf, ney, fra gli altri) e cantando in lingue come l’ebraico, l’aramaico, il ladino e il sabir.
Una sinfonia che sa far rivivere in maniera lacerante il dissidio, tutto umano nonché insito nell’etimologia stessa della parola “inganno”, tra coloro che, oramai stanchi, si sono lasciati vincere da illusorie visioni favorevoli (sottolineate dall’insinuarsi di incantevoli sonorità flautate, rafforzate dall’arpeggio pizzicato di corde e poi sublimate dalle note suadenti di un canto da sirena)
e coloro che invece riuscirono a restare in contatto con il proprio istinto e quindi con la capacità di annusare e riconoscere pericolose rassicurazioni (annunciate dallo strisciare di subdoli sonagli, da menzogneri colpi vuoti, oppure da percussioni lente e poi sempre più concitate).
Questo trionfo di magnifiche suggestioni è costruito intorno ad uno scottante tema d’informazione, purtroppo ancor oggi attualissimo: quello dell’assurdità della guerra e delle conseguenti migrazioni.
Alla corte di Didone, Enea narra, descrivendola con “indicibile dolore“, quella notte di violenza e di orrore, che si origina dall’inganno del cavallo di legno. Proprio quello con cui i Greci espugnarono, dopo dieci anni di assedio, la città di Troia. Così si apre il secondo libro dell’Eneide, considerato un capolavoro assoluto per la sua struttura e per la sua forza tragica. È l’inizio di un lungo cammino, che permetterà sì, alla fine, di trovare fortuna altrove, ma dove Enea vive la violenza della guerra, la fuga per mare, la ricerca di una nuova terra. Quella stessa disperazione di milioni di persone che anche oggi hanno iniziato il loro lungo viaggio per la sopravvivenza.
Dante metterà coloro che fanno uso di inganni, nel ghiaccio dell’ultimo cerchio dell’Inferno: l’inganno “vive di carne umana” e blinda il cuore dell’uomo.
E la partitura narrativa nonché “sinfonica” di questo spettacolo è tutta costruita proprio su questa ambiguità costituzionale all’inganno che, anche etimologicamente, racchiude in sé, quasi paradossalmente, il significato di “truffa” e insieme quello di “gioco”.
“Come va?”: così esordisce Gabriele Lavia entrando in scena. E, una volta sistemato il libro sul leggio, si spinge verso il punto più estremo del proscenio: per essere più vicino possibile al pubblico in sala. È consuetudine nei suoi recital, cercare subito il contatto con la platea. Bonariamente la solletica: la pretende preparata e in febbrile tensione d’ascolto. La saggia e, solo una volta raggiunta la giusta sintonia, inizia. E la conduce dentro i sentieri più nascosti delle parole, invitandola ad apprendere la necessaria abitudine di sviluppare una particolare attenzione all’etimologia delle stesse. Perché occorre conoscere il “passato”, incluso quello delle parole: solo il “passato” possediamo ed è attraverso di esso che veniamo traghettati, o come preferisce dire Lavia, “tradizionati” verso il presente e quindi il futuro.
Infine, è con un aneddoto, che rivela il perché della scelta del tema del recital. In verità, ci confida, è stato il libro stesso (quello de “Le favole” di Oscar Wilde appunto) a farsi scegliere, con la complicità di un altro libricino retrostante. Spingendolo, lo aiuta a rompere gli indugi per farlo fuoriuscire dall’ordinato incastro della libreria di casa Lavia. Così cade a terra e, provocando l’inciampo del proprietario, ne attira l’attenzione. Qual è il titolo del libro complice? “Il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist, autore avanguardistico che anche in questo caso, liberando cioè il concetto di “grazia” da quello di rettitudine morale, si distingue per una originalità difficilmente eguagliabile. Una complicità a tutto tondo quella tra i due libri e i due autori !
All’interno di una girandola di eleganza, “Le favole” sono un incanto di ironia e un mosaico di paradossi. Nessuna è a lieto fine: parlano, metaforicamente, di un Oscar Wilde lacerato e travagliato eppure così capace di ricomporre il tutto in un’armoniosa forma (apparentemente) fantastica. All’epoca, il padre era una figura temuta e rispettata dai figli, con cui si manteneva un rapporto formale e freddo.
Oscar Wilde, invece, amava giocare con i propri figli, ignorando quella rigida compostezza tipica del cittadino inglese vittoriano. Era solito leggere loro favole di Jules Verne e di Stevenson, ma anche favole di sua mano. I primi destinatari e giudici delle favole sono stati i suoi figli, ma nel 1888 Wilde decise di pubblicarle in un raccolta. Così nacque “Il principe felice e altri racconti”: cinque racconti per bambini, dallo stile semplice e delicato, che conquistarono subito il cuore dei piccoli inglesi. Anche per la loro originalità: Wilde vi introduce elementi di modernità, come spunti critici sulla società del tempo.
Gabriele Lavia sceglie per il recital “Il Principe felice” e ” Il razzo eccezionale”. La sua interpretazione conosce e restituisce il magico rapporto in cui ritmo, tono, vibrazione e energia entrano in ciascuna parola, accompagnando il visibile ad una dimensione invisibile. Misteriosa. Nella quale la platea resta immersa fino alla fine. Come in simbiosi.
Un muro d’acqua proiettato sul fondale. Un mare che non apre, come sarebbe nella sua natura, bensì chiude. Cinque performers, di diverse etnie, si avvicinano all’acqua, tanto da farci pensare di essere sul punto di tuffarsi, attraversandolo questo “muro”. Invece no. Succede qualcosa di diverso. Inaspettatamente si voltano verso noi del pubblico: un gran fragore, quasi uno scoppio.
Prende avvio un diverso tipo di “immersione”: in un momento di pura introiezione. I performers iniziano a “cercare” dentro se stessi e nel farlo sono sempre più attratti da sedimenti neri depositati sul pavimento, sul fondo della loro psiche. Lacci. C’erano anche prima, durante l’avanzata verso il mare, ma li calpestavano, inconsciamente. Ora invece diventano così magneticamente “vivi”, cosi serpeggianti che risulta irresistibile non rimanerne fagocitati, invischiati.
Mani e piedi li raccolgono; tutto il corpo li ‘indossa”. Come si fa con certi pensieri, con paure camuffate da certezze. Con i pregiudizi. Ciò che sembrava solido, rivela ora crepe di comunicazione tra etnie. Tra Africa e Europa. I corpi dei performers alludono a territori e a confini che opprimono, che non lasciano spazio alla libera, diversa, fertile, espressione.
Si prova comunque a condividere sogni, desideri ma ne emerge solo un forte senso di “estraneità” . Di inarrivabile accoglienza e condivisione. Si fa strada però un sempre più urgente desiderio di liberarsi dai propri “fantasmi”, dai “lacci” che stringono e invischiano. E una nuova comunità riesce ad emergere, alla fine. Riesce ad avviarsi un percorso, un viaggio, che a volte prende la forma di un discorso, a volte di una lotta.
Perché questo significa, anche etimologicamente, “dialogare”. E i margini dei singoli non sono più muri invalicabili ma confini porosi, che lasciano passare fertili correnti “straniere”. Prende forma così un organismo più ampio, che non stagna ma avanza, insinuandosi tra i differenti paesaggi interiori.
Le dinamiche relazionali tra visione, movimento e suono si adattano e si riconfigurano ad ogni passaggio, come dopo un necessario evento sismico: quando le precedenti certezze sono andate in frantumi e qualcosa di nuovo può farsi strada. Deve. Non a caso sono state scelte le parole “if – there – is – no – sun”: per evocare coloro che ci hanno preceduto e che hanno acceso altri “soli”, immaginando nuove possibili umanità.
«Lasciateci arrivare in quel posto in mezzo ai nostri sogni, dove tutte le luci sono nostre. Facciamo sì che la nostra voce sia il nostro cibo. Possano i nostri pensieri essere muscolosi. Lasciateci arrancare nel nostro mare». Sono, questi, estratti tradotti e reinterpretati, a partire da Ladan Osman Refusing Eurydice (Exiles of Eden-Coffee House Press 2019).
Demiurghi di questo originale ed interessante spettacolo di nuove sinergie sono l’artista visivo nonché regista teatrale romano Luca Brinchi; la cantante e beatmaker italiana di origine liberiana Karima DueG aka Anna Maria Gehnyei e la performer e coreografa pugliese Irene Russolillo.
La loro creazione artistica invita e promuove importanti riflessioni sullo scambio e sul dialogo culturale e sulle potenzialità di interazione insite nelle diverse arti, così come tra culture e popoli. Una nuova e ben precisa idea di mondo, in cui ci si può ascoltare nel seguire un flusso generale e contemporaneamente ci si può rispettare e valorizzare nelle diverse peculiarità. Artistiche, sociali e politiche.
Luca Brinchi è stato co-fondatore del collettivo SANTASANGRE (Premio Ubu 2009, Premio ETI 2008, Premio Dante Cappelletti 2006) e in seguito ha collaborato con numerosi artisti tra cui Jan Fabre, i coreografi Sang Jjijia e Jayachandran Palazhy, i registi Massimo Popolizio e Federico Tiezzi, la street artist Mp5 e il videoartista Daniele Spanò (con quest’ultimo forma un duo artistico stabile dal 2014). È attivo sulla scena contemporanea internazionale dal 2001 e ama dare vita ad ambientazioni virtuali in cui la lingua dell’immagine video viene attraversata dal linguaggio del corpo e da quello del suono, alla ricerca delle possibili fusioni tra queste espressioni.
Karima DueG aka Anna Maria Gehnyei è passata dalle consolle delle maggiori discoteche italiane alla collaborazione col Network M2o. Il suo debutto da solista risale al 2014, con l’album 2G(Soupu Music) incentrato sul tema delle seconde generazioni in Italia. La nuova fase, sancita simbolicamente dal brano Africa del 2016, apre anche a nuovi temi di respiro internazionale. Collabora con History Channel, Al Jazeera, Amnesty International. Attualmente scrive un libro per Fandango incentrato sulla sua biografia.
Irene Russolillo è danzatrice, coreografa e performer. Sviluppa da diversi anni una ricerca sulla vocalità e sul movimento, in creazioni dall’approccio ibrido e transdisciplinare, in cui collabora con artisti visivi, della musica e della danza. Dal 2014, ha ricevuto il sostegno di ALDES, del Network Anticorpi XL, dei network internazionali Crossing the sea e Crisol, del Festival Oriente Occidente, di cui è stata artista associata. Ha ricevuto numerosi riconsocimenti come il Premio Equilibrio 2014 e il Premio Masdanza 2014 come migliore performer, il Premio Prospettiva Danza 2015, il CROSS Award nel 2019. Fa parte dal 2018 dell’Associazione culturale VAN che raggruppa a Bologna sette coreografi della scena contemporanea italiana.
ideato nell’ambito di CRISOL – creative processes
Un progetto di internazionalizzazione dei processi creativi finanziato nell’ambito del programma Boarding Pass Plus 2019 promosso dal MiBACT Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo
produzione Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Gruppo Nanou, Spellbound Associazione
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Danza Urbana, Menhir Dance Company / Talos Festival – Ruvo di Puglia
residenze Centre Culturel Blaise Senghor, Dakar, Compagnie 5me Dimension, Dakar, MADA Théâtre, Tataouine, PARC Performing Arts Research Centre, Firenze
in collaborazione con Istituto Italiano di Cultura di Dakar, Istituto Italiano di Cultura di Tunisi
CRISOL – creative processes è realizzato da una rete di organizzazioni italiane e straniere. I partner italiani sono: Fondazione Fabbrica Europa – Firenze (project leader), CapoTrave / Kilowatt – Sansepolcro, Danza Urbana – Bologna, LIS LAB Performing Arts / CROSS Festival – Verbania, Tersicorea / Med’Arte / Cortoindanza – Cagliari, Muxarte / ConFormazioni Festival – Palermo, Menhir – Ruvo di Puglia. I partner internazionali coinvolti in questa sezione del progetto sono Cie 5ème Dimension – Dakar (Senegal) e MADA Théâtre – Tataouine (Tunisia).
Dal 24 giugno al 10 luglio ore 21.00 (da mercoledì a domenica)
FALSTAFF E LE ALLEGRE COMARI DI WINDSOR
di William Shakespeare Regia di Marco Carniti Traduzione e adattamento Marco Carniti
Produzione Politeama s.r.l.
Una bandiera in attesa, in tensione. Una scelta di luci la identifica come la bandiera dell’Italia: epico omaggio, al suo Paese d’origine, del regista di fama internazionale Marco Carniti . Ma perché scegliere di “farla recitare” proprio in questa tensione d’attesa? E’ in attesa di salire o in attesa di scendere completamente? Magari entrambe le possibilità. Perchè il Teatro è un enorme silenzio di attese e, come ricordava la bandiera che svettava sopra il Globe Theatredei tempi di Shakespeare, “Tutto il mondo recita”. La bandiera dell’Italia, allora, sta ontologicamente salendo e scendendo. Come la vita insegna.
Il Teatro è il luogo che accoglie le diverse verità. Centro di tutti i mondi e di tutti i popoli. Anche per questo l’Inno nazionale Inglese che apre lo spettacolo sa trasformarsi nell’Inno nazionale dell’Italia. Che a sua volta si traduce in un gran fragore, che arriva dalle nostre spalle.
Avanzano dalle entrate della platea, infatti, con travolgente esuberanza gli attori, che a breve saliranno sulla scena. Sembrano una rappresentanza delle maestranze del teatro, accompagnati da quei “flight-cases” con i quali ormai (dopo la pandemia) siamo abituati ad identificare i rappresentanti del mondo dello spettacolo.
Quei bauli neri cioè che, nel corso della rappresentazione, il regista scopriremo eleggere ad elementi modulari della scenografia. E che sapranno diventare cesta, vasca, canapè, tavolo, ecc.ecc. In questa sorta di proemio allo spettacolo, gli attori prossemicamente in platea, presentano non solo se stessi (rivelando il proprio nome e il ruolo che andranno ad interpretare) ma anche il tipo di rappresentazione che a breve insceneranno.
“La più divertente commedia sulle malelingue” la definiscono. Alludendo ai “rumors” (ambigui “flauti” mozartiani, o rossiniani “venticelli” calunniatori) e all’incapacità dell’epoca (e non solo) di accogliere e valorizzare le differenti “lingue” dei popoli. Tentazione babelica di ridurre la pluralità ad una singolarità, presunta superiore. E più in generale alludendo a tutto ciò che di “straniero” abita gli spazi, spesso “carsici”, della nostra umanità: scenograficamente resi, con grande suggestione, attraverso la presenza di “cannule”: quasi stalattiti e stalagmiti del nostro sottosuolo.
Ma “lo straniero” più difficile da accogliere e da tradurre è l’archetipo del “femminile”, di cui il regista Carniti ci propone un vero e proprio elogio. Le sue donne, a prescindere dall’estrazione sociale, “la sanno molto più lunga” degli uomini. Ma anche negli uomini più “hard”, Carniti fa risaltare la presenza di questo oscuro “ingrediente”: gli alfieri di Falstaff, ad esempio, pur presentandosi apparentemente come i più duri dei motards, risultano inclini al pettegolezzo non meno delle donne.
E poi Frank Ford: così attento a custodire la propria virilità e così ossessionato dall’ eventualità di ritrovarsi delle corna tra i capelli, non si accorge di quanto “femminile” c’è in lui nel momento in cui è disposto a calarsi in nuove vesti, per andare ad annusare il livello di intimità tra sua moglie e l’ipotetico amante.
Ma è con la “sua” Madama Quickly che Carniti tocca l’apice dell’estrosità: ecletticamente in accordo con la tradizione elisabettiana (che soleva attribuire ruoli femminili a uomini) è ad un uomo che il regista affida il ruolo di questa donna, che brilla sulla scena e all’interno del suo adattamento per la ricchezza delle proprie “risorse” femminili. Un essere geniale proprio per il fertile uso che fa sia dell’archetipo “maschile” che di quello “femminile”. Che sa in quanti modi si possono usare mani, lingua, gambe, scopa, istinto. Che sa come prendere quello che vuole da tutti, consapevole che niente è solo suo. Né dura per sempre.
Molto interessante anche la resa che Carniti fa del paggio Simplicio, racchiusa, acutamente, nel suo intercalare “non è vero, sì !” e del paggio di Falstaff, Robin: creatura musicale nonché “veleggiante” Cupido, che alla fine della narrazione esibirà una natura anche “satiresca”.
Il regista Carniti, si rivela come suo solito un abile “compositore” teatrale. La bellezza estetica, il suo senso del bello, sono la cifra del suo stile. Dagli allestimenti ai costumi, tutto rifulge e insieme comunica significati. I costumi delle due comari, ad esempio, oltre ad essere stilosamente accattivanti, contribuiscono a sottolineare, nel loro alternarsi “a specchio” di bianco e nero, il complice completarsi emotivo delle due solerti donne. Lo stesso dicasi per l’orientamento dello “svilupparsi” delle loro acconciature.
Anche in teatro, ambiente meno libero rispetto a quello della lirica, Carniti dimostra di saper trovare escamotages per modificare la scena, regalandole di volta in volta la giusta atmosfera. Un’analisi profonda e appassionata la sua, che ci apre le porte di un mondo denso, carico di significati e che viaggia nel tempo senza perdere d’intensità. Una messinscena poetica, evocativa e insieme moderna, attuale. Che ci permette di sognare, o di ridere, oltre che di pensare.
Pur costituendo un armonico “unicum” polifonico, gli interpreti sanno regalare ciascuno qualcosa di unico, di nuovo, di speciale.
Vi è mai capitato di sognare gli articoli della Costituzione della Repubblica Italiana? Non è mica così strano! Basta partire da qualche episodio che ci è capitato durante il giorno, da qualche conversazione. Questa è l’idea brillante che ha sviluppato il regista e autore del testo Alessio Pinto: la Costituzione non è niente di incredibile. Permea la vita di ogni giorno.
Ma forse proprio perché così vicina, non riusciamo a notarla, a riconoscerla. A rispettarla. Ecco che allora può essere d’aiuto provare a immaginare che effetto farebbe la nostra Costituzione su qualcuno che viene da un’altra realtà, da un’altra quotidianità. Vediamo cosa ci rimanda il suo “specchio”. È così che Alessio Pinto immagina sulla scena un gruppo di ragazzi di diversa provenienza geografica, che condividono, apparentemente, solo uno spazio, un appartamento.
Un giorno, però, a condividere le spese (e non solo) arriverà un’insolita Lady, straniera alla Costituzione della Repubblica Italiana. Sarà lei, attraverso il suo diverso sguardo, ad illuminare le contraddizioni del nostro modo di “vivere” la Costituzione. Anzi sarà l’occasione per riscoprire i valori (dimenticati) alla base del nostro vivere in comunità. Rispettandoci davvero nelle nostre diversità. Proprio per le nostre diversità: così ricche di bellezza. Ma soprattutto riscoprendo il valore dei valori: la solidarietà.
Il regista sceglie poi, con efficace suggestione, di sottolineare i valori inalienabili contenuti nei primi dodici articoli della Costituzione, associandoli alla magia contenuta in alcuni testi, sapientemente selezionati, di David Bowie. Ed è lo stesso Alessio Pinto ad interpretarli con la complicità della sua inseparabile chitarra: affascinante menestrello.
I quattro interpreti sulla scena Giulia Martinelli, Danilo Brandizzi, Marta Marino e Alessandro Giova brillano nel tenere e sostenere l’incalzante ed effervescente ritmo della narrazione, punteggiato da momenti di comicità, ben colti e resi. Registro importantissimo e insieme delicato, quello della comicità, per veicolare con efficace leggerezza la necessità di modificare atteggiamenti sociali ed etici “viziati”. Perché il teatro è anche questo.
Un lento e dilaniante gocciolio stanco accompagna il nostro prendere posto in sala. Un gocciolio di sangue, scopriremo più avanti. “Sangue” è una parola che ricorre costantemente in questo adattamento del regista Danilo Capezzani. “Sangue” che scorre e sangue che stagna e gocciola; “sangue” come casata, discendenza, famiglia; “sangue” come temperamento, indole; “sangue” come coraggio; “sangue” come vendetta: “non c’è balsamo se non il sangue”.
Capezzani sceglie di presentarci fin da subito un Riccardo II umanissimo nelle sue contraddizioni. Un re, mollemente disteso sul suo trono e che non appena tutto l’uditorio si è seduto, si gira su un fianco, verso noi del pubblico, per confidarci quanto “lunga e tortuosa” è la sua condizione di re, che “conosce più tormenti mortali di quelli che lo adorano”. Che proverebbe una qualche consolazione se solo riuscisse a trovare “un paragone” tra la sua condizione e il mondo.
È il cruccio che apre e chiude lo spettacolo; è il cruccio degli addii: di chi sta iniziando a seguire la Fine, la morte. La nostra più vecchia amica, quella che ci ha accompagnato per tutta la durata del nostro cammino. Unica vera certezza dell’essere umano. E in qualche maniera, volendo anche noi fare “un paragone”, è la stessa condizione “esistenziale” che ha dato origine alla composizione della struggente ballata “The Long And Winding Road” dei Beatles: unica presenza musicale dello spettacolo.
Cantata (o anche solo fischiettata) e accompagnata dal vivo dalla chitarra classica. Con sublime suggestione. Interessante è che anche John, Paul, George e Ringo siano riusciti a partorire questo loro capolavoro, nel loro “ultimo” periodo, trovandosi in pesante disaccordo fra loro, sia dal punto di vista artistico, che personale. E Riccardo II, come il cantante, indispettito dal dolore, si rivolge alla Fine, alla Morte, desideroso di capire perché, che senso ha, essere lasciato così: “inerme, senza sapere la via da seguire”. Senza trovare nessun aiuto, non solo in un vero amico ma neppure nelle lenti e nei prismi di un binocolo.
Questo interessante sguardo di Capezzani sulla figura di Riccardo II, umanissima proprio nel suo essere piena di contraddizioni, viene declinato anche scenograficamente attraverso l’idea di un regno simile ad un ring, al cui centro troneggia, di sbieco, un re dispotico ma anche insicuro, incline alla riflessione, all’introspezione. Un re, che non sa dove “mettere i piedi”: che abita il suo trono/letto a testa in giù, appoggiando i piedi sul guanciale, o che, nell’andare verso la guerra d’Irlanda, sale in piedi sopra divani. Un re giovane, quasi adolescenziale.
Un re solo: gli altri personaggi raramente entrano nel ring. Prevalentemente sfilano sui praticabili sopraelevati che lo circondano, quasi fossero sulle mura del palazzo. Ne emerge un senso di soffocamento, di oppressione, di accerchiamento, più che di potere. È un re che cerca, a volte implora, il conforto e il sostegno del pubblico. Consapevole che molti tra noi faranno come Pilato. Consapevole di aver perso potere sul suo popolo.
Un re che, disperato, sfonda il sipario e si appropria di un ultimo spazio. Vulnerabile. Un re, come un Cristo crocefisso e tradito dai suoi. Un re che si ostina a trattenere una corona, in bilico tra un’aureola e una fascetta per capelli. Il sipario è dietro. E cela il mondo degli intrighi. Un mondo nuovo che sta prendendo forma, come un ologramma. E che cerca una nuova figura di re.
J. Coghlan, Riccardo II nel castello di Pomfret
Un mondo che emerge dalla nebbia, che una volta dipanata, lascerà nudo Riccardo II. E lui, a quel punto cercherà di avvolgersi nel sipario: ultima cortina tra vecchio e nuovo mondo. A volte si ha la sensazione di una regia cinematografica, ricca di primi piani, mezzi campi (anche in soggettiva) e campi lunghi.
Gli attori dimostrano un’ottima gestione del corpo e della voce. In alcuni magici momenti sembra che intorno a Riccardo II ruoti un malefico carillon. L’uso delle luci rende con molta efficacia la diversa densità delle atmosfere che permeano la zona antistante e quella retrostante il sipario: il mondo dell’introiezione, del racconto da consegnare ad un uditorio da mandare a casa in lacrime (complice anche un poetico testamento rap) e quello delle cospirazioni, delle ambiguità, dell’avanzare del nuovo, della fine di un ciclo.
Tutto lo spettacolo brilla di una cura vertiginosa.
TEATRO INDIA, 17 giugno ore 21.00 – 19 giugno ore 15.00 (maratona) – 20 giugno ore 21.00 –
“La locandiera” del regista Antonio Latella (Premio Ubu nel 2001 e Premio Gassman nel 2004) è un inno a ciò che di diverso, di “straniero” e quindi di unico brilla in ciascun personaggio. “Fra voi e me vi è qualche differenza”: così l’incipit allo spettacolo. Per esaltare ciò al massimo grado, Latella veste tutti i personaggi in maniera identica. Come dentro una divisa che li uniforma tutti: giacca nera, sotto-giacca nero, bermuda nero e calze nere che svettano, con più o meno audacia, da scarpe scure. Tutti: uomini e donne; servi e padroni.
Tutti si originano dalla stessa “forma”, dando vita però, ciascuno, a qualcosa di meravigliosamente diverso. È un “muro” di legno quello che delimita il proscenio. Forse, la porta della locanda. Al suo interno ospita due aperture, due “buchi della serratura”: quelli delle sagome vettoriali di un uomo e di una donna.
Da qui i personaggi si affacciano, sostano, si incastrano. Solo quando trovano il giusto impeto, sbucano, sfondano, oltrepassano “la forma”, rompono lo stampo che li unifica. Aprono. Si aprono. E quale migliore modalità di differenziazione esiste se non quella che si esprime nel sedurre, nel corteggiare?
Latella sceglie di mettere in scena allora una presentazione collettiva dei pretendenti della locandiera: come in una “giostra”, in una parata. Dove però tutti hanno già il loro “fazzoletto”: sarà la dama a scegliere se e da chi accettarlo. La locandiera: lei che “incatena, parla bene ed è di ottimo gusto”. Lei che “ha qualcosa di più delle altre: unisce gentilezza e decoro come nessuna mai”.
Il corteggiamento, la giostra, è fatta prevalentemente di parole. Ma se è vero che “il punto g” è nelle orecchie, è vero anche che la locandiera è una donna concreta: “mi piace l’arrosto. Del fumo non so che farmene … mio piacere è vedermi servita e vagheggiata”. Soprattutto “vagheggiata”: inseguita irresistibilmente nella sua volubilità.
Il suo gioco infatti sarà, almeno finché le sarà concesso, quello di scegliere di non scegliere. Quale piacere più grande si può ricavare, se non seducendo per farsi sedurre dal più scontroso e misogino degli ospiti della locanda? E poi lasciarlo andare. Rischiando. Ma non fino in fondo. Obbedendo, e forse lasciandosi schiacciare, dal consiglio paterno di sposare Fabrizio. Un’eredità, una “forma”, dalla quale la locandiera non riesce a plasmare qualcosa di diverso e quindi unico. Solo suo.
I giovani attori incantano lo spettatore dando prova di sapersi misurare in un originale uso dell’eredità dei frizzi e dei lazzi della commedia dell’arte. Sapendo punteggiare il mare di parole con accattivanti pause e dardeggianti sguardi. Delizioso contrappunto quello messo in scena dalle due commedianti Ortensia e Dejanira: nuove, fresche e conturbanti baccanti.