Recensione dello spettacolo MACBETTU di Alessandro Serra –

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 19 Marzo 2022 –

Uno spettacolo meravigliosamente bestiale. La regia di Alessandro Serra sceglie di non rintracciare un ordine dove Shakespeare stesso dice che non ce n’è: nella natura umana, così come nella vita, nonostante tutto, regna il caos. Serra quindi mette in scena un’umanità bestiale, immersa nella sacralità ancestrale dei riti magico-dionisiaci.

È la dimensione istintivo-pulsionale: quella dove per riconoscersi ci si annusa; per sentire sapore e quindi piacere ci si lecca; per esprimere disappunto ci si sputa. La bocca occupa un ruolo fondamentale in questo spettacolo: è lo strumento con il quale si conosce e si esplora il mondo.

Così come avviene attraverso la sessualità: con essa si ha una confidenza tale, da escludere qualsiasi tabù. È un’umanità che vive di appetiti e che è essa stessa appetito. Come il regista ci lascia intuire dalle posture: le streghe camminano piegate, creando angoli di novanta gradi, quasi animaletti-giocattolo a carica; nei banchetti si beve dalla stessa ciotola in una postura simile; Lady Macbeth si piega ad angolo fino a far toccare i suoi capelli a terra, quando deve portare via il cadavere del re.

La figura geometrica del triangolo ricorre spesso; triangolari sono i percorsi che si fanno fare ai corpi uccisi, quasi a voler alludere ad una forma di diversa spiritualità. Tra sacralità, sessualità e mondo naturale c’è una fortissima interazione.

Lo spettacolo prende avvio da una specie di scossa tellurica, da un vortice ventoso che il regista sceglie di farci sentire e non vedere. Di sonorità è carica tutta la messa in scena: come Shakespeare, anche Serra sa l’importanza di ciò che si versa nell’orecchio dell’altro. Sa quale potenza può scatenare.

Dal mondo naturale si recupera anche un potentissimo legame con il mondo animale che plasma prepotentemente i personaggi: metamorficamente le streghe sanno scimmiottare, mettersi in ascolto come gufi; beccare come galline; conversare come pipistrelli. I cavalieri sanno trottare come cavalli. Le guardie mangiano e bevono come i porci. Si cavalcano i morti per dare loro l’ultimo colpo fatale: come fa Lady Macbeth con il re Duncan e poi il sicario con Banquo. 

Anche la scelta della lingua, un sardo oscuro e fascinosamente evocativo, completa magistralmente questo mondo indecifrabile, che ognuno di noi si porta dentro e che è specchio di ciò in cui siamo gettati.

A coronamento, l’onirico disegno luci: uno spettacolo tutto immerso in atmosfere notturne, dove la luce, quando c’è, è densa, bassa e a servizio delle ombre.

L’adattamento permette una messa in scena snella ed accattivante andando ad evidenziare le parti del testo dove emerge in maniera più energica il carattere orrorifico della natura umana.

Bella l’immagine di far avanzare, di spalle, Lady Macbeth rivelando il suo essere uomo solo alla fine. Ancor più bella l’intenzione registica di veicolare, come già accadeva nella scrittura di Shakespeare, il concetto che l’eterosessualità non è un fatto di genere. E infatti Lady Macbeth ha una sensualità tutta femminile. Anche nudo. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”.

Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro.

Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima.

A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico.

Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia.

Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebbrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO – ideazione, drammaturgia e interpretazione di Fabrizio Gifuni –

TEATRO VASCELLO, dall’8 al 13 Marzo 2022 –

Come in attesa di un rituale è organizzato lo spazio scenico, nel quale è inscritto non un cerchio ma un rettangolo, il cui perimetro è tracciato dai fogli scritti da Aldo Moro durante la prigionia. Richiamano la stessa geometria i tre oggetti scenici, scelti per officinare il rito: un piccolo tavolo, una sedia e un microfono.

Fabrizio Gifuni

E poi entra in scena lui, Fabrizio Gifuni: non è ancora il passo di colui che officina il rito. Piuttosto il corpo, il passo e la voce di chi, quasi come un coreuta, sceglie una diversa prossemica (spingendosi cioè sul confine del proscenio) per informare chi (il pubblico) con lui a breve entrerà metaforicamente nel sacro spazio del rito. L’obiettivo da raggiungere è saggiare se la pietra-meteorite-AldoMoro risuona ancora ustionante o se invece sta perdendo calore. E se così fosse, allora occorrerà rianimarla, riportandola ad un’alta temperatura. L’ultima attenzione è per la parte del pubblico più giovane: per loro (numerosi in sala ieri sera) Gifuni traccia una mappa del contesto storico-politico, relativo all’episodio da vendicare e onorare. Da riscaldare e rianimare.

Fabrizio Gifuni

Ci siamo quasi. Ora non resta che gettare l’ultimo ponte per entrare nel vivo del rituale: Fabrizio Gifuni ci parla allora del teatro come del luogo dei fantasmi. E’ infatti il luogo dove hanno preso forma I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello; il fantasma del padre di Amleto e ora avverrà la stessa cosa per Aldo Moro. Perché fantasmi sono i corpi che non hanno ricevuto un giusto onore. E allora tornano a trovarci, a disturbarci, a farci sentire più fortemente la loro presenza. 

Ora tutto è pronto. Dal fondale, una luce opalescente e lattiginosa allude al fatto che stiamo entrando in una dimensione sacra, dove nel rettangolo magico prenderà forma l’ombra del fantasma.

Fabrizio Gifuni

Gifuni si accinge ad entrarvi e nell’attraversamento cambia corpo: il passo diventa un balzo leggero, quasi un piccolo volo e le braccia lasciano la consueta tensione rendendosi disponibili a diventare altro. Entratovi, il suo primo gesto è quello del piegarsi sulle ginocchia (quasi un inchino) per raccogliere da terra della polvere bianca ammucchiata, con la quale si cosparge una parte dei capelli: ecco la fiezza dei capelli bianchi di Aldo Moro. Si avvicina quindi ai fogli del Memoriale e delle Lettere, appoggiati sul piccolo tavolo. Ma prima di prenderli in mano, si toglie la giacca e resta in camicia: è quella bianca di Aldo Moro, quella che lui amava indossare. Ora può impugnare i fogli e qui avviene un’ulteriore trasformazione: le braccia e le mani sono pronte a ricevere la tensione di quelle di Moro. Quella particolare tensione pervade il resto del corpo: le gambe, i piedi, il busto. Raggiunge il microfono. E, nell’offrirsi alla luce, vediamo nella sua interezza “il fantasma” di Aldo Moro. Anche le nostre orecchie ricevono la conferma di questa magia: dapprima percepiamo la trasformazione del respiro, poi il cambio di deglutizione ed ecco arrivano i primi segnali vocali, quasi gemiti. E poi, lei: la voce, che raccoglie, manifesta e sublima tutta la metamorfosi. Perfetta espressione del metodo mimico del suo amato Maestro Orazio Costa. Gifuni inizia l’interpretazione dei testi, alternando quelli del Memoriale alle Lettere alla famiglia.

Fabrizio Gifuni

Testi che si conoscono ma che ora raggiungono una temperatura inaspettata: diventano materia vivente, pulsante, lacerante e lacerata. Le parole hanno tutte un loro sapore, un loro odore e dettano il ritmo della narrazione. Insieme alle mani: che realizzano una traduzione visiva della potenza espressiva delle parole. Nell’attraversare questa esperienza, quasi mistica, il corpo del fantasma prende sul finale la postura disperata del protendersi in avanti, per tentare fino all’ultimo di provocare un qualche mutamento nei destinatari del Memoriale. Quando poi il mistero del rito si completa e raggiunge la sua conclusione, il fantasma di Moro non vuole abbandonare il corpo di Gifuni. Lo si legge dalla sofferenza che trapela nel raccogliere gli applausi. E anche noi del pubblico, testimoni partecipi del rito, lasciamo la sala portando impressa la sua traccia sulla nostra pelle.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo COSI’ E’ (O MI PARE) – Spettacolo in realtà virtuale – adattamento e regia di Elio Germano –

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 24 febbraio 2022 –

Una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, adattata e diretta da Elio Germano, con la partecipazione di Isabella Ragonese e di Pippo Di Marca.

Un esempio di quando le nuove tecnologie scelgono di configurarsi come campi di ricerca, per affrontare “i classici” da un punto di vista differente, senza la pretesa di sostituirsi alla tradizionale fruibilità del teatro. Creazioni che nascono dal teatro e che al teatro ritornano. La sfida piuttosto è sui contenuti e sui modi per realizzarli.

Le riprese si sono svolte presso la Tenuta Bossi dei Marchesi Gondi e presso il Teatro della Pergola di Firenze, il cui Direttore Artistico, Stefano Accorsi, ha sostenuto fortemente questo progetto, che segna l’inizio di un cammino ideativo con Elio Germano.

Indossando cuffie e visore si entra direttamente dentro allo spettacolo, attraverso una ripresa in soggettiva, cioè nei panni del Commendator Laudisi, personaggio appositamente inventato rispetto al copione originale. A lui, anziano padre di Lamberto (interpretato da Elio Germano), tutti i personaggi si rivolgono con rispetto. Questa trovata, che procura un iniziale piccolo shock allo spettatore (che si scopre in una diversa identità) agevola una visione sferica della scena.

Il testo pirandelliano è stato riadattato da Elio Germano ambientandolo nella società moderna, nella fattispecie in un salotto dell’alta borghesia, dove l’umana perversione a “spiare l’altro” risulta amplificata dalla possibilità di usufruire dei nuovi media. Il risultato che ne scaturisce è che questo supporto aiuta a perdersi ancor di più all’interno dell’ossessione di trovare un’unica verità, universalmente riconosciuta.

La storia della signora Frola, del signor Ponza suo genero, della sua giovane moglie e di un paese che non può fare a meno di interrogarsi su di loro e sulle loro insolite abitudini, non smette di farci riflettere sul nostro umano bisogno di mettere argini, confini e quindi (apparenti) certezze all’indeterminatezza nella quale, per natura, siamo gettati. Indeterminatezza e quindi incertezza che da un lato ci spaventa (perché ci dà la misura di un’impossibilità di controllare totalmente la realtà) ma che dall’altro ci intriga, ci rapisce, perché i vuoti d’informazione liberano il nostro desiderio (di sapere, di spiare) incarcerato dentro alle regole apatiche di un cero modo di vivere, accettato solo in quanto riconosciuto dai più.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LE SEDIE di Eugène Ionesco – regia di Valerio Binasco –

TEATRO VASCELLO, Dall’1 al 6 Marzo 2022 –

Un ambiente scenograficamente scarno e insieme ricco di allusioni: una scatola in bilico? Un’isola in mezzo al mare? Un vascello alla deriva? Forse una sola di queste ipotesi, forse tutte, forse nessuna.

Siamo nel teatro dell’assurdo e in questo contesto, dal quale vengono banditi i principi base della razionalità (e cioè il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto) l’elemento “sedia” diventa un modulo e quindi la misura di tutte le cose. Una sedia non è più solo una sedia ma anche molto altro: è il supporto sul quale si possono far sedere persone (reali o immaginarie) ma anche oggetti (un servizio da thè, degli abiti). E ancora, una scala, ma anche l’unità costitutiva di una piramide-tomba del vecchio (che resta innominato) e della vecchia, alla quale qui si attribuisce il nome-destino di Semiramide. Regina famosa, nel passato, per le fiamme della sua passionalità ma che, ora, qui, sente “un gran freddo”.

Oltre che una piramide, questa struttura triangolare di sedie può essere anche la vela di una zattera o di un vascello, disperso, che anela di andare a vedere altre vele, “splendide macchie di colore”. E per riuscire a vederle, osa sporgersi oltre il grigiore fangoso che lo avviluppa. “È colpa della Terra se tutto cambia, se più si va, più si sprofonda”. Quasi un’eco dell’adagio dell’Otello di Shakespeare: “E’ colpa della Luna: si avvicina troppo alla Terra e gli uomini impazziscono”.

Il fatto è che “si crepa di noia” – ci confessa Semiramide – e per sopravvivere non resta che giocare al “facciamo finta che”. Stratagemma per “cucinare” e quindi nutrire con qualcosa di nuovo il suo compagno, così passivamente inquieto. Lei, Semiramide, invece ha la fortuna di non ricordare quasi nulla e questo la rende “fresca” alla ripetizione: “io ho uno spirito nuovo tutte le sere”.

E grazie a questo “rinnovamento continuo” riesce a commuoversi, fino alle lacrime, durante e dopo l’ennesimo rapporto sessuale con il suo uomo. Nella liturgia della loro giornata c’è anche la cerimonia del thè, accompagnata dal vago pungolamento di lei: “tu sei molto intelligente, avresti potuto fare qualsiasi cosa, se avessi seguito la tua vocazione”.

Lui invece ritiene di aver fatto bene a non essere stato ambizioso: l’unica cosa che desidera ora è continuare a dipendere dalla sua mamma. Almeno lei lo guarderebbe, lo ascolterebbe. “Siamo tutti orfani”, conclude. “Ma ora basta ” – lo ridesta Semiramide: a breve arriveranno “gli ospiti”.

Ma chi è “l’ospite” se non lo straniero (a volte anche il nemico) al quale, per sacro e tacito accordo, tributiamo accoglienza? Un’ostilità che si sublima nell’ospitalità: atavico scambio reciproco ma soprattutto supremo e inviolabile valore di civiltà.

E soprattutto chi sono, qui, “gli ospiti”? Forse siamo noi del pubblico. Siamo noi quelle vele, “splendide macchie di colore”, che il compagno di viaggio di Semiramide (un poetico e visionario Michele Di Mauro) tanto desidera incontrare. Forse ognuno di noi può essere “l’oratore”, capace di trovare le parole per dirlo, “il proclama”: così da non sentirci “orfani”, bambini che nessuno guarda, né ascolta.

Se solo osassimo, se solo prestassimo orecchio, se solo trovassimo l’audacia: un modo di stare al mondo meno serioso del coraggio ma più temerario, e perciò più brillante. L’audace non è inconsapevole del rischio ma generosamente lo accetta e se ne compiace. E la sorte l’aiuta, perché l’audace è consapevole di sé e quindi aperto all’accoglienza, all’ospitalità.

Uno spettacolo potente che, andando al di là della miseria della condizione umana, ci ricorda qual è la nostra missione qui sulla Terra: quella di “ospiti” e di “ospitanti”.

Particolarmente degna di nota, la fulgida interpretazione di Federica Fracassi.

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Maggiori informazioni sul regista Valerio Binasco


Recensione di Sonia Remoli

LO ZOO DI VETRO – regia Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO, dal 22 al 27 Febbraio 2022 –

In un ambiente scenico che sa di marshmallow, abita quel che resta di una famiglia, in bilico tra un’apatica malinconia e un’ossessiva eccitazione.

Abiti-maschera amplificano visivamente l’indole principale di ciascun personaggio, resa invece in maniera convincentemente ambigua dalla recitazione.

Improbabili calzature (che ricordano quelle di alcuni personaggi Disney) sortiscono il geniale risultato di rendere ancora più impacciata e maldestra la convivenza, quasi elefanti in una cristalleria, e prossemicamente ancora più incomunicabili le relazioni.

Ciascuno, pur ostinandosi a restare in quella casa, riesce a sopravvivere ancorandosi ad una propria evasione: per Tommaso è l’andare, ad ogni ora libera del giorno, al cinema per sognare quelle avventure che nella realtà non riesce ad affrontare. Per Laura è l’ascolto di vecchi dischi che le parlano del misterioso rapporto tra genitori e figli e di come il giocare a nascondersi per essere trovati possa prendere insolite varianti: ad esempio, quella in cui a nascondersi è un padre (in scena visivamente nascosto ma motore immobile della narrazione). Occasione di massima evasione per Laura, però, è scegliere di prendersi cura di un’insolita famiglia di animaletti di vetro. Per Amanda, la mamma, evadere è poter ricordare continuamente l’indimenticabile serata al Blue Mountain, dove nel pieno della sua bellezza, le ronzavano attorno diciassette pretendenti, che lei dice di aver intrattenuto esercitando l’arte della conversazione, da lei confusa con l’oratoria.

Lo spettatore viene avvertito da Tommaso, in una sorta di prologo, che suo intento sarà quello di raccontare la propria storia (nelle vesti di personaggio e insieme di voce narrante) non in maniera realistica bensì “sentimentale”, avvalendosi dell’aiuto della finzione: “c’è molto trucco e molto inganno”. Da Amanda, invece, ci arriva l’invito metaforico a mangiare lentamente, masticando bene: solo così si riusciranno ad assaporare le spezie, nascoste nei cibi. 

Particolarmente emozionante l’interpretazione del personaggio di Laura, da parte di Anahi Traversi: nelle scene “in primo piano” ci si può incantare a seguire il percorso emotivo che lei attraversa e che, valicando l’estremo contenimento, si scatena finalmente in silenziose lacrime. Per poi, con la velocità del battito di ciglia di un sospiro, passare schizzofrenicamente ad una insospettata situazione di esasperata carica eccitativa.

Una scelta scenografica di grande impatto ed efficace nel rendere, per contrasto, la desolazione di quattro anime prigioniere nel labirinto iper zuccheroso della loro famiglia.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SERVO DI SCENA di Ronald Harwood – regia di Guglielmo Ferro –

TEATRO QUIRINO, Dall’8 al 20 Febbraio 2022 –

Uno spettacolo sull’esigenza di vivere, nonostante tutto, di teatro e per il teatro. Anche quando ciò che ci circonda sembra cadere a pezzi. Anzi, soprattutto perché tutto il resto sta cadendo a pezzi. Il teatro sta alla vita così come il servo di scena sta al capocomico: il teatro serve, sostiene, infiamma e soprattutto libera.

Perché nasce dall’urgenza, esclusivamente umana, di guardare ma soprattutto di essere guardati; di parlare ma soprattutto di essere ricordati, base ontologica dei rapporti umani, così come del rapporto attore-spettatore. Finalmente qualcuno ci guarda e mentre ci guarda ci fa esistere in modo nuovo, ci fa nascere un’altra volta. Questo è il messaggio che al di là dei capricci, dei facili egoismi e delle modalità narcisistiche, ci consegna Sir Roland, un attore ormai vecchio e al tramonto, capo comico di una compagnia inglese degli anni ’40.

Con l’apertura del sipario entriamo nell’elegantemente ricercato camerino di Sir, dietro al quale si sopraeleva il retro di un palcoscenico, ovvero un fondale di quinte armate, che fa da confine-non confine tra due spettacoli. Un’idea scenografico-narrativa metateatrale che sottolinea, anche visivamente, il continuum tra vita e teatro, tra attore e spettatore. 

Lo spettacolo prende avvio da una tempesta emotiva alimentata dal servo di scena tuttofare Norman (un elegante e sensibile Maurizio Micheli) e dalla prima attrice nonché moglie di Sir, Milady (una brillante e raffinata Lucia Poli) disperatamente addolorati per la fuga isterica di Sir a poche ore dall’inizio della recita.

Norman, da buon servo di scena qual è, fa credere a tutti di nutrire un solido ottimismo sulla positiva risoluzione della situazione; Milady invece spinge affinché si rimandi lo spettacolo : “Che sarà mai!”- dice. E rincalza: “E poi: ma esiste qualcuno a cui interessa se lui recita o no?”, introducendo così il tema fondante dello spettacolo. Benché esausto e in evidente disequilibrio fisico e mentale, Sir (un intensissimo Geppy Gleijeses) ritorna in camerino, pronto a qualsiasi cosa pur di stare lì, proclamando: “Non posso, non devo, non voglio, saltare la replica” e continua: “Ogni sera, in scena, mi mangio la vita!”. 

Poco prima dell’annuncio che resta solo mezz’ora dall’andare in scena, ha inizio, a favore di pubblico, complice una piccola pedana roteante (sottostante il mobile da toelette di Sir), il rituale della cerimonia del trucco, per entrare magicamente nella pelle del personaggio da interpretare: “Re Lear”.

È questa l’occasione per delle riflessioni sul mestiere dell’attore e su ciò che dà senso a questo particolare modo di prendere la vita, dove il dolore nasce insieme alla parola e la parola è ciò che ti consegna alla memoria, al ricordo.

Arriva il momento del “chi è di scena” e sebbene con evidente fatica e con un notevole ritardo (colmato con arguta improvvisazione dai colleghi sulla scena, le cui ombre vediamo proiettate sul retro del telo bianco al centro del fondale), Sir/Re Lear entra in scena sostenuto non solo dal servo di scena e dalla direttrice di scena ma soprattutto dalla voglia di dire, ancora una volta: “Eccomi qua: sono venuto a vedere lo strano effetto che fa, la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta e se stasera si alza una lira per questa voce che dovrebbe arrivare fino all’ultima fila …”.

Ma lo spettacolo non termina qui, almeno per noi che sediamo nella platea dietro al palco. E un colpo di scena ribadirà, ancora una volta, quanto sia di vitale importanza per noi umani essere negli occhi e nella mente di qualcun altro.

Lo spettacolo è un omaggio a Turi Ferro nel centenario della nascita.

Leggi l’intervista a Geppy Gleijeses dal Corriere della Sera

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA METAMORFOSI di Franz Kafka – adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MIRACOLI METROPOLITANI di Gabriele Di Luca

TEATRO VASCELLO, 11-23 Gennaio 2022 –

Lampeggia una luce rossa. Quale sarà il pericolo? Il luogo inizia a popolarsi di un’umanità egoista ed ipocrita, sciacallamente intenta ai propri interessi (e il pensiero va a “The Kitchen” di Arnold Wesker). Abbiamo perso un sogno, il gusto di parlarci, la voglia di aiutarci? Ha perso la comunità?

Regna il caos: i liquami delle fogne di un’ipotetica città hanno rotto gli argini e invadono ogni luogo. Soprattutto a livello olfattivo. Tutto è maleodorante. La soluzione è chiudersi in casa, ognuno nella propria casa, pensando di poter arginare così, singolarmente, il problema.

In scena una fantomatica cucina, con sede in uno squallido scantinato: “prepara” pasti precotti (acquistati in Cina) per celiaci, da consegnare a domicilio. E apparentemente si sta arricchendo. Più che una cucina, ci si rivela una fucina: un luogo infernale dove manca la cura nel preparare il cibo, primo veicolo di amore, ma soprattutto dove si forgia la filosofia del massimo risultato con il minimo sforzo.

A discapito apparentemente solo degli altri. Una fucina d’inganni, di forze sotterranee. Ma, e questo magari è il messaggio finale dello spettacolo, ci si può ancora inventare una vita ricca d’intensità emozionale, nonostante la nostra natura da Sisifo: proprio perché consapevoli dei nostri limiti e proprio per questo possibili artefici del nostro destino.

Un’esistenza dove si può vivere grazie a guizzi d’amore. Quelli che a volte non riusciamo a trovare: come è successo a Plinio, il personaggio che ha progressivamente smesso di nutrire la sua insaziabile curiosità da chef stellato, schiacciato dal macigno che ci ostiniamo esclusivamente a caricare sulle spalle. Senza pensare che a volte anche Sisifo può distogliere lo sguardo, come Perseo con Medusa. E trovare così la forza di alleggerirsi creativamente. E soffrire, creativamente. Perché spesso la nostra paura a qualcuno conviene.

Perché non è la sottomissione houellebecchiana la nostra unica possibilità di sopravvivere: quella espressa dal mantra del personaggio Mosquito “a chi devo succhiare il cazzo oggi per avere un panino?”. Né esiste solo il muto e consapevole urlo munchiano di Clara, lavapiatti assurta a manager del business delle ostie per celiaci. C’è anche la possibilità di stare al mondo proposta da quel Platone (del “Simposio”) che Cesare, l’oratore aspirante suicida, presenta a Igor, il figlio adulto di Clara a cui va ricordato ogni giorno di cambiarsi le mutande e di lavarsi i piedi: quella di stare insieme, con amore. Perché solo l’amore ci può salvare: non la singolarità ma il “due”, la relazione. Qualcosa di diverso dalle “storie” su Instagram nelle quali Clara non manca di condividere incidenti e funerali, oppure proporre scommesse sugli altrui conflitti. Piuttosto un amore che nasce e si alimenta di “mancanze”. Ma solo quando ami, non temi più la vita. Perché anche l’assenza dell’altro diventa una cosa che sta con te. E’ così che può nascere un miracolo. Molto umano e un pò divino. Un miracolo metropolitano.

Gli attori sanno rendere leggerissimamente la loro (e nostra) pesantezza esistenziale. E si librano, ognuno a proprio modo, dentro questa cucina-vita che pare pretendere solo ritmi ossessivamente frenetici e ipocriti egoismi. E riescono a farci ridere: amaramente e di gusto. Forse perché anche noi, come Mosquito, non crediamo (solo) in Dio ma in Shakespeare. 

La compagnia dimostra una straordinaria capacità di leggere il nostro tempo, nel quale regna la tentazione di disinteressarsi a lottare, tutti insieme, mano nella mano, per un mondo migliore. Ma non tutto è perduto.

Un brivido, ormai quasi dimenticato, quello poi di assistere ad uno spettacolo in un teatro totalmente pieno. Di persone di ogni età. Un altro miracolo metropolitano.


Uno spettacolo di
CARROZZERIA ORFEO

Drammaturgia Gabriele Di Luca
Regia Gabriele Di LucaMassimiliano SettiAlessandro Tedeschi

Con (in o.a.)
Elsa Bossi Patty
Ambra Chiarello Hope
Federico Gatti Igor
Barbara Moselli Clara
Massimiliano Setti Cesare
Federico Vanni Plinio
Federico Brugnone Mosquito/Mohamed

Si ringrazia Barbara Ronchi per la voce della moglie.

Musiche originali Massimiliano Setti
Scenografia e luci Lucio Diana
Costumi Stefania Cempini

Una coproduzione
Marche TeatroTeatro dell’ElfoTeatro Nazionale di GenovaFondazione Teatro di Napoli -Teatro Bellini

in collaborazione con il Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale”


Recensione di Sonia Remoli

LA FOTO DEL CARABINIERE -La storia di Salvo D’Acquisto e di mio padre -scritto, diretto e interpretato da Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 5 al 10 Ottobre 2021

Si può parlare della bellezza? Dicono di no. Perché la bellezza sfugge, non si lascia concettualizzare. E ci punge. A volte ci trafigge. E ci incanta, sempre. Partecipando alla rappresentazione di questo spettacolo, i sensi vengono continuamente solleticati da istanti di pura bellezza. Proverò a parlarne, sfidando il rischio di tradirla: perché la bellezza ci vuole indifesi, solo spettatori. Solo così può entrare e farsi strada: meravigliandoci, incantandoci. Lasciandoci poi, inermi.

C’è bellezza nella profonda e potente leggerezza con la quale Boccaccini ha tradotto e condiviso un’esperienza così intima e così eccezionalmente quotidiana. Come un cantore professionista, un aedo, ci rapisce e ci guida attraverso “luoghi”. Luoghi dell’anima. Ci fa entrare in una geografia emotiva (con epicentro Torre in Pietra), in un intimo viaggio sentimentale, in una mappatura dei costumi. Di quel periodo ma non solo. “Perché i padri sono Paesi”, da cui si parte e dove si desidera tornare. Anche, anzi soprattutto, se sono stati loro a mettere una distanza. La bellezza dell’appartenenza chiede comunque di essere celebrata. E Tarquinio, così infiammabile e insieme così capace di misericordia, lo fa. E trasmette l’imprinting.

E poi ci sono le Madri, come Valeria. Che sanno fare tutto contemporaneamente. Con la grazia e la resistenza di un discobolo, con in mano il più grande (e quindi il più buono) dei cocomeri. E con le quali è più facile confidarsi, prima che l’imprinting paterno culmini con il primo discorso fra uomini.

C’è bellezza nelle nitide foto posturali che immortalano i gesti: offerte su un vassoio, come farebbe un cameriere di Fassi. Perché la vita va bevuta: condividendo a volte “un bicchierino”, a volte “un calice a Mariù”. Perché “un giorno si nasce e un giorno si muore”.

C’è bellezza nella sacralità delle cerimonie: quelle istituzionali, come lo sposalizio o la commemorazione, diventano scenari di qualcosa di diversamente sacro, ovvero le tappe della rivelazione dell’enigma di questa presenza favolosa. All’interno delle quali dapprima un figlio scopre il padre “salvatore” del ragazzo con la lambretta e successivamente viene messo a parte di un discorso per la prima volta “da uomo a uomo”. Cerimonia questa, suggellata dal rituale del fuoco.

C’è bellezza nella musica scelta per accompagnare la rievocazione e insieme la rivelazione della passione di Salvatore D’Acquisto: come una pioggia rafficata, a volte uno stillicidio musicale. Il tutto attraversato dalla dolcezza acuta del violino. E poi, interminabili nuvole di fumo. D’incenso. 

C’è bellezza nell’auto nuova di Tarquinio, vista come un’ inquadratura in soggettiva e vissuta come platea del palcoscenico della via. Quella vera, immortale e quella che scorre e si consuma. Quasi un’immagine uscita da un manifesto di Jaques Tati. 

Perché la bellezza non ha un fine esterno: è di per sé utile. Fa vivere. E in quanto tale, forse, è la legge segreta della vita. Grazie allora a chi mette la propria vita, la propria esperienza e il proprio talento a servizio degli altri, permettendoci di fare esperienza della bellezza della vita.

Questo spettacolo prende la forma di un dialogo: con il pubblico, certamente ma anche con le luci e le ombre interiori dello stesso aedo Boccaccini. Per le quali viene ideato uno speciale disegno luci, necessario per illuminare e celare un luogo diverso: quello custodito nel fondo dei “pantaloni a cica”. Esposto non solo sul comodino ma anche sul palco. Un “luogo” complicato da raggiungere (come la pera in fondo alla bottiglia) e dove Boccaccini ci ha permesso di entrare. Di specchiarci. E di scoprirci, ognuno a suo modo, “somiglianti” a lui. Come lui a suo padre.

TEATRO VITTORIA dal 5 al 10 ottobre 2021


Recensione di Sonia Remoli