L’intimità della sua lettura interpretativa e la scelta dei testi – la cui cura è stata affidata al poeta e drammaturgo Igor Esposito – fanno dell’allestimento quasi una rievocazione della passione del Pasolini uomo scisso, spaccato in mille contraddizioni.
Pier Paolo Pasolini
La parola di Pasolini s’incarna nella voce di Musella che lo ospita intessendo un visionario dialogo con la drammaturgia musicale di Luca Canciello – musicista e sound designer devoto alla sperimentazione, in special misura quella sul ritmo. La lirica inquieta di Pasolini scopre così affinità con certe sonorità elettroniche, dense di attese e di sublimi ossessioni.
E qualcosa di sacro si manifesta proprio mentre si cela nella natura animale: Musella ci dà il fianco, si rende schivo e insieme vulnerabile. Si lascia disegnare da un profilo luminoso, quasi a evidenziare contemporaneamente la finitezza senza nome e insieme la presenza epifanica del Poeta.
Maledettamente divino, dentro un’esistenza perimetrata.
“La danza delle omissioni” è lo spettacolo di Alessandro Serra che ieri pomeriggio è andato in scena al Teatro Basilica. In forma di dono: un saggio di autenticità; un’offerta agli spettatori che emerge in tutto il suo rilievo umano e morale. Finanche spirituale: di tale natura infatti è per Serra l’avventura teatrale.
Prova ne è anche “La danza delle omissioni”: un “distillato” della sua precedente “La Tempesta” di Shakespeare – come lo ha definito Guido Di Palma, che con Serra ha dialogato al termine dello spettacolo. Un’operazione di separazione della diverse “sostanze” dalla miscela del tutto. Per estrarre il meglio: la parte nobile, spirituale. Ciò che si cerca davvero.
Ecco allora che questa messa in scena risulta scevra dei ricchi costumi, della mirabolante scenografia, degli oggetti di scena e della drammaturgia luminosa che abbiamo visto ne “La Tempesta”.
È nuda e insieme metafisica, nel rispetto della prima regola del teatro, secondo Alessandro Serra: il Teatro è l’Attore. E agli spettatori si chiede – come era solito fare Shakespeare :”sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente… con l’aiuto della fantasia”.
Alessandro Serra
Qui, gli attori infatti sono vestiti di una seconda pelle indifferenziata (per tutti camicia bianca e pantaloni neri) per affidare la caratterizzazione di ciascuno di loro ad una diversa partitura musicale. Una specifica partitura di voce e gesto.
Così, dal buio, prende vita il rito ancestrale racchiuso in “un indegno tavolato”: un territorio segnato. Fin dall’inizio tutti gli attori sono in scena. Dentro o fuori dal territorio segnato. Al centro lo spiritello Ariel, in un crescendo di evocazione e possessione, origina ed è il caos della tempesta: contenente e contenuto. Qui, è lui a passare dal tremare al gonfiarsi come telo, quasi a levitarsi, fino a volteggiare e a vorticare.
Coloro che Ariel ha fatto naufragare, mantenendoli illesi, sono ora nelle sue mani. Letteralmente: come marionette gestite da un burattinaio. Oppure animati dal suo zefiro. O ancora quali scattanti pupazzetti ubbidienti alla sua carica.
A Caliban è affidata una doppia partitura: parla una lingua “chiusa”, vicina al ringhiare e al rantolare degli animali ma poi – snaturato da Miranda – parla anche una lingua molto più “aperta”, fatta di sillabe e vocali allungate, vicina a quella dei presunti “normali”. Lo definiscono “il mostro”, perché diverso da loro. Ma così irresistibilmente affascinante e libero da doverlo predare, per poi esporlo a pagamento. Un’opera d’arte da offuscare.
Caliban invece è colto da autentica meraviglia nel vedere persone diverse da sé: è il più predisposto ad entrare con loro nella relazione, rinunciando ad una pretesa libertà assoluta e mitigando l’istinto alla sopraffazione, che tutti ci accomuna. Per natura.
Anche lo spazio scenico ci parla di questa demarcazione tra il territorio segnato e il fuori, che spesso nel corso dello spettacolo perde di rigidità diventando follemente osmotico.
E proprio la difficoltà umana dell’entrate in relazione con l’altro è, forse, il distillato che ci offre questa “Danza delle omissioni”. Distillato suggerito anche nella poetica scelta del titolo: quel movimento dell’oscillare della danza – quel procedere che non esclude l’indietreggiare – necessario per passare oltre i nostri confini, oltre i nostri pregiudizi. Omettendoli.
È la potenza del perdono di Prospero. È il meraviglioso senso di libertà del pianto di Antonio. È la bellezza sublime dell’ “esporsi”, mostrando – finalmente liberi – le proprie ferite segrete.
È il gettare indietro il bouquet da parte di Miranda: invito a nuove unioni, a nuove relazioni.
Perché “per fare meta e andare avanti si deve passare la palla indietro”.
Mirabile la forza espressiva a tutto tondo di alcuni freeze: potentissimi altorilievi. È la scultura del tempo e dello spazio, è il talento degli attori a sostegno del vuoto.
È la regia: quella di Alessandro Serra.
Alessandro Serra
Questo spettacolo offerto da Alessandro Serra e dal Teatro Basilica e il relativo dialogo con il regista appartengono al ciclo di incontri Artigiani di una tradizione vivente nell’ambito del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore.
Il progetto – di grande valore artistico – nato per recuperare l’antica cultura artigiana del teatro che punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali, dopo il primo ciclo di formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 curata da Glauco Mauri, inaugura ora il secondo step dedicato agli “Artigiani della tradizione vivente”, un ciclo di incontri con grandi attori e attrici della tradizione teatrale condotti da Guido Di Palma.
“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura e tantomeno ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni. Per questo, nel quadro della Terza Missione universitaria, la Sapienza sostiene il progetto Le lacrime della Duse”.
Guido Di Palma
I prossimi appuntamenti vedranno protagonisti:
venerdì 1° dicembre ore 16:00 Mimmo Cuticchio (Teatro Ateneo)
lunedì 4 dicembre ore 16:00Lino Musella (Vetrerie Sciarra).
Per un attimo la sensazione è quella di essere sul set del cechoviano “Vania sulla 42esima strada” di Louis Malle, con David Mamet alla sceneggiatura.
Dicono di voler fare una memoria. Ma in realtà sembrano averla fatta così bene d’averla persa. Sanno, ora. E possono attingere alla memoria del cuore.
Ci arriva tutta la loro urgenza di tenere a memoria ogni momento che hanno condiviso con Lina. Ed è come se stessero iniziando a scrivere un diario di memorie quotidiane. A ritroso. Un diario del tempo che si sono regalati; dell’amore che sono stati in grado di offrirsi.
Ed è nostalgia: quella piena di gratitudine, quella che continua a scaldare il cuore. Quella da celebrare ed onorare nutrendola anche con un bicchiere di vino, del cibo. “La vita è strana, non meno della morte”.
Ma tutta nostra è la possibilità di consultare il passato, di distenderci accanto a lui. Ancora. Non per fuggire dal presente – ora così strano, così senza senso – ma per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nell’oggi e nel futuro.
Per tenere alta la consapevolezza sorridente di chi siamo, da dove veniamo e dove abbiamo la possibilità di spingerci. Per non perdere niente di quello che naturalmente entra nella nostra vita.
Perché vivere significa “aspettare che finisca” amando far attenzione a godere dei più piccoli dettagli. E così imparare a lasciar andare. Che non significa essere risucchiati.
Piuttosto “digerire”: godere di tutti i sapori, masticare senza lasciare vuoti e trasformare, attraverso l’enzima della memoria, la nostalgia di ciò che è entrato in noi – ed è stato assimilato – in gratitudine. Costruendoci un “archivio”, un diario di sapori belli a cui ripensare: dai quali attingere energia vitale nei momenti più ombrosi. Godendo della presenza di chi non c’è, proprio nella sua assenza.
Sta a noi trovare la luce dell’ombra: sta a noi seguire con questa nuova luce chi non c’è più. Darle una nuova “sagoma”.
Uno spettacolo geniale, che riesce a parlare dell’essere con il nulla.
L’acqua, risorsa naturale così abbondante in Italia e dono così prezioso, offerto dal suolo che ci ospita.
Un dono scambiato per possesso.
Un dono che pur essendo abbondante non risulta sufficiente a nutrire quell’ingordigia che a volte offusca il cuore dell’uomo.
Andrea Ortis
Lo sguardo del friulano Andrea Ortis – autore, attore e regista di questo appassionato e appassionante spettacolo – fa sì che sulla scena la storia scorra su due flussi narrativi. Quasi due torrenti d’acqua che a loro modo parlano, ricordano, piangono, testimoniano. Per non dimenticare. Per impedire che prendano ancora forma disastri torbidi e tragici di questa portata.
Il torrente narrativo di Ortis scorre sul proscenio: il suo è uno storytelling puntualissimo nei contenuti – sostenuti anche da una storica e tecnica documentazione visiva – e nostalgicamente poetico nel sentire più profondo.
È un senso della memoria, il suo, forgiato da un desiderio di fedele testimonianza che si vena di accenti di quel lirico languore proprio di chi ha vissuto quell’attraversamento tra il prima e il dopo e che avverte viscerale la consapevolezza che l’uomo tende a smarrire l’intimo legame a sentirsi in armonia con la natura.
Una testimonianza che – scevra dalla rassegnazione – si carica della volontà ad impegnarsi nel rinsaldare una rispettosa continuità tra la storia della natura e quella dei suoi ospiti, presto – sia spera – consapevoli e disponibili a farsi “docile fibra dell’universo” – come scriveva Giuseppe Ungaretti.
Alla narrazione di Ortis s’intervalla quella di chi è sopravvissuto al dramma e fatica a mandar via quell’insopportabile odore tipico del senso di colpa per essere vivi. Alcune scene sono rievocate mirabilmente come dentro la diga stessa, utero maledetto. E una tremenda emozione ci assale. Ma è in nostro potere riuscire a fare del buio del dramma qualcosa di interessante, di fertile per il nostro futuro. E allora proprio da quell’utero maledetto, che ci lega a non dimenticare, ci può arrivare il dono di una nuova e potente consapevolezza.
Infatti, seppur “Perché sei vivo?” sia la domanda che ossessivamente assilla chi resta, la tentazione a sentirsi in colpa può essere splendidamente sublimata dal pulsante orgoglio a sentirsi eredi e quindi testimoni. Per non dimenticare il passato e quindi non essere costretti a ripeterlo. Perché “la storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare”.
In un magnifico gioco scenografico di presenze/assenze pluri presenti – regalato da un sapiente uso della drammaturgia delle luci su una superficie velata – riesce ad imporsi allora anche visivamente l’urgenza di raccontare.
Ed è la storia del loro vivere quegli anni ’40 -’50- ’60 ignari che il tempo che li separa dal tragico destino sia segnato non solo da momenti di ritrovata spensieratezza post bellica ma anche da torbide complicità su superbi deliri di onnipotenza.
Ecco allora l’avvicendarsi di momenti in cui ci si ritrova insieme anche a cantare, a “godere fantasticamente del proprio corpo unificato» come diceva Roland Barthes. Ed è mirabile l’interpretazione dei ragazzi de La Compagnia della Rancia, dove dalla partitura delle voci riesce ad emergere “una grana” che sa farsi corpo.
Una cifra stilistica degli spettacoli di Ortis questa, dove anche e soprattutto attraverso il canto si raggiunge una potentissima forma di comunicazione con il pubblico.
Ma ad essere rievocate sono anche le scene degli inquietanti luoghi dove si presero superficiali decisioni, nonostante voci autorevoli si fossero battute, prove alla mano, andando oltre il chiudersi in un “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Piuttosto salvando proprio quel valore simbolico così fondamentale proprio della parola “tutti”.
Una parola così carica di potente energia non può finire per farci mollare. “Tutti” infatti ha la forza rivoluzionaria del tenerci insieme, “aggrappati” gli uni agli altri, per essere un’autentica comunità che lotta contro egoistici “a solo”.
In occasione dell’anniversario dei 60 anni della tragedia che colpì il Vajont il 9 ottobre 1963,
la MIC – International Company, in coproduzione con il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con Compagnia della Rancia, ha scelto di portare in scena, con una tournée nazionale nei più importanti teatri italiani, “Il Vajont di tutti, riflessi di speranza”.
Lo spettacolo, che si avvale del sostegno della Regione del Friuli, dopo essere andato in scena in anteprima proprio sullaDiga del Vajont – nell’ambito degli eventi per la celebrazione dell’anniversario- è approdato a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli.
Che cos’è la verità? Quando si realizza un disvelamento? Quando riusciamo a togliere la coltre di oscurità che ammanta gli aspetti più profondi della nostra esistenza? Oppure quando riusciamo a sostenerne il buio ?
Ad enfatizzare la mordacità caratteristica della drammaturgia britannica – in questo caso pervasa anche dalla vena poetica di Ben Norris – un’efficace drammaturgia delle luci ci guida verso la consapevolezza che l’emozione, e quindi ciò che in noi c’è di più autenticamente vero, può nascere solo dal buio. E che è in nostro potere fare del buio qualcosa di interessante: di fertile per la nostra esistenza.
Ben Norris
Cosa decidiamo di svelare di noi in un incontro? Quante “prove” sono necessarie per costruire un’immagine di noi che gli altri sicuramente accoglieranno ? In altre parole dove è conveniente – nel presentarci ad un altro – far cadere la luce su di noi e dove invece è decisamente preferibile toglierla, nascondendo? Quanto è importante il giudizio degli altri? Cosa ci permettiamo di desiderare?
Ilaria Martinelli e Elena Orsini
In una serrata e pungente tenzone, dove apparentemente ci si sfida a rompere schemi mentali nonché spaziali, solo dalle domande fatte a bruciapelo zampillano autentiche risposte. E le due interpreti in scena – Elena Orsini ( curatrice anche della traduzione del testo e della regia dello spettacolo ) e Ilaria Martinelli – brillano della luce delle proprie ombre. Brillano cioè in quel lacerante lasciar trapelare l’oscurità delle loro fragilità.
Si domandano, tra gli altri svariati enigmi che punteggiano le loro (e le nostre) vite, se l’alta tecnologia sia davvero così salvifica e “democratica”. E soprattutto se vale la pena affidarsi alla rassicurante guida in modalità “pilota automatico” piuttosto che ad una guida manuale, magari meno affidabile, ma continuamente e stimolantemente migliorabile.
Ma poi, perché ci viene così spontaneo affidare la guida della nostra vita a qualcuno esterno a noi? Chi è Alexa? Il nuovo oracolo di Delfi ? Conoscere se stessi significa diventare un “prodotto tipico” ? Cosa vuol dire “vivere” ? Vivere per avere soldi con cui comperare cose oppure vivere di passione artistica, condividendo con altri artisti quel poco che si possiede?
Elena Orsini
In scena, oltre la potenza della parola – resa dalla feroce tenerezza dell’interpretazione – è la prossemica a disvelarci le tensioni autentiche di queste due ragazze che s’incontrano, diventano amiche e poi scoprono di essersi innamorate l’una dell’altra.
Ma come sono diversi i loro vissuti e com’è difficile incontrarsi senza scontrarsi, senza cadere nella tentazione di scegliere cosa mettere in luce o in ombra l’una dell’altra? Senza manipolare e lasciarsi manipolare. Senza lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri.
Le due interpreti – dandosi così generosamente nelle loro zone d’ombra – ci attraggono tremendamente. Stanno parlando di noi, oltre che a noi: delle nostre difficoltà ad amare e ad entrare davvero in “contatto” con l’altra persona; della paura ad essere travolti dalla follia dell’amore e della difficoltà a darsi la possibilità di perdersi con l’altro. Per poi ritrovarsi rigenerati dall’incontro reciproco. Continue sono le varianti da affrontare e sulle quali continuamente riequilibrarsi. E noi invece, proprio come loro, siamo tentati a credere che nella vita “servono le spalle grosse e un lungo termine”.
Ilaria Martinelli
Ma poi incontriamo la morte e dobbiamo rifare daccapo i conti con tutto ciò che ci eravamo tanto impegnati a organizzare, a fissare, a rendere stabile a lungo termine. Tutto sembra saltare, ritrovandoci così in un “buco nero”. Scoprendo però insospettatamente che del buio, del nero, si può fare qualcosa di interessante, di fruttuoso. Dal buio possono emergere nuove consapevolezze, nuovi strumenti da mettere in campo. Per vivere fidandosi un po’ di più dell’irrazionale.
Un’occasione davvero stimolante – questo spettacolo Autopilot curato da Elena Orsini e supervisionato da Mario Scandale – per condividere temi così prepotentemente presenti nelle nostre vite con lo storytelling ironico e poetico, attento ma anche foriero di nuove torsioni esistenziali, come quello d’Oltremanica.
Ne emerge un teatro di energica curiosità, disposto a sperimentare nuove possibilità espressive.
Rodolfo di Giammarco
Prezioso, quindi, il Trend Festival curato dall’acuto sguardo di Rodolfo di Giammarco teso, da 22 anni, a monitorare e a selezionare quelle che sono le opere e gli autori delle nuove frontiere della scena britannica.
Premio a Luciano Violante (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Nuova Drammaturgia) – perché «la sua versione dei fatti é la versione di una donna imprigionata dal volere altrui che cerca di liberarsi dai vincoli patriarcali».
Premio a Viola Graziosi (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior Attrice)
Premio a Giuseppe Dipasquale (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Regia e Scenografia). Il nuovo direttore di Marche Teatro -Teatro di rilevante interesse culturale- offre «uno sguardo caleidoscopico che ci rimanda ad un linguaggio cinematografico, all’immagine inconscia e metafisica. Circe è parte di un mondo fluido, Circe tra mito e realtà; prigioniera del suo abito crisalide e del suo stesso incantamento che le impedisce la piena libertà: ricca di rimandi iconografici da Bottazzi a Waterhouse in una sinergia tra mitologia e lirismo, il percorso di una donna alla ricerca dell’essenza dell’essere».
Il racconto è lo sforzo, il tentativo, di chi vuole comunicare qualcosa. Con una determinata intenzione.
Cosa sappiamo di Circe?
Il racconto più diffuso fa di lei una maga ingannatrice e malvagia. Ma è solo un punto di vista, un tentativo di comunicare qualcosa. Ci sarà dell’altro?
Luciano Violante
Da qui probabilmente nasce il desiderio di Luciano Violante, ex magistrato e politico italiano, di approfondire il fatto. Il mito, in questo caso. Ne scaturisce un testo davvero convincente che l’originalissima regia di Giuseppe Dipasquale e l’istrionica interpretazione di Viola Graziosi rendono irresistibile.
Giuseppe Dipasquale
Questo di Luciano Violante è il racconto su Circe, di Circe: la sua versione dei fatti. Il suo personale e consapevole entrare nell’habitus costruito per lei dagli altri. L’altra faccia della medaglia. La parte mancante, ad ora. Quella che era rimasta ingabbiata in una struttura rigida, mortifera. Che le toglieva respiro.
Viola Graziosi
È la sua voce a farsi corpo. Ma a differenza di un corpo, non è parte determinata di una materia. E’ tutta la materia, tanto è variegata – l’espressività vocale e mimica di Viola Graziosi è stupefacente, al di là degli accattivanti effetti sonori ad essa applicati.
E poi è essenza. Una voce caleidoscopica, dilatata, con echi. Una voce che si specchia e produce un rimando. Una voce epica: fisica e metafisica. Un canto: una melodia sì, ma anche un punto di vista: quell’angolo dell’occhio che produce quella particolare curvatura. Quel particolare sguardo. Ed è incanto.
Scenograficamente questo suo caleidoscopico sguardo è riprodotto quasi fosse una proiezione cinematografica. Una proiezione lisergica, inconscia, metafisica all’interno di un grande occhio che le fa da fondale. Lei così disponibile a farsi parte di un mondo fluido, marino e non solo. Lei così poliedrica, seppur incarcerata in un racconto che le tarpa il corpo.
L’appassionata regia di Giuseppe Dipasquale visualizza molto efficacemente questa prigionia: non ci sono quasi mai movimenti scenici in Viola Graziosi se non quei piccoli, flessuosamente ondulati, liquidi movimenti delle sue mani. Unitamente alla restituita possibilità di entrare e di uscire dal rigido habitus, confezionato sul precedente racconto intessuto su di lei.
Il magnifico apparato scenografico cita con originalità celebri opere iconografiche dedicate al mito di Circe : partendo dal dipinto del poliedrico pittore romano Umberto Bottazzi (1865 – 1932) per arrivare al britannico preraffaellita John William Waterhouse (1849 -1917). Ma è l’insieme degli sguardi della drammaturgia luminosa a vivificare – in sinergia al lirismo del testo di Luciano Violante – questo nuovo racconto restitutivo.
Eccolo. Fu il padre di Circe a scegliere per lei: le ordinò di rinunciare a tutti i privilegi di essere una divinità, anche se minore, per scendere tra i mortali. Una descensus che solo apparentemente ha il sapore di un esilio: in verità è una missione, una vocazione terapeutica. Un viaggio che lei solo percorrendolo dentro di sé può restituire a coloro che riescono ad avvertirne l’esigenza. Perché – le disse suo padre – “serve uno sguardo diverso sul mondo: serve lo sguardo di una donna”.
Nella sua discesa interiore – metaforico viaggio fino all’isola di Eea – a lei si uniranno dei mortali ingiustamente condannati a causa di racconti ingannevoli . Proprio come è successo a lei. Perché “per gli umani sovente la verità è piena di spine, mentre l’inganno di miele”.
L’isola di Eea diverrà così, nel nuovo racconto portato alla luce da Violante, un luogo di purificazione: dove, chi ne avvertirà l’esigenza, potrà fermarsi per purificarsi, per redimersi. Un luogo gestito solo da donne e dal loro sguardo sul mondo.
Viola Graziosi e Graziano Piazza (Ulisse)
Vi si fermeranno in molti: non ultimi gli uomini di Ulisse. Uomini affamati di cibo e di donne, di cui si considerano padroni. Allo specchiante sguardo di Circe non passa inosservato questa brama di sopraffazione, di illecito potere: nel suo sguardo ciascun membro della ciurma di Ulisse vede riflessa l’autentica natura ferina che cela.
Ma, essendo ancora incapaci di avvertire l’esigenza di un viaggio interiore purificatorio, è opportuno che vivano consapevolmente questa momentanea trasformazione propedeutica.
Poi arriverà Ulisse: colui che consapevolmente confeziona racconti mendaci. Lei lo disarma immediatamente. Ma lui oppone resistenza: “Io sono quello che sono”. E non si può mutare il cuore di un uomo, se l’uomo non vuole.
“Io voglio non aver catene, questa è la mia tragica libertà” – continua l’Ulisse di Violante.
Serve infatti un coraggio di donna, per affrontare se stessi.
Serve la capacità e la vocazione a desiderare di entrare in relazione con l’altro.
Relazione, non sopraffazione.
Preziosissimo questo progetto “DONNE! Trilogia sulle donne dal mito ai social” voluto dal Teatro di Roma.
Perché è importante raccontare, denunciare, far conoscere, rivelare nuovi sguardi su ciò che ci accade.
Perché è importante che i vari racconti entrino in relazione e si faccia chiarezza.
Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’ Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior attore protagonista).
o il perdono, che nel “mutuo rispetto” tutela la nostra unicità ?
Il progetto di traduzione registica e filologica che ha portato a questa messa in scena è di portentosa bellezza. Tanta meraviglia nasce da un lavoro a sei mani tra Andrée Ruth Shammah, Luca Micheletti e Valerio Magrelli: un lavoro incentrato sull’elogio semantico della parola e della sua musicalità.
Andrée Ruth Shammah
Dal desiderio della Shammah – che da decenni si nutre della passione per Molière – di rendere ancor più consapevole lo spettatore della travolgente modernità di questo testo, nasce l’idea di alleggerirlo puntando dritto alla resa della sua essenza. Ecco allora che con accorta intelligenza la Shammah affida la traduzione de “Il misantropo” allo sguardo poetico del fine francesista Valerio Magrelli che – centrando l’obiettivo – ritraduce il testo portandolo in settenari incrociati.
Valerio Magrelli
Allo spettatore che si siede in sala, seppur ignaro di questo complesso progetto, arriva immediatamente la seducente delicata freschezza dell’ascolto. Ed è un incanto di spontaneità.
Spontaneità che è la cifra del Teatro che tanto ama la Shammah: quello del rituale delle prove. Del qui ed ora si sta svolgendo una prova: qui si sta mettendo in scena il teatro stesso. Quella magica e sacra tensione di ricerca propria del continuo sperimentare, del continuo mettere “alla prova”.
Ed è con questa tensione che si apre lo spettacolo: con i rituali di controllo che sia tutto in ordine sulla scena e con gli attori che entrano e stanno sul palco con quella tensione di fertile attesa di quando sono dietro le quinte. Un’atmosfera magica: pura e insieme disponibile a contaminarsi di tutto, che ricorda tanto quella che abita la nostra psiche, il nostro inconscio.
Lo stesso spazio scenico – le cui scene sono state costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e curate da Margherita Palli – rimanda a un condominio psichico dove interessi e scopi differenti cercano di accordarsi, sovente scontrandosi, per coabitare.
Tra gli inquilini del mondo interiore vi è anche una spinta ideale, una tensione ad essere secondo un modello virtuoso, positivo, realizzato (che Freud ha chiamato Super-io) nella quale si è depositata una grammatica delle nostre aspirazioni: ciò che abbiamo imparato a considerare etico, migliore, auspicabile. Un imperativo che ci indirizza ad essere leali, generosi, affermati, competenti, perfetti, coerenti.
Tensione che è un po’ la spinta iper protettiva che domina Alceste e che lo porta a non riuscire ad entrare in una vera relazione di reciproco scambio con gli altri, con la società nella quale è immerso.
Luca Micheletti è Alceste il misantropo
Riflesso di questo macrocosmo sociale, il microcosmo dei personaggi in scena. La specificità che contraddistingue ciascuno di loro allude alle varie spinte della psiche di Alceste, con le quali lui non riesce ad entrare in relazione. La sua ferrea integrità ha il sapore di un’epurazione: un’ossessione a separare, a purificare, a lavare ogni macchia, ogni colore che può sporcare la sua visione utopisticamente pura dell’essere umano.
L’estro della regista riesce a veicolare questo messaggio nell’orecchio e nell’occhio dello spettatore: ciascun personaggio ha infatti una sua cromaticità vocale ben riconoscibile. Anche rinunciando al conforto dell’immagine. La sublime succulenza dei colori degli abiti (seconda pelle) degli altri personaggi, non c’è in lui, che veste in nero. E dall’umor nero è pervaso. Un colore (e un habitus) ‘introverso’, che non riesce a riflettere luce: quella che sgorga dalle nostre ombre interiori. Tutti i magnifici costumi sono curati da Giovanna Buzzi e realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dondoni.
Luca Micheletti (Alceste) e Marina Occhionero (Célimène)
Il microcosmo di Alceste – come un urlo muto – parla del suo immenso e irrinunciabile bisogno ad essere riconosciuto nell’unicità della propria identità. Bisogno non lontano dal vissuto personale in cui si trova a scrivere l’autore, del quale la regista – con delicata sensibilità – tiene attenta considerazione. E che si può rinvenire, ad esempio, in certe reazioni di tenera e disperata collera dal sapore infantile, che Alceste rivela in alcune occasioni.
E che forse possono leggersi anche nel suo ritrovarsi, alla nascita del fratello minore, privato del nome proprio. Tanto che a 22 anni rinuncia al nome di Jean, al quale solo successivamente i suoi aggiunsero quello di Baptiste per differenziarlo dal secondogenito Jean. Sceglie allora Molière, in omaggio ad un suo amato scrittore.
Ma nessuno di noi, come ci ricorda il noto psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, può darsi un nome da sé. Non funziona. Il nostro essere al mondo è inscindibilmente legato agli altri: sono gli altri a sceglierlo per noi. Noi però possiamo fare qualcosa di autenticamente nostro di quello che ci hanno dato gli altri. Questo è lo spazio in cui può muoversi la nostra libertà. E questo è il dissidio dell’autore che trova riflessi nel microcosmo di Alceste, che sua volta traspone nel macrocosmo sociale in cui è immerso ma dal quale prende risolutamente le distanze. La sua prossemica è eloquentissima. E tremenda.
Ma come è irresistibile, invece, la vicinanza che comanda il sentimento amoroso ! Soprattutto se ci si innamora della donna più irresistibilmente ribelle alle manipolazioni. Che ha un modo tutto “suo” di riconoscergli quell’unicità che lui tanto reclama. Un’unicità che non esclude la relazione vitalizzante con il tutto. Una corte (quella per lui) che non esclude l’appartenenza ad una corte sociale. Un’innocenza, che non esclude l’indecenza.
Mentre lui per la sua bella non si farebbe tentare nemmeno dall’avere in cambio Parigi. Ma quanti sottotesti si celano dentro dentro “la speranza” ! E quanto queste contraddizioni ci sono vicine anche oggi ! Quanto ci fa bene riportarle in scena, assecondate e contrastate dalla sinergia del contrappunto della drammaturgia musicale ( di Michele Tadini) e della drammaturgia delle luci ( di Fabrizio Ballini) !
Di grande bellezza l’uso delle tende che, come disponibili quinte – anche della nostra interiorità – creano magnifici primi piani o suggestivi campi lunghi.
Ma di sublime poesia è l’attenzione alle aree più misteriose: quelle dove si muovono soprattutto i due servitori (Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul) . Lì la luce delle ombre, regalata dai candelieri, disegna interni dalla raffinata malinconia, propria dei pittori della scuola danese. Rapisce la naturalezza dell’eleganza coreografica dei due servitori (la cura del movimento è di Isa Traversi), dove nel più anziano (il Basco di Andrea Soffiantini) viene spontaneo ritrovare echi del First cechoviano .
Di lacerante intensità la prova attoriale dell’Alceste di Luca Micheletti. Il nero di cui si ammanta sa raggiungere le tonalità più assolute del vantablack, lasciando trapelare la tenerezza trasparente dell’ossidiana.
Angelo di Genio (Philinte), Luca Micheletti (Alceste) e Corrado D’Elia (Oronte)
Persuasivo il Philinte di Angelo Di Genio sulle dinamiche che possono generarsi all’interno di un rapporto di amicizia che, seppur fondato sulla fiducia e sulla nitidezza intellettiva – cromaticamente espressa e riflessa dal colore grigio – sa accogliere l’opportunità di un sano tradimento.
Interessanti i contrasti – che non escludono consonanze – sviluppati tra i rivali in amore. In primis, il carismatico Oronte di Corrado D’Elia, colmo dell’intensa energia del viola melanzana. Ma anche lo styloso Clitandro di Filippo Lai, dal crine platinato e dallo charme che si sprigiona proprio da quell’esotico “punto di rosa”. Senza dimenticare il sofisticato Lacasta di Vito Vicino : fasciato dall’eleganza dell’ambiguo ottanio.
Luca Micheletti, Filippo Lai (Clitandro) Matteo Delespaul, Vito Vicino (Lacasta), Angelo Di Genio
Illuminanti i contrasti e i cedimenti amorosi propagati dall’universo femminile, declinato nelle sue innumerevoli sfumature. La Célimène di Marina Occhionero è resa tutta nella sua miscela di volubilità e di pragmatismo. Splendidamente quindi si bea del mix esplosivo racchiuso nel verde di Scheele, che così bene la rappresenta.
Un’avvolgente connubio di saggia pacatezza con note di euforia connota l’ Eliana di Maria Luisa Zaltron. Una lucente acquamarina che sa che amare qualcuno significa accogliere anche i suoi difetti e quindi saper perdonare.
S’ammanta di giallo orpimento l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti che come il colore che la rappresenta sa rendere la luce affidabile dell’oro, scevra dalla sua nobiltà.
Completano l’efficacia del cast, il Du Bois di Pietro De Pascalis: una presenza enigmatica che fin dall’inizio teniamo a mente per il suo ambiguo far capolino dalla porta finestra di scena, unica apertura verso l’esterno del condominio psichico di Alceste. E un accurato Francesco Maisetti nel ruolo della Guardia.
Una traduzione registica – quella di Andrée Ruth Shammah – appassionatamente incuriosita da tutte le manifestazioni dell’animo umano e quindi scevra da giudizi.
Perché questo è il Teatro.
Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti il 30 Agosto ha ricevuto a Sirolo il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – come Migliore Attore protagonista de “Il misantropo” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, con la seguente menzione di merito:
“Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste, protagonista di questo “Misantropo” di Molière che rivendica un ideale d’onestà e purezza di cuore; interpretato in modo magnifico e convincente da Luca Micheletti, che duetta con gli altri personaggi della commedia in una specie di partitura polifonica dalla quale emerge e giganteggia la sua granitica padronanza del mezzo espressivo e la sua capacità di danzare dentro il verso. Diretto magistralmente da Andrée Ruth Shammah, che ne firma una regia moderna e attuale, riconsegnandoci la modernità di questo grande classico che rispecchia il mondo di oggi, con i suoi compromessi e le sue contraddizioni“.
Cosa c’è di più stimolante e di più vitale di un curioso accidente ?
Di uno, cioè, di quegli incontri ( perché questo è quello che Goldoni chiama un “accidente” ) che all’improvviso ci scombinano l’abituale e noiosamente confortevole tran tran delle nostre giornate.
Un “accidente” che si origina con la complicità della tensione più fertile di cui disponiamo: la “curiosità”. Colei, cioè, che ci spinge a prenderci cura di ciò che ci accade. Lei, così sollecita nell’investigare, è il piacere di conoscere e di accrescersi nel sapere. E quindi, ciò che più autenticamente ci permette di dare continue svolte alla nostra vita.
E forse anche per questo motivo, acutamente il Lavia-regista sceglie di aprire lo spettacolo con un inno al Teatro, quale luogo dei continui nuovi inizi. Sia per gli interpreti, che per gli spettatori.
E ancora, è sempre per sensibilizzare il pubblico a questo concetto di Teatro, che Lavia in collaborazione con il Teatro Argentina decide di lanciare, prima della messa in scena della programmazione dello spettacolo qui a Roma, un contest sui social network – #curiosoaccidente – premiando coloro che avrebbero meglio tradotto in una “storia di Instagram” il proprio curioso accidente più significativo. Una poltrona sul palco il premio: sì, poter sedere insieme a una trentina di altre persone all’interno di una mini platea, allestita proprio su un lato del palco. Una geniale forma di teatro nel teatro: un nuovo inizio, appunto. Un nuovo inizio dentro continui nuovi inizi.
E i nuovi inizi infatti non finiscono qui: c’è anche un Lavia-narratore esterno, infatti, che desidera mettere gli spettatori a parte di quei significati reconditi, celati nel “a chi legge” di questa commedia. E così scopriamo che il Caffè della Sultana, il luogo in cui si narra si fosse raccontato di questo curioso accidente della commedia come fatto realmente accaduto, in realtà non è un luogo. Piuttosto è un particolare modo di fare il caffè: un rituale di ospitalità, di apertura alla vita e ai suoi nuovi inizi. E la Sultana- ci confida Lavia- è una misteriosa e affascinante donna tutta da scoprire. Lui, infatti, non va oltre e rimanda a noi la curiosità di esplorare e sciogliere il mistero.
Lo stesso Goldoni proprio con questa commedia “inizia” a distaccarsi dalle stereotipate maschere della commedia dell’Arte dando vita a personaggi multi sfaccettati, proprio perché sottoposti alla casualità assurda della vita reale.
La scena riproduce con magnifica essenzialità la rete delle casualità tessuta dalla vita. E da noi stessi. Tutto è a vista eppure tutto cela nuove sorprese. A partire dai bauli, per arrivare al sipario, posto dove meno ce lo saremmo aspettato: dietro la platea sul palco. Passando, poi, per il camerino a vista di Lavia: luogo di meravigliosi nuovi inizi. Il tutto collegato da un’obliqua struttura lignea: cielo di possibili congiunture.
Gabriele Lavia (Monsieur Filiberto)
“Nudi” anche i personaggi: entrano vestiti in un casual total black contemporaneo e solo successivamente vestono una seconda pelle: quella del robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento. E a colorarsi di volta in volta di un’emozione diversa. Nessun robone è infatti di un colore unico ma è costellato da una miriade di colori. Da “accendere” di volta in volta, a seconda del sentimento chiamato in causa.
Simone Toni (Monsieur de la Cotterie) e Federica Di Martino (Madamigella Giannina)
L’amore, ad esempio, è il “curioso accidente” per eccellenza: accende, acceca e fa delirare. E così “apre”, causa quell’imbarazzo che ci provoca, ad una serie di congiunture diversamente assurde. L’imbarazzo è un rimanere “allacciati”, cioè impacciati, nel disagio e nell’incertezza e proprio questo senso di costrizione, o ci paralizza o ci “slaccia” verso tentativi di compensazione emotiva.
Un momento dello spettacolo “Un curioso accidente” di e con Gabriele Lavia
Questa leggiadra commedia, infatti, è tutta costruita su una rete di equivoci, che permettono allo spettatore di “compatire” i personaggi, per la spontanea immedesimazione che ne scaturisce. E insieme di prendersene gioco, e quindi di divertirsi, non appena l’immedesimazione si alleggerisce del senso di vergogna.
Federica Di Martino e Gabriele Lavia
La regia di Lavia rende limpido allo spettatore il lavoro del cercare nuovi inizi emotivi da parte di ciascun personaggio, anche i più sicuri e quindi ancorati al rassicurante ménage dei costumi etici del passato. Lo percepiamo dai toni della lingua, dai gesti, dalle posture: tutti in bilico tra un prima e un dopo. Come avviene per ogni “inizio”.
E questi “passaggi” suscitano ilarità nel pubblico: anche la risata, infatti, è un modo per liberarsi, slacciarsi, dall’imbarazzo di un nuovo aprirsi. Lasciandosi attraversare. Splendido in poesia questo “cercare poetico” degli attori, che rende credibilissimo ogni loro sentire. Emergono Federica Di Martino e Simone Toni ma anche Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe e Leonardo Nicolini. Brilla e si libra – anche in un atletico ripetuto rotolare a terra – Gabriele Lavia.
Federica Di Martino
In questa capacità di sperimentarsi e quindi di aprirsi agli accidenti della vita risultano più audaci le donne. E’ la natura che le predispone: la loro psiche è più aperta all’entrare in relazione, al mettersi in gioco, al rischiare. Gli uomini invece tendono ad essere molto cauti e quindi a sottrarsi al rischio. Insomma, non decidendosi a rompere le uova, non arrivano facilmente a “fare la frittata”. Ma “la vita comincia ogni giorno” e forse anche più volte al giorno.
Perché “la felicità è pura follia”.
Uno spettacolo avvincente e propiziatorio.
Uno spettacolo che nell’invitarci a “slacciarci” alla vita, ci salva.
Ci salva cioè dalle rigidità di pensiero e dall’esasperato individualismo che avvelenano la nostra quotidianità. E che, in un crescendo, portano agli orribili scenari di guerra che stiamo attraversando. Scenari che si sono trovati a vivere anche i personaggi di questa commedia, ambientata durante la Guerra dei sette anni (1756-1763): la prima guerra mondiale della storia.
Nietzsche la chiamava l’arte del “saper tramontare al momento giusto”.
E di questa arte seppe ben disporre Memo Benassi: colse infatti che quel “momento giusto” per lui arrivò quando a 63 anni si sentì spiato in camerino da un giovane Glauco Mauri, appena diplomato. Lo convocò allora per passargli in dono la giacca che lui aveva indossato recitando l’Oswald de “Gli spettri” di Ibsen. E sulla cui spalla, la Duse era solita piangere. “Tienila da conto” – gli disse – “a me inizia ad andare stretta”. Così avvenne il passaggio: l’inizio della trasmissione di un’eredità immateriale.
Memo Benassi e Glauco Mauri
Arrivare a spiare Benassi in camerino, dopo averlo potuto veder recitare e provare sulla scena, significa qualcosa di speciale: che al giovane ed acuto Glauco Mauri non sfugge quel qualcosa “di immateriale” insito nella capacità attoriale di Benassi. Qualcosa che al giovane Mauri risulta ancora irresistibilmente irraggiungibile. E proprio per questo andava seguita, spiata. Per osservarla bene, entrarci in contatto, lasciarcisi attraversare e così in qualche modo gradualmente afferrarla, facendola propria. Come un amante farebbe con la sua amata.
D’altro canto, accorgersi di essere spiato da un allievo, per Benassi era la prova che proprio a quell’ allievo poteva essere consegnato il suo “patrimonio immateriale dell’attore”. In lui, in Mauri, la sua eredità sarebbe stata in buone mani e avrebbe prodotto molto frutto.
A sua volta Glauco Mauri, anni fa, ha donato proprio questa giacca al suo Roberto Sturno. Inseparabili, loro, anche ora che Sturno se ne è apparentemente andato. A lui Glauco Mauri dedica tutto lo splendore di questo progetto. E lo fa personalmente, salendo sul palco a fine spettacolo: commosso e felice. Forte di questo sodalizio immateriale ma trascendente.
Glauco Mauri e Roberto Sturno
E’ allora in omaggio a questa antica pratica pedagogica che il progetto che ieri sera è approdato alla sua conclusione prende il nome “Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore”. E rappresenta il tentativo di recuperare il sistema di trasmissione del mestiere immateriale dell’attore.
Attualmente, infatti, uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in questo breve tempo non c’è modo di “sperimentare”, cioè di accompagnare i processi creativi degli attori. Si può solo replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli, che così si esauriscono in una manciata di rappresentazioni.
Serviva ed è stato trovato così un “luogo protetto”, com’è quello offerto da questo progetto ricco e ambizioso: carico di un patrimonio artistico ed emotivo da recuperare nell’antica cultura artigiana del teatro. Non un semplice progetto formativo quindi ma, come avveniva una volta, vitali esperienze del teatro di tradizione e del teatro di ricerca del Novecento.
Già Mejerchol’d sognava un luogo protetto, svincolato cioè dalle urgenze produttive, dove fosse possibile per gli attori creare forme sceniche e soluzioni interpretative. E l’Università può offrire questa opportunità.
Il Nuovo Teatro Ateneo
Il progetto curato infatti dalla Compagnia Mauri Sturno e finanziato dal MIC ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza, che fornisce oltre al supporto logistico anche una consulenza culturale sia attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo, che attraverso il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie – del Dipartimeto di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. Dipartimento diretto dal Prof. Guido di Palma.
Il prof.Guido Di Palma
“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura né tantomeno solo ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni diverse”.
Lo stesso Eduardo De Filippo, assiduo frequentatore del Teatro Ateneo, sosteneva che la tradizione, se la si sa usare, è un trampolino per saltare più in alto.
Ieri, un’insolita – e ben augurale – apertura serale del Nuovo Teatro Ateneo ha atteso e accolto il ritorno, e quindi l’approdo, dei viaggiatori partiti alla ricerca, alla scoperta e quindi al raccordo con quel sapere immateriale dell’attore, che rende così prezioso il lavoro a teatro. E nella vita. Un lavoro non solo tecnico ma anche etico ed estetico.
Al fine di rendere più fulgidamente puro il lavoro di ricerca svolto, i promotori del viaggio hanno scelto uno spazio e un corpo “nudi”, cioè scevri da tutto ciò che avrebbe potuto falsare il nuovo “habitus” acquisito dai giovani attori. Quindi niente scenografie, niente musica, niente costumi (solo abiti normali) e niente trucco.
Marco Blanchi
E proprio come William Shakespeare fece in quel magnifico inno al potere dell’immaginazione che è il Prologo all’ “Enrico V“, così anche Marco Blanchi – curatore dell’atelier didattico assiema a Danilo Capezzani ma ieri sera anche nella veste di presentatore dei singoli lavori – ha invitato gli spettatori in sala a far ricorso ciascuno alla propria immaginazione, per visualizzare più adeguati scenari ai frammenti delle 12 opere, che questi “nuovi” interpreti portano in scena.
Non a caso, proprio il Prologo all’ “Enrico V” dà l’avvio alla restituzione. Viviana Feudale, l’interprete, ci restituisce tutta la meraviglia contenuta nell’ebbrezza del saper immaginare. Tutto in lei è meraviglia, tutti i suoi sensi ne sono predati. Ed è contagio.
Si passa all’ “Edipo re” di Sofocle dove di Pietro Bovi (Edipo) e di Luca Lombardi (Tiresia) ci arriva il particolare fascino delle loro vocalità. E di Tiresia l’eloquenza degli occhi bendati, unita alla vitalità del bastone al quale si sostiene.
Arrivano poi Kostja (Giuliano Bruzzese) e Nina (Marta Cirello) de “Il Gabbiano” di Anton Cechov. Lui sembra la diteggiatura nervosa e tormentata di un pianista, tanto si nutre di inquietudine. Lei fa della voce, e quindi del suo animo, quello che farebbe un’equilibrista sul filo: l’elogio del disequilibrio. Entrambi così spazzati dal vento e insieme così in sintonia.
E poi “I fratelli Karamazov”di Fëdor Dostoevskij: dell’Ivan di Antonio Greco e dello Smerdjakov di Francesco Leonardo Marchionne rifulge il tavolo dei silenzi, preludio alle loro diversamente mefistofeliche ed allucinate esplosioni disperate.
Si passa all’ “Antigone” di Jean Anouilh: luminosa la tensione tra la sensualità androgina di Francesca Trianni (Antigone) e la morbida persuasione di Sofia Guida (Ismaele). Resta il sapore appagante di quando un confine riesce a diventare un punto d’incontro.
Scintille tra La Caterina di Beatrice Lotti e il Petruccio di Davide Varone de “La Bisbetica domata” di William Shakespeare. La selvatichezza di lei si carica di un sentore profumato quando accolta dalla disponibilità di lui a interagire fertilmente con la follia del femminile. Seducentemente comici gli a parte di Petruccio.
E poi l’autenticità tipicamente britannica dell’apertura alcolica del Jamie di Roberto Castello così come della serrata chiusura del rigido e sobrio Edmund di Giuseppe Fedele, in “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill.
E ancora “Finale di partita” di Samuel Beckett. Due fenomenologie dell’aspettare: quella statica e da contatto di Hamm (Francesco Zaccaro), un’attesa cioè da immaginare, protetto dietro lenti colorate e a specchio e poi quella diversamente intrepida di Clov (Antonio Greco) . La sua è l’attesa che s’immagina dietro le lenti “altruistiche” di un piccolo cannocchiale e che tanto ricorda l’attesa della Compagnia della Contessa da parte di uno degli Scalognati de “I giganti della montagna” di Pirandello.
Arrivano invece “Gli innamorati” di Carlo Goldoni. Un Pietro Bovi (Fulgenzio) decisamente incline a seguire l’imprevedibilità tutta femminile dell’Eugenia (Virna Zorzan). Nonostante la tentazione maschile ad arroccarsi, Fulgenzio lascia anche libera uscita al suo proprio femminile. Ammiccanti gli a parte.
Seguono alcuni “Sonetti” di William Shakespeare resi prevalentemente a tinte calde dalla lettura interpretativa di Davide Varone, laddove Antonio Laurino sembra prediligerne le tinte più fredde. E a seguire le “Lettere a Pierre” (dal Paolo Pini di Affori) di Alda Merini rese dalle diverse note della struggente e folle sensibilità di Enrichetta Ranieri Martinotti e di Costanza Maestripieri.
A completamento il “Macbeth” di William Shakespeare: fertile la profonda sensualità vocale della Lady Macbeth di Sofia Boriosi, così come il fascino della decadenza posturale del Macbeth di Luca Lombardi.
In tutti i ragazzi evidenti “riflessi di perla” che, se ancora pazientemente levigata per anni, emanerà progressivamente una lucentezza prima segreta. “Perla” come concetto di “maestria”, che la metafora di Tanizaki Jun’ichirō così mirabilmente esprime.
Si aprono delle porte: è un insolito sipario che cela ulteriori porte e ulteriori profondità. Sarà un invito a castello? Oppure un luogo della psiche? O forse l’adescamento in una trappola luminosamente accecante, dove rischiamo di venir risucchiati ?
Il regista Luca Ariano – anche curatore del progetto (assieme a Pietro Faiella) e della scenografia (con la collaborazione di Alessandra Solimene) – pensa progetta e realizza uno spazio per la messa in scena del suo spettacolo, tale che lo stesso spettacolo e lo stesso spettatore ne possano essere pensati. È un lampo di genio che colpisce il cuore del bersaglio: il pubblico. Totalmente.
Luca Ariano
Infatti, immerso all’interno di un calibratissimo gioco di volumi, di prospettive e di effetti cromatico-luminosi (la drammaturgia di quest’ultimi è di Max Comincini), lo spettatore viene inguaribilmente pluri-sedotto. Dapprima da un bianco “che più bianco non si può” – come recitava tempo fa il pay off dello spot pubblicitario di un noto detersivo per abiti. Ma che inconsciamente alludeva già anche alla pulizia dei nostri “habiti”, cioè dei nostri costumi, dei nostri modi di fare.
Sì, il bianco ci seduce: ci porta dalla sua parte, ci fa suoi. Ma il bianco solo apparentemente rappresenta il colore della purezza: cromaticamente è la somma di tutti i colori, e per estensione metaforica, di tutte le emozioni, di tutte le pulsioni, del bene e del male. Mescolanza, quindi: non purezza.
Come la drammaturgia cromatica e luminosa rivelerà a fine spettacolo quando, le profondissime angosce di Riccardo III emergeranno dal suo sottosuolo emozionale e lo porteranno a smarrire il suo ferreo “controllo”. Allora, proprio qui, il bianco assoluto che lo ha sempre avvolto si spaccherà in mille colori. Un effetto dalla sublime bellezza!
Alcune opere dell’artista Elisa Leclè, curatrice dei costumi dello spettacolo, esposte negli spazi di City Lab 971, in occasione della messa in scena del Riccardo III di Luca Ariano
Ma poi che cos’è la purezza? Siamo davvero sicuri che sia così sano anelarvi, sceglierla, assecondando una nostra (innata e fuorviante) spinta a “sembrare” sempre lindi ? La nostra natura umana in verità dà il meglio di sé proprio riuscendo a fare un libero e consapevole uso dell’imperfezione che comunque ci costituisce.
E allora, proporre e propagandare subdolamente il concetto opposto idealizzandolo, non sarà un inganno di chi – invece consapevole – decide di solleticare proprio questa nostra fragile tendenza tutta umana per controllarci, per portarci dalla sua parte, per sedurci, in realtà saccheggiandoci?
Anche di questo riesce a parlarci con un’elegante evidenza fluorescente questo splendido spettacolo del regista Luca Ariano, che si avvale della potente complicità di un corpo attoriale capace di restituire allo spettatore una verità senza filtri. A tutto tondo: riuscendo a liberare le innumerevoli sfaccettature proprie dei passaggi emotivi dei personaggi.
E rapisce, per l’efficace suggestione, la scelta di dare ampio spazio ad una resa recitativa “di taglio”: sul piano del profilo. Il nostro profilo, infatti, è l’immagine di noi che conosciamo meno. Eppure il disegno del nostro profilo ci rappresenta inequivocabilmente. Acuto e interessantissimo si rivela quindi il dualismo portato in scena tra frontalità e profilo dei personaggi: un denso simbolismo di luce ed ombra che si staglia mirabilmente negli occhi dello spettatore.
E poi, terribile e struggente, seduce la recitazione affidata all’espressività delle mani. Associate da sempre al potere, alla forza, alla lealtà, all’amicizia e alla fiducia, le mani celano una ricchissima simbologia. Le nostre mani parlano. Con le mani diciamo chi siamo e lasciamo emergere cosa si muove dentro di noi. E gli interpreti in scena – Roberto Baldassarri, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser – ci incantano. Su tutti brilla Pietro Faiella: un irresistibile Riccardo III. Un autentico “acrobata dello spirito”.
Pietro Faiella
Parte essenziale della drammaturgia, il linguaggio dei costumi. Dall’estro di un’artigiana della moda qual è Elisa Leclè prendono forma abiti che, oltre a sedurci per l’essenziale e alchemica raffinatezza delle linee, ci rivelano anch’essi l’ondivaga natura dei personaggi. Sono dettagli che parlano attraverso ciò che manca, attraverso ciò che stringe e dove stringe: dove si blocca l’energia vitale, l’azione, lo spirito critico. E poi i colori scelti: un’accecante tirannia nevrotica del total white per Riccardo III e le sfumature minerarie dei grigi e dei beige per le sue prede. Tinte del compromesso e della prudenza.
Uno spettacolo che ci parla non solo e non tanto della pericolosità di personalità seducentemente dittatoriali quali quella di Riccardo III ma della pericolosità di restarne abbagliati. Il problema non è tanto che ci sia stato o che ci possa essere un Riccardo III; il vero punto della questione è se e quali sono le condizioni che permettono continue ascese al potere di tanti Riccardo III .
Oltre ad affermare di aver subito tali ascese, siamo sicuri di non essere proprio noi ad alimentarle, a renderle possibili? Perché non siamo semplicemente chiamati ad accettare un invito: è in nostro potere dare forma ad un pensiero critico. Ma la libertà, in verità, nasconde un’ombra: desiderare affidarsi ad altri consegnando loro il peso dello stare al mondo. La nostra natura umana è fatta anche di questa tensione: esserne consapevoli è il primo passo per evitare di cadere nella falsa ma rassicurante trappola di coloro ai quali noi affidiamo il nostro potere.
Questo spettacolo oltre ad essere superbamente curato in ogni suo aspetto si assume la cura e quindi la responsabilità di parlarci, al di là delle parole sublimi di William Shakespeare, del pericolo sempre attualissimo nel quale rischiamo di cadere. La stessa installazione di Luca Ariano ne è una testimonianza: una messa in forma del mondo, estetica e comportamentale, come espressione della definizione mutevole delle relazioni tra l’individuo e la realtà.
Massimo Venturiello
Lo spettacolo é prodotto da “Officina Teatrale” di Massimo Venturiello e sarà in scena a Roma, dal 3 al 15 ottobre, negli spazi di CityLab 971, ex cartiera, ex centro sociale, trasformato in luogo di produzioni cinematografiche e spazio artistico e performativo, in cui bellezza e degrado si confondono.
In occasione della messa in scena del Riccardo III del regista Luca Ariano, gli spazi di City Lab 971 esporranno le opere dell’artista e designer Elisa Leclè e dello studio d’arte “Biancofiore”, collettivo artistico impegnato nella riqualificazione e rigenerazione artistica degli spazi urbani.
Le opere dello studio d’arte “Biancofiore” nello spazio espositivo del City Lab 971