Lentamente avanzare nel buio e nel silenzio. Ogni parto, non solo il primo – tante infatti sono le occasioni in cui si può rinascere – implica questo passaggio nel buio: é il “venire alla luce”.
E così inizia lo spettacolo: con il parto mistico delle tre sorelle.
Lentamente, a fatica, un sipario di buio inizia a fendersi. Sono mani che cercano e aprono una fessura, quasi come il “Concetto spaziale” di Lucio Fontana.
Sono mani che danno vita ad un rito: scomposto, ancora non codificato. Sono mani che tagliano il buio creando, con il primo spiraglio di luce, “un effetto stroboscopico”.
Sono mani che si uniscono e si separano, quasi alchemicamente, creando un nuovo spazio e un nuovo tempo. Sono il linguaggio più primitivo, più efficace. Sono la parola prima della parola. Sono mudra che creano nuovi collegamenti energetici tra i vari livelli di percezione.
“A Mosca tornerei” : le prime parole. Il primo desiderio. Confuso. E allora le tre “ri-nate” sorelle tornano a consultare le loro mani, come oracoli da decodificare per conoscere se e quando si tornerà a Mosca.
È nel mondo ancestrale del rito che le “Tre sorelle” dei Muta Imago riescono a trovare una nuova condizione di esistere, nella quale l’assenza dei principi della logica, che permea comunque anche il loro mondo “reale”, riesce qui, nel sacro, a far loro assaporare l’ebrezza e l’angoscia del sentirsi libere di sperimentare di essere se stesse.
Riccardo Fazi (drammaturgo e sound design) e Claudia Storace (regista) de i Muta Imago
In questa nuova dimensione, riescono a spogliarsi dalla sottomissione apatica o meccanica al “reale” fino a contattare finalmente il mondo dell’istintualità. In questo nuovo campo energetico i loro corpi “desiderano” e osano perdere la loro forma rigida per sciogliersi in una danza singolare e plurale. Maschile e femminile.
Anche la pelle più esterna, l’abito, perde i connotati del testo originale; inclusi quelli cromatici del blu, del nero e del bianco, che le irrigidivano in “ruoli” e in una nazionalità ben precisa (i tre colori compongono la bandiera estone).
Qui, prima di tutto, le “Tre sorelle” sono creature in continua metamorfosi (inclusa quella dal maschile al femminile) vestite da abiti disponibili a prendere le forme che il loro sentire, di volta in volta, desidererà assumere.
Il colore è un volutamente indefinito blu elettrico: una sfumatura insieme eterea e abbagliante, divenuta il colore dell’elettricità nell’immaginario comune, dove le molecole di azoto e di ossigeno si eccitano con violenza, rilasciando fotoni visibili ad occhio nudo.
In questa nuova dimensione possono essere “demiurghe” di luce e quindi di nuovi spazi. Magici. Dove la morte non viene più anelata come fuga dalla disperazione impotente ed apatica dal reale ma come preludio ad una nuova ri-nascita. Le “Tre sorelle” se ne vanno dal fondale. Buio. È di nuovo una fenditura a permettere il loro passaggio in un nuovo spazio. Luminoso.
Questo interessantissimo lavoro di ricerca dei Muta Imago, creando nuove sinapsi tra immaginazione e realtà, ci regala una rilettura ipnotica e magica dell’originale cechoviano, complici un uso della luce e del suono davvero ammaliante. Che apre ad una diversa percezione del tempo.
Un muro d’acqua proiettato sul fondale. Un mare che non apre, come sarebbe nella sua natura, bensì chiude. Cinque performers, di diverse etnie, si avvicinano all’acqua, tanto da farci pensare di essere sul punto di tuffarsi, attraversandolo questo “muro”. Invece no. Succede qualcosa di diverso. Inaspettatamente si voltano verso noi del pubblico: un gran fragore, quasi uno scoppio.
Prende avvio un diverso tipo di “immersione”: in un momento di pura introiezione. I performers iniziano a “cercare” dentro se stessi e nel farlo sono sempre più attratti da sedimenti neri depositati sul pavimento, sul fondo della loro psiche. Lacci. C’erano anche prima, durante l’avanzata verso il mare, ma li calpestavano, inconsciamente. Ora invece diventano così magneticamente “vivi”, cosi serpeggianti che risulta irresistibile non rimanerne fagocitati, invischiati.
Mani e piedi li raccolgono; tutto il corpo li ‘indossa”. Come si fa con certi pensieri, con paure camuffate da certezze. Con i pregiudizi. Ciò che sembrava solido, rivela ora crepe di comunicazione tra etnie. Tra Africa e Europa. I corpi dei performers alludono a territori e a confini che opprimono, che non lasciano spazio alla libera, diversa, fertile, espressione.
Si prova comunque a condividere sogni, desideri ma ne emerge solo un forte senso di “estraneità” . Di inarrivabile accoglienza e condivisione. Si fa strada però un sempre più urgente desiderio di liberarsi dai propri “fantasmi”, dai “lacci” che stringono e invischiano. E una nuova comunità riesce ad emergere, alla fine. Riesce ad avviarsi un percorso, un viaggio, che a volte prende la forma di un discorso, a volte di una lotta.
Perché questo significa, anche etimologicamente, “dialogare”. E i margini dei singoli non sono più muri invalicabili ma confini porosi, che lasciano passare fertili correnti “straniere”. Prende forma così un organismo più ampio, che non stagna ma avanza, insinuandosi tra i differenti paesaggi interiori.
Le dinamiche relazionali tra visione, movimento e suono si adattano e si riconfigurano ad ogni passaggio, come dopo un necessario evento sismico: quando le precedenti certezze sono andate in frantumi e qualcosa di nuovo può farsi strada. Deve. Non a caso sono state scelte le parole “if – there – is – no – sun”: per evocare coloro che ci hanno preceduto e che hanno acceso altri “soli”, immaginando nuove possibili umanità.
«Lasciateci arrivare in quel posto in mezzo ai nostri sogni, dove tutte le luci sono nostre. Facciamo sì che la nostra voce sia il nostro cibo. Possano i nostri pensieri essere muscolosi. Lasciateci arrancare nel nostro mare». Sono, questi, estratti tradotti e reinterpretati, a partire da Ladan Osman Refusing Eurydice (Exiles of Eden-Coffee House Press 2019).
Demiurghi di questo originale ed interessante spettacolo di nuove sinergie sono l’artista visivo nonché regista teatrale romano Luca Brinchi; la cantante e beatmaker italiana di origine liberiana Karima DueG aka Anna Maria Gehnyei e la performer e coreografa pugliese Irene Russolillo.
La loro creazione artistica invita e promuove importanti riflessioni sullo scambio e sul dialogo culturale e sulle potenzialità di interazione insite nelle diverse arti, così come tra culture e popoli. Una nuova e ben precisa idea di mondo, in cui ci si può ascoltare nel seguire un flusso generale e contemporaneamente ci si può rispettare e valorizzare nelle diverse peculiarità. Artistiche, sociali e politiche.
Luca Brinchi è stato co-fondatore del collettivo SANTASANGRE (Premio Ubu 2009, Premio ETI 2008, Premio Dante Cappelletti 2006) e in seguito ha collaborato con numerosi artisti tra cui Jan Fabre, i coreografi Sang Jjijia e Jayachandran Palazhy, i registi Massimo Popolizio e Federico Tiezzi, la street artist Mp5 e il videoartista Daniele Spanò (con quest’ultimo forma un duo artistico stabile dal 2014). È attivo sulla scena contemporanea internazionale dal 2001 e ama dare vita ad ambientazioni virtuali in cui la lingua dell’immagine video viene attraversata dal linguaggio del corpo e da quello del suono, alla ricerca delle possibili fusioni tra queste espressioni.
Karima DueG aka Anna Maria Gehnyei è passata dalle consolle delle maggiori discoteche italiane alla collaborazione col Network M2o. Il suo debutto da solista risale al 2014, con l’album 2G(Soupu Music) incentrato sul tema delle seconde generazioni in Italia. La nuova fase, sancita simbolicamente dal brano Africa del 2016, apre anche a nuovi temi di respiro internazionale. Collabora con History Channel, Al Jazeera, Amnesty International. Attualmente scrive un libro per Fandango incentrato sulla sua biografia.
Irene Russolillo è danzatrice, coreografa e performer. Sviluppa da diversi anni una ricerca sulla vocalità e sul movimento, in creazioni dall’approccio ibrido e transdisciplinare, in cui collabora con artisti visivi, della musica e della danza. Dal 2014, ha ricevuto il sostegno di ALDES, del Network Anticorpi XL, dei network internazionali Crossing the sea e Crisol, del Festival Oriente Occidente, di cui è stata artista associata. Ha ricevuto numerosi riconsocimenti come il Premio Equilibrio 2014 e il Premio Masdanza 2014 come migliore performer, il Premio Prospettiva Danza 2015, il CROSS Award nel 2019. Fa parte dal 2018 dell’Associazione culturale VAN che raggruppa a Bologna sette coreografi della scena contemporanea italiana.
ideato nell’ambito di CRISOL – creative processes
Un progetto di internazionalizzazione dei processi creativi finanziato nell’ambito del programma Boarding Pass Plus 2019 promosso dal MiBACT Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo
produzione Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Gruppo Nanou, Spellbound Associazione
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Danza Urbana, Menhir Dance Company / Talos Festival – Ruvo di Puglia
residenze Centre Culturel Blaise Senghor, Dakar, Compagnie 5me Dimension, Dakar, MADA Théâtre, Tataouine, PARC Performing Arts Research Centre, Firenze
in collaborazione con Istituto Italiano di Cultura di Dakar, Istituto Italiano di Cultura di Tunisi
CRISOL – creative processes è realizzato da una rete di organizzazioni italiane e straniere. I partner italiani sono: Fondazione Fabbrica Europa – Firenze (project leader), CapoTrave / Kilowatt – Sansepolcro, Danza Urbana – Bologna, LIS LAB Performing Arts / CROSS Festival – Verbania, Tersicorea / Med’Arte / Cortoindanza – Cagliari, Muxarte / ConFormazioni Festival – Palermo, Menhir – Ruvo di Puglia. I partner internazionali coinvolti in questa sezione del progetto sono Cie 5ème Dimension – Dakar (Senegal) e MADA Théâtre – Tataouine (Tunisia).
Giorgio Barberio Corsetti SCHEGGIA ANCORA DI MILLE VITE esercitazione a cura di Giorgio Barberio Corsetti da Pier Paolo Pasolini assistenti alla regia Andrea Lucchetta, Luigi Siracusa con Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Doriana Costanzo, Alessio Del Mastro, Vincenzo Grassi, Ilaria Martinelli, Eros Pascale, Marco Selvatico, Giulia Sessich
musiche originali e maestro di coro Massimo Sigillò Massara scene Alessandra Solimene costumi Francesco Esposito direttore di scena Alberto Rossi fonica Laurence Mazzoni sarta Marta Montevecchi Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in co-realizzazione con Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” L’ iniziativa fa parte del programma PPP100-Roma Racconta Pasolini promosso da Roma Capitale Assessorato alla Cultura con il coordinamento del Dipartimento Attività Culturali
orari: dal 30 maggio al 1°giugno 2022 ore 19.00 – durata: 1h30’ –
Spuntano come fiori, baciati da un canto crepuscolare. Un canto che, la regia di Giorgio Barberio Corsetti e le musiche originali di Massimo Sigillò Massara maestro di coro, rendono incanto, incantesimo, rito magico. L’attenzione cade sulla parola: la prima delle magie dell’uomo, capace di generare l’impossibile, passando per l’intonazione della voce e per il ritmo del respiro, su cui si regge il suono. Consapevoli del potere dell’asserzione, i ragazzi di borgata di Corsetti spuntano dall’ansia tipica “di chi è, ciò che non sa”, di chi ama e conosce ora e ancora, “spinti da un festivo ardore”. Sono gli allievi del Biennio di specializzazione in recitazione e regia dell’Accademia “Silvio d’Amico”, la cui esercitazione, una produzione del Teatro di Roma, curata appunto dal regista Giorgio Barberio Corsetti, ne costituisce l’esito. E’ il regista a condurci da loro, guidandoci appena fuori dal Teatro India, dove la natura, indifferente e selvaggia, prende il sopravvento sull’edilizia civile e su quella post-industriale. Quasi fossimo noi del pubblico una macchina da presa, Corsetti di volta in volta ci gira verso il nuovo obiettivo da raggiungere ed inquadrare con il nostro sguardo: ora, ad esempio, l’interno di un edificio ormai privo di tetto. Qui i ragazzi si raccontano stornellando. Ed è un nuovo incanto. Rime pittoresche, salaci e pungenti, di sfottò uniti alla saggezza popolare dei proverbi : un spaccato di vita quotidiana fondato sul “contrasto”, una gara di bravura fra cantori dell’improvvisazione.
Il “nostro sguardo” viene spostato poi su un lato del cortile esterno del teatro, dove è stata ricreata l’ambientazione di un bar. Qui, dove “appare ancora dolce la sera”, i ragazzi di borgata sono soliti ritrovarsi, tra Viale Marconi e la stazione di Trastevere, “in tuta o coi calzoni da lavoro, ridenti e sporchi”. La carrellata dello sguardo prosegue e da dietro le inferriate dello stabile, o dall’unica finestra libera, parte un’invettiva contro le madri: quelle vili, mediocri, servili e feroci della “Ballata delle madri”. Veniamo condotti poi dentro, al buio: unico chiarore caravaggesco quello di una tavola dove i ragazzi si apprestano a farsi una spaghettata ma … non mangiano. E poi ancora più dentro ad assistere ad una scena di corteggiamento, separati da un velatino. E poi, di nuovo prossimi all’esterno, assistiamo al frantumarsi del mandala di un momento privato del poeta, catturato da Letizia Battaglia. E di nuovo fuori: tra la ferocia di uno scippo e la leggerezza di una partita di pallone. Fino al commiato: nella natura. Dalla quale, i ragazzi di vita, “come allora, scompaiono cantando”. “Sempre senza pace”: uno sguardo alla vita, uno sguardo alla morte.
La feroce freschezza degli allievi dell’Accademia “Silvio D’Amico”, complici la suggestiva scelta delle coordinate spazio-temporali da parte del regista Corsetti e la sublime malinconia evocata e declinata con elegante efficacia dalle musiche originali di Massimo Sigillò Massara, maestro di coro, fanno di questa esercitazione un gioiello di “folgorazioni figurative”, cesellato da un originale sodalizio armonico tra musica, versi e teatro.
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