Recensione dello spettacolo ISMENE/ANTIGONE, La sorella minore – da “Pale Sister” di Cold Tóibín – adattamento e regia di Carlo Emilio Lerici –

TREND – NuoveFrontiere dalla Scena Britannica

– Rassegna ideata da Rodolfo di Giammarco –

dal 3 Ottobre al 17 Novembre 2024

TEATRO BELLI, dal 3 al 6 Ottobre 2024

Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.

E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.

Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo.  Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso.  Un uso creativo.

Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.

E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.

Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia –  le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento. 

Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita. 

L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo. 

Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione. 

Ismene non è solo preoccupata, lei “sente”  l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.

Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.

Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.

Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.

Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.

Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.

In scena al Teatro Belli fino al 6 Ottobre 2024


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA FABBRICA DELL’ATTORE: 50 ANNI DI (R)ESISTENZA – progetto, drammaturgia e regia di Manuela Kustermann –

TEATRO VASCELLO, dal 2 al 6 Ottobre 2024

E’ una meravigliosa “bimba” la Kustermann: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore.

Quello di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.

Quello che “la bimba K come Kustermann” alimenta in sé quale primitivo e prezioso linguaggio vitale, avendolo appreso incontrando e continuando ad amare Giancarlo Nanni: un uomo, un Paese delle Meraviglie.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore che – come fermento – si è ancora una volta sprigionato ieri sera tra le pareti del Teatro Vascello, fino a contagiare il pubblico in sala, trascinato come per incanto a bordo del viaggio-spettacolo. Una splendida rievocazione che ha celebrato i primi 50 anni di continua sperimentazione del Teatro Vascello. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore sapientemente restituito attraverso una scena caleidoscopica come un rullo fotografico; dinamica come un libro da sfogliare; segretamente doppia come uno specchio svobodiano.

Una scena dove luce e immagine si confermano elementi fondamentali della creazione dello spazio teatraleE dove – in un’immaginaria e potentissima continuità  – quel multiforme telo nero  che vestiva come “habitus” , prima ancora che come abito, i personaggi  allora in scena per “Il Gabbiano”, trova eco ora nella seconda pelle dei quattro testimoni in scena. Loro che sanno continuare ad “abitare” l’eredità di Nanni, facendo di un lutto “un risveglio”. Anzi, continui risvegli.

Una scena de “Il gabbiano” di A. Cechov regia di Giancarlo Nanni

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer

(ph. Tommaso le Pera)

Ecco allora che nella voce-corpo di Manuela Kusterman confluiscono – come colori di una stupefacente melodia – quelle di Massimo Fedele, di Gaia Benassi, di Paolo Lorimer e di Alkis Zanis. Voci che testimoniano e nutrono una memoria che suscita in noi del pubblico una grata e vibrante malinconia per quel rivoluzionario modo di fare teatro, il loro, che segnò un’epoca.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Loro la creazione di un nuovo linguaggio multidisciplinare che scelse di privilegiare “l’immagine” sulla “parola” e – proprio attraverso l’immagine – tenere insieme tutte le arti: teatro, musica, pittura, danza, cinema. Quella che Giuseppe Bertolucci definì “la scuola romana”.

Un teatro che sceglie di “provocare”: intellettualmente – ancor più che fisicamente – emozioni, turbamenti, domande. Lutti e risvegli. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che si nutre di immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescono a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti. 

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che “si visualizza” in spettacoli storici come A come AliceRisveglio di primaveraL’imperatore della Cina, solo per citarne alcuni, nati dall’arte maieutica di Giancarlo Nanni, che riusciva a far liberare a ciascun interprete frammenti della propria singolarissima creatività. Solo così, attraverso continue improvvisazioni, venivano rilasciate tracce di un inconscio collettivo che Nanni componeva in immagini visionarie. A lui infatti – che veniva dalla pittura degli anni Sessanta e Settanta della “scuola di Piazza del Popolo” (Schifano, Festa, Angeli, Kounellis) – non interessava tanto la recitazione quanto piuttosto il tentativo di composizione di un quadro visivo. Senza la pretesa di “compiere” un’unificazione finale, quanto piuttosto di “evocarla” attraverso la ricerca di sempre nuovi frammenti.

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Evocazione che ieri sera ha raggiunto la Kustermann nel ricostruire i frammenti più significativi che hanno dato, e danno, vita a questo magnifico quadro esistenziale – ancor prima che artistico  – in continua evoluzione che è stato ed è il Teatro Vascello.  E che si è rivelata una testimonianza storica davvero preziosissima. 

Imperdibile soprattutto per i giovani, che a differenza degli adulti non hanno potuto contagiarsi di quell’aria carica di elettricità creativa che animava la Roma di quegli anni.  

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Contagio possibile però ora, proprio grazie a questa straordinaria testimonianza, che si impreziosisce anche del film girato allora da Mario Schifano – e che la Kustermann ha fatto restaurare – relativo alla forza dirompente liberata da uno spettacolo quale fu “Risveglio di primavera” .

Una memoria storica – quella ripercorsa per salienti frammenti dalla Kustermann – che meriterebbe di essere “accolta” in un vero e proprio documentario.

Grazie.

Paolo Lorimer, Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo E D’OGNI MALE MI GUARISCE UN BEL VERSO (Farei parlando innamorar la gente) – Breve discorso su Dante, la poesia, il dolore e la vulnerabilità – di Fabio Stassi – con Franco Piana –

In collaborazione con l’Agenzia Letteraria ALFERJ

DOMUS AUREA – MOISAI 2024 Voci contemporanee in Domus Aurea – 27 Settembre 2024 –

Fabio Stassi ha una voce che sorride, una narrazione sognante e una tenerezza di quelle che lasciano il segno. E che non dimentichi.

Pensare che la tenerezza sia una vulnerabilità è improprio  perché la tenerezza è un sentimento che – potente senza essere prepotente – ci spinge oltre la superficie di noi stessi e degli altri. La tenerezza scende dentro e scopre. Ma non giudica. Non spreca troppa energia per il rancore, né per il narcisismo. Il suo è uno scuotere che ci fa resistere con calviniana leggerezza. Un’inclinazione da coltivare e di cui non aver paura, come ci sollecita a fare anche Papa Francesco

Forse è anche per questo che la casa editrice Sellerio chiede proprio a Fabio Stassi – scrittore, bibliotecario e paroliere italiano di etnia arbëresh – di immaginare e proporre poi al pubblico una conferenza sul potere terapeutico di Dante.

Non sarebbe stata la stessa cosa fatta da qualcun altro. Ma lui, non appena ricevuto questo invito, è colto dal panico – così ci confida. La tenerezza però lo libera, prima ancora che la fantasmagorica cultura di cui si nutre e che condivide con generosità. 

E allora accetta. E desidera – proprio come Dante – un compagno di viaggio: un suo Virgilio. Lo trova in Franco Piana: trombettista, flicornista, compositore e arrangiatore, uno dei più importanti jazzisti italiani.  Un uomo che sa fare un buon uso della malinconia: che ne è grato. Uno che apre il canto e che sa attendere, ascoltare, senza mai scegliere soluzioni ma piuttosto proporne il ventaglio dei possibili colori. Un po’ come in un setting psicoanalitico, nel quale anche noi del pubblico ci riflettiamo come in uno specchio. 

Franco Piana e Fabio Stassi

Perché se è vero – come è vero – che la parola è una magia, il tramite è dato dal respiro, dal ritmo e quindi dalla musica. Ecco perché la scelta di Fabio Stassi cade su un fiato, un ottone dal timbro caldo e pastoso con un buon virtuosismo tecnico – il flicorno – che musica il respiro della parola. Quella in movimento, quella di chi sta facendo un percorso, anche interiore.

Una parola che in quanto magia è terapeutica attraverso la ritualità delle ripetizioni, l’incastro degli endecasillabi e perfino attraverso le metafore delle avventure di Sigfrido, così amate dallo Stassi bambino.

Perché la parola, la letteratura, la scrittura ci liberano proprio per la loro capacità di metterci in contatto con la nostra fragilità. Che va guardata senza vergogna ma anzi con tenerezza. Così da poterla valorizzare in maniera creativa.

E’ quello che accade anche a Dante che – grazie allo scrivere – “ripristina o modifica le sue funzioni fisiologiche compromesse”. Un farmaco per lui che, fin dai primi anni di vita, è stato messo così a dura prova con i legami e più in generale con il senso d’appartenenza.

Franco Piana e Fabio Stassi

Dante – ci racconta con fascino onirico Stassi – tende a perdersi, a smarrirsi: ad appanicarsi diremmo oggi. E non riuscendo a trovare sul momento un orientamento, è solito fuggire nel sonno: si addormenta di colpo. 

Ma non se ne vergogna, anzi lo racconta a tutti nei suoi libri: racconta e analizza fin nei minimi dettagli – con una cura scientifica oltre che poetica – quello che gli succede. “Fraile” si definisce: una parola che acusticamente rimanda a una vulnerabilità ancora maggiore della parola “Fragile”.

Una “frailità”, la sua, che col doveroso affetto della pietà e della tenerezza Dante riesce a  tradurre creativamente in scrittura musicale di smisurata bellezza.

Perché grandi cose possono prendere vita dalla nostra vulnerabilità, dalla nostra intelligenza inconscia che si cela dietro a delle apparenti “impresentabilità”: quelle che siamo tentati di nascondere, vergognandocene, perché inefficaci. Tentati di affidarci a chi – in cambio della nostra intelligenza più creativa – demagogicamente ci promette la sicurezza del far parte di una massa tutta uguale e quindi informe in cui saremo accettati.  Prigionieri di quell’omologazione che mette a tacere il fulgore della bellezza delle diversità, necessariamente vulnerabili. 

Sala Ottagonale della Domus Aurea

Per una buona salute poetica e politica è necessario quindi allenare la nostra inclinazione alla tenerezza, al doveroso affetto che la pietà riconosce alla ricca fragilità di noi umani.

Non c’è cura dell’anima e del corpo, se non accompagnata dalla tenerezza che, oggi ancora più che nel passato, è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà” – ci ricorda Eugenio Borgna nel suo “Tenerezza“ (Einaudi 2022).

E anche Massimo Recalcati in ”Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore 2024) ci ricorda – già dalla prima prefazione al libro – che non salvaguardare l’esistenza della nostra intelligenza creativa inconscia “significa mettere in gioco un’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo”

E così, con la complicità di Fabio Stassi e di Franco Piana, ha trovato espressione ieri sera il canto della Musa Euterpe “ …che dona a coloro che l’ascoltano cantare letizia…” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica IV, 7.3). Un canto che è una carezza che, insieme, ci libera e ci unisce. Lì, negli insoliti vani del complesso della Sala Ottagonale, straordinaria macchina scenica creata dagli architetti Severo e Celere per rispondere al progetto visionario di Nerone. 

Uno spettacolo – questo di Fabio Stassi e di Franco Piana – prezioso, necessario, terapeutico.


Recensione di Sonia Remoli

Serata inaugurale della stagione 2024-2025 del TeatroBasilica, condotta da Antonio Calenda- ospite Alessandro Preziosi

TEATROBASILICA, 26 Settembre 2024

In una calda notte del settembre romano si è atteso con entusiasmo  l’inizio della Serata inaugurale della Nuova Stagione del Teatro Basilica.

Ad aprire i festeggiamenti, il saluto di Antonio Calenda, tra i più prolifici registi teatrali italiani, che nel 2019 ha partecipato alla riapertura dello spazio Sala 1 di Piazza San Giovanni – rinominato TeatroBasilica – dove tuttora collabora attivamente come supervisore artistico e dove ha presentato nel 2020 la sua interpretazione dell’ Enrico IV di Pirandello con Roberto Herlitzka. 

Roberto Herlitzka

Calenda ha iniziato col sottolineare il carattere di “cenacolo” di questa realtà teatrale: un luogo di ritrovo di artisti legati dalla tensione al confronto reciproco e impegnati nella celebrazione del rito del coniugare le radici della tradizione con gli slanci del teatro dell’avvenire.

Quest’anno – a suggello di tale inclinazione – prenderà vita un progetto con l’Università di Tor Vergata su Aristofane, partendo dagli studi del grecista di fama internazionale nonché specialista della drammaturgia greca Benedetto Marzullo. Di lui non si può non ricordare anche che – con la collaborazione di altri grandi intellettuali italiani di quegli anni tra cui Luigi Squarzina e Umberto Eco – nel 1971 creò il DAMS (Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) e lo diresse da 1971 al 1975.  

Anche quest’anno il TeatroBasilica  ha rinnovato la residenza ai giovani del Gruppo della Creta – ospitalità riservata a chi dimostra una particolare sagacia culturale – con i quali sono stati creati o selezionati gli spettacoli della stagione prossima all’inizio.

Un cartellone quello della stagione 2024/2025 che – sulla scia del padre della medicina Ippocrate – desidera rivalutare il valore terapeutico della frequentazione teatrale. Ippocrate infatti, per mantenere i suoi pazienti in salute, prescriveva loro di trovare il tempo di allontanarsi dalla vita quotidiana per recarsi nell’isola di Kos dove – oltre a riposare e magari anche digiunare – dovevano vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Tema centrale di questa sesta stagione del TeatroBasilica  – non a caso denominata “Persona” – è infatti una particolare attenzione e cura verso lo Spettatore in quanto personaggio, individuo, essere umano. Persona, appunto. 

Sono spettacoli di drammaturgia italiana proposti dallo sguardo dell’ultima generazione di teatranti. E proprio per questa particolare scelta vocazionale, il TeatroBasilica si sta affermando quale “spazio del contemporaneo su Roma”, con l’obiettivo di rendersi “bottega del teatro che verrà”. Saranno quindi ospitati per presentare la loro ricerca alcune delle compagnie più interessanti del teatro italiano del futuro come Greta Tommesani e Federico Cicinelli, il collettivo Be Stand, gli artisti di Labirion Officine Trasversali e il Gruppo RMN.

Greta Tommesani

Per la prima volta il TeatroBasilica si aprirà all’ospitalità di una compagnia internazionale: dal Belgio i Poetic Punkers presenteranno la loro ultima produzione “Mario e Maria”.

Poetic Punkers

Brilla poi all’interno di questa caleidoscopica stagione il progetto “La stanza dello Spirito e del Tempo” che proporrà incontri – condotti dagli artisti ospiti in stagione – che stimoleranno la comunicazione tra le pratiche e la comunità teatrale romana. Le giornate di scambio varieranno dai due ai cinque giorni e saranno distribuite per tutta la stagione. 

Archivio-MARCELLO-NORBERTH foto di-MARCELLO-NORBERTH

E poi ancora una cascata di eventi multidisciplinari: la mostra fotografica in memoria di Marcello Norberth; approfondimenti sulla geopolitica del Limes Club; presentazioni di libri; un evento letterario condotto dal geniale poeta e scrittore Davide Brullo; ascolti di musica elettronica curati da Marco Folco e ancora molto altro. 

Alessandro Preziosi e Antonio Calenda

A testimonianza della filosofia del TeatroBasilica, ieri sera ha preso corpo la rievocazione – di fulgente bellezza – di quel rito che alchemicamente sa legare le radici della tradizione agli slanci del teatro dell’avvenire.

Antonio Calenda ha scelto infatti di inaugurare questa sesta stagione del TeatroBasilica assieme ad un suo storico allievo: Alessandro Preziosi. Ed è stato entusiasmante sentire la qualità dell’energia che scorre ancora tra i due: una solida complicità che onora al tempo stesso la tradizione e il testimone critico.

Alessandro Preziosi è l’araldo nell’ “Agamennone” di Antonio Calenda

Calenda – che condivide con Preziosi il fertile fascino per il diritto giuridico (si è infatti laureato con una tesi in Filosofia del Diritto incentrata intorno al concetto di giustizia nell’ Orestea di Eschilo) – ha fin da subito colto nel giovane Preziosi la ricchezza del suo sguardo al testo teatrale: gli veniva dall’esigenza di un’analisi della battuta anche dal punto di vista  della “norma”. E sortiva una restituzione interpretativa plurisemanticamente fascinosa.

Alessandro Preziosi entra in scena onorando il teatro di Eduardo: non solo interpretando con raffinata suspence un brano tratto da “L’arte della commedia” ma facendo sua con vibrante originalità la massima eduardiana che “a teatro la suprema verità è la suprema finzione”. 

E regalandoci una splendida dimostrazione dell’arte dell’incredulità, sulla quale si basa il lavoro dell’attore. 

La serata è proseguita tra monologhi, piacevoli bizzarrie, arguzie e facezie mantenendo, fino a superarle, le aspettative di questa speciale ricorrenza. 

Dalla prima fila della platea si librava il fascino di due grandi ospiti: Francesca Benedetti e Paolo Bonacelli, onorati dall’amorevolezza del ricordo dei due protagonisti in scena.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MALEDETTO NEI SECOLI DEI SECOLI L’ AMORE – dal racconto di Carlo D’Amicis – con Valentina Sperlì – regia di Renata Palminiello –

TEATRO LE MASCHERE, dal 24 al 26 Settembre 2024 –

Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea “Le voci del presente”

– dal 4 Giugno al 10 Ottobre 2024 –

Che cos’è “normale” ?

Che cosa significa che “è normale” che un uomo in coma reagisca a degli stimoli verbali?

Cos’è che fa reagire un uomo – o meglio un cadavere immerso in un sonno letargico – agli stimoli di una presenza fisica al suo cospetto?

“Sentire di essere desiderato dal desiderio dell’altro”, risponderebbe Jacques Lacan.

Perché percepire il desiderio dell’altro ci fa esistere, ci dona un’identità, un valore. E’ un lievito che ci fa vibrare, ci rende tonici: evita il nostro appassimento nell’indifferenziato sopravvivere.

Ed è un po’ anche l’effetto che la perversione seduttiva del desiderio dell’uomo ora in coma è riuscito a sortire sul suo “irraggiungibile” oggetto del desiderio. 

Lei è Lady Mora: colei che ha indugiato nel ricambiare l’amore di suo cugino e che ora si scopre sedotta dalla sua assenza. 

Un’assenza che si materializza attraverso la consegna a lei delle “chiavi” della sua vita. Una vita che ora lui, con subdola raffinatezza, le permette di scegliere se “indossare” o meno.  Abbandonato l’inefficace e ronzante “tu sei Ninni mia”, ora lui si propone come colui che dona quello che non ha.

Lei inizia a parlargli solo perché così le viene detto. Ma parlare ha uno stupefacente magnetismo: la parola è la prima magia nelle mani dell’essere umano. Complice, qui, il pungente sperimentalismo linguistico di Carlo D’ Amicis: una scrittura, la sua, così iper-realistica da divenire quasi metafisica.  Generosa nello stanare tutti i sottostesti e le polivalenze lessicali di cui si gonfiano le sue parentesi tonde, custodi dell’essenza plurisemantica della comunicazione.

“Maledetto nei secoli dei secoli l’amore”, di Carlo D’Amicis, Manni Editori (2008)

La narrazione – affidata alla raffinatezza alchemica di Valentina Sperlì – brilla del potere dell’inaspettato: è la rottura dei piani del suo ritmo, associata a quella repentinità del felino gesto da pantera, a rendere l’ascolto irresistibile. Ecco allora che la presunzione inaspettatamente abdica alla meraviglia; il cinismo sfiora il piano della tenerezza; la ripetitività si scatena nell’improvvisazione. 

E, a qualche livello, Lady Mora scopre di essere disposta a rinunciare a galleggiare sulla superficie delle acque della vita – a differenza dei telespettatori che si rivolgono a lei, cartomante, quasi fosse l’Oracolo di Delfi – per incamminarsi in un profondo percorso di ricerca interiore. Dove si farà trovare nuda, senza difese, disponibile a disattendere ogni antico proposito difensivo di fuga.

“Unica e sola” sì, ma questa volta non nel senso di “insostituibile” ma in quello di “dannatamente sola”.

Non più la presunzione di essere “sole e luna”, quanto piuttosto la consapevolezza di essere drammaticamente irraggiungibile. Unica sopravvissuta. Privata di quella che credeva la sua identità privata. Manchevole.

Non più colei che – al di sopra di tutto e di tutti – detiene un suo cogito: guardo, penso, dico e quindi accade; non più una donna che accorre al capezzale di suo cugino, che non vede da 40 anni, spinta solamente dal senso del dovere. E maledice l’amore.

Ma una donna che finalmente si lascia raggiungere in qualche modo dall’amore. Un incontro, questo, che ora sta cambiando quello che considerava “il normale” andamento della sua vita.

Ora c’è tempo, c’è un nuovo tempo. E allora il suo corpo si muove, come stregato dal tintinnio di quelle chiavi, che lui ha messo nelle sue mani. Esce dalla camera dell’ospedale e va dalla Stazione Termini a Via delle Ninfee: da una chiusura, verso un nuovo inizio. Verso quel luogo dove lui, una volta smesso di inseguirla, si era rinchiuso: Centocelle. 

Perché l’amore è anche un’impostura, è anche una sopraffazione. Ce ne parla con sublimità il suo corpo che ora, finalmente raggiunto dall’amore, cerca di arroccarsi su quella poltrona di cielo. Ed è qualcosa di così insolito: una paura ma anche un che di desiderabile; una fuga mista a un desiderio di essere presa. 

E lei allora si lascia scivolare giù dal cielo fino a terra, fino a imbrattarsi tutta. Accorgendosi di non essere sola: con lei c’è “il testimone” della sua nuova esistenza: Zampa Furio.  Con lui scopre – proprio in quella “cella” dove si era ritirato a vivere suo cugino – un memoriale di tracce d’amore. Ovunque, su qualsiasi occasione di vita. Un luogo intriso di lei e a lei sconosciuto. 

Un luogo a cui finalmente dare ossigeno e in cui ricaricarsi. Un luogo che chiede di essere finalmente nutrito e tirato a lucido. Perché sente che questo luogo sconosciuto, le appartiene profondamente: parla di lei, è anche la sua dimora. 

La di-mora di La dy – Mora: dove “tu più ti allontani, più ti sento mio… Respirandoci”.

Renata Palminiello

La regia di Renata Palminiello rivela tutta l’essenza drammaturgica di questo racconto di Carlo D’Amicis. E ne fa, con la complicità di Valentina Sperlì, un’occasione di teatro fisico e coinvolgente, ispirato al teatro della crudeltà. Un teatro attento a cogliere – con una recitazione quasi intimista – le sfumature più recondite del testo.

Allo spettatore è richiesto, in qualche modo, uno sforzo nel collaborare nel ricostruire il racconto in scena: volutamente non tutto è chiaro e questa enigmaticità chiama ogni spettatore a fare un percorso personale, dentro le tracce seminate dall’interprete.

Perché il Teatro è un luogo che ci permette di vivere diversamente: un luogo che riesce a tirar fuori da ciascuno quell’indomita volontà di vita, che guida i sopravvissuti di ogni distruzione.  

Perché il Teatro ci fa sentire la nostra precarietà, connessa alla nostra inestinguibile capacità di amare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CHICCHIGNOLA di Ettore Petrolini – regia Massimo Venturiello –

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Il 10 Novembre 2025, nella solenne cornice della Sala della Regina – Camera dei Deputati

Massimo Venturiello riceve il Premio Petrolini

TEATRO SALA UMBERTO

dal 19 al 22 Settembre 2024

Un luccichio di sorrisi, di flash e di molteplici eccitazioni ha illuminato ieri la serata di inaugurazione della Nuova Stagione Teatrale alla Sala Umberto di via della Mercede, 50.

In scena la celebre commedia di Ettore Petrolini “Chicchignola”’ per la regia di Massimo Venturiello, con Maria Letizia Gorga e con (in o.a.) Franco Mannella, Claudia Portale, Carlotta Proietti e lo stesso Massimo Venturiello nelle vesti di un multiforme Chicchignola.

Lo sguardo registico di Venturiello sceglie di aprire lo spettacolo con l’ironico struggimento del “Tango romano” – brano musicale scritto a quattro mani da Ettore Petrolini e dal Maestro Angelo Burli. 

Il Maestro Burli e Petrolini

Nella seducente malinconia del ritmo binario è racchiuso un sogno che Chicchignola fa suo: vivere una nuova primavera, stagione della vita e dell’animo che dura sempre troppo poco – “un friccico” – ma che fa così bene “ar core”. Riviverla, sarebbe “un sogno d’oro”.

Con questo “prologo” – rivisitazione petroliniana del cliché erotico-sentimentale proprio del teatro di rivista – il regista Venturiello inizia a seminare tracce del filo conduttore che attraverserà tutta la commedia. 

La vita come l’amore è una danza, un tango, che si balla in coppia e dove – dicono i milongheros di Buenos Aires – “l’uomo conduce e la donna dispone e seduce”. 

Siamo intrecciati cioè, come i ballerini di tango, in un “dialogo” dove – anche senza condurre – si comunica all’altro con i propri spostamenti ( di peso ed emotivi ) il proprio respiro. Insieme a tutta una serie di informazioni, che diventano di ispirazione per i passi successivi dell’altro.

Massimo Venturiello

Così, la sagacia del Venturiello regista, ci invita a guardare la splendida commedia di Petrolini, che non a caso ebbe così tanto successo al tempo e ancora oggi non smette di intrigarci. Perché la sua drammaturgia ci legge, parla di noi, di come sia difficile entrare in relazione con noi stessi attraverso l’altro. Ma anche di come non possiamo farne a meno. 

Il sipario si apre infatti su un altro sogno, quello di Eugenia, compagna di Chicchignola: anche il suo sogno – come quello del suo compagno – parla di “oro”.  Ma le sue sono monete e non la fulgente inafferrabilità di un rinnovato sentimento amoroso. 

Massimo Venturiello

Lei si sente furba perché cerca, e crede di aver trovato, la sicurezza economica e reputa invece Chicchignola un fallito perché non la segue nel suo egoismo concreto.

Lui introduce allora un altro passo: non quello della furbizia ma quello dell’ “ingegnosità”, del talento a saper creare e, con perspicacia, saper superare sfide.

Ma lei, Eugenia, non lo segue nel respiro del suo passo “ingegnoso”, né se ne lascia ispirare per proporre qualcosa di diverso. No: apparentemente lo asseconda ma solo per poter intrecciare di nascosto un’altra danza con un nuovo ballerino. 

Perché alla fine – pensa lei – che valore ha un uomo che ama dare vita ad un gioco? Che senso ha produrre e aspirare a vendere qualcosa di immateriale, che non si mangia e che non dà granché da mangiare?

E così Chicchignola, in un mondo di presuntuosi furbetti, diventa ridicolo. 

Ma niente è solo come appare, perché le più disparate personalità vivono dentro di noi. E quella che appare è, spesso, solo quella che abbiamo scelto di far vedere: quella che riteniamo “più presentabile”, più furba, più efficace per essere accettati dai più. 

Sono i “sogni” a mettere in scena ciò che noi siamo davvero.

E Chicchignola sceglie di restare fedele, nonostante tutto e tutti, al suo sogno di una nuova primavera. E si diverte (amaramente) a portare alla luce con il potere delle sue arti – ovvero quella dell’ingegno, quella dell’analisi psicologica, quella della maieutica socratica nonché quella del relativismo pirandelliano – le nascoste identità di tutti.

Un po’ come sollevando le coperte, sotto le quali ciascuno nasconde le sue vere identità. Coperte che l’estro di Alessandro Chiti sceglie di utilizzare  per vestire la scena, realizzando piani diversi di uno stesso patchwork di conformismo.

Maria Letizia Gorga, Carlotta Proietti, Massimo Venturiello, Claudia Portale, Franco Mannella

In scena gli attori Maria Letizia Gorga (una penetrante Eugenia), Franco Mannella (un esplosivo Egisto), Claudia Portale (una dolcemente ambigua Lalletta), Carlotta Proietti (un’enigmatica Marcella) e Massimo Venturiello (un Chicchignola davvero ricco in carisma) volano con il ritmo, ci seducono attraverso il riso e così facendo rendono disponibili noi del pubblico a seguirli nel respiro dei loro passi. Restando loro, sempre in ascolto di ogni nostra reazione. 

Una danza, un tango, davvero irresistibile.

Un modo di fare teatro – allegro, selvaggio, guitto – e di continuare a difenderlo, nella sua essenza irrinunciabile di “dialogo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CARA UTOPIA di Maria Teresa Berardelli – con Claudia Crisafio – regia di Marianna di Mauro –

TEATRO LE MASCHERE, dal 17 al 19 Settembre 2024

LE VOCI DEL PRESENTE, Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea

Lei può fare tutto: ha il destino scritto nel nome.

Pasqualina é infatti colei che sa soffrire, postura esistenziale di chi prende sulle proprie spalle il peso del mondo e nel farlo si scopre vertiginosamente libera, in confidenza con la morte.

Pasqualina Losacco come il mondo, non si è fermata mai un momento, come la notte lei insegue sempre il giorno. Ed il giorno verrà.

E sarà quello in cui incontrerà un grande cuoco, così da diventare anche lei una grande cuoca. Le piace sopra ogni cosa cucinare e mangiare. Gode nel ripetere a mente i piatti che sa cucinare meglio: ricordarli la nutre, in tutti i sensi. 

Pasqualina Losacco ora ha 75 anni: per natura è raffinata come una regina e incarna un’anima che sa squittire. Ce ne parla un suo deliziosissimo ghigno, il suo musetto secco e appuntito, il suo passo piccolo e veloce e il suo curvarsi come per annusare la terra, avendo in testa un’acconciatura di nuvole inquiete.

E’ curiosa, coraggiosa e quindi intelligente. 

Perché Pasqualina è accorta, mette in campo una sorta di saggezza efficace e concreta, che si manifesta nel modo di acquisire e di utilizzare le conoscenze e nel gestire le situazioni in cui si trova. Anche le più traumatiche. La sua è l’attitudine a comprendere le cose nel loro profondo e nel loro contesto.  Gliel’ ha insegnata il suo sogno, quello di cui è impastata la sua essenza: saper ben “cucinare”, verbo cardine della nostra cultura.

Nel descrivere una trasformazione – quella delle materie prime non sempre commestibili, gustose o salubri da mangiare così come sono – l’arte del cucinare infatti ci parla  della necessità di preparare a “far entrare in relazione” gli ingredienti, realizzando ciò che serve alla vita.

Perché non è sufficiente procurarsi le materie prime, occorre “renderle fruibili”. Ed è di stupefacente bellezza come una necessità biologica si traduca in un’attività culturale, estetica e politica.

Chi sa cucinare associa, separa, assimila, valorizza le materie prime, dando vita ad un’alchimia. “Batti bene la carne – diceva la nonna a Pasqualina – che ti purifichi!”.

Perché l’alchimia culinaria è l’arte di separare le parti meno nobili di un alimento, di depurarlo, di perfezionarlo. Ed è una metafora profondissima che ci pervade. Chi cucina purifica “la propria materia” per estrarne l’essenza: saperla unire ad altri ingredienti significa raffinarla ma anche renderla umana, capace di relazionarsi con altro.

Una drammaturgia potente come un rituale magico; incandescente e insieme “teneramente commestibile” nel sapersi avvicinare al sentire del pubblico. 

Claudia Crisafio, l’interprete di Pasqualina, si lascia modellare ossa, tendini e deglutizioni dalle parole selezionate e “cucinate” da Maria Teresa Berardelli: parole conosciutissime ma di cui ora torniamo ad assaporare il fascino, così da lei trasformate, mescolate.

E allora la voce della Crisafio si fa sguardo per contagiarci della meraviglia dell’ineffabile : ed è evocazione. Oppure si fa gusto, per lasciar plasmare il corpo in una metafisica brama di vorace curiosità. Fino a che – come preziosa materia prima – tutto il suo essere arriva a lasciarsi disponibilmente dilatare oppure possedere da movimenti compulsivi.

Un’eccitazione di cui parla il virtuosismo delle sue mani, mosse da una misteriosa diteggiatura nell’atto creativo del dosare, del versare, dell’impastare, dello stendere e del provocare la lievitazione. Una coreografia maestosamente quotidiana. 

E’ l’acuta regia di Marianna di Mauro, la poesia del suo disegno luci, a rendere carismatico ogni istante, incarnando proprio nel quotidiano più ai margini la densità di un sogno. 

Un sogno “caro” come può esserlo “un’utopia”: preziosa, impegnativa e (apparentemente) ingrata. Cifra di un mondo assurdo ed equilibrato in cui ciò che più si ha di davvero caro non è caro, non è acquistabile. 

L’utopia è infatti il sogno di un non-luogo buono, di cui si sa tollerare bontà e irrealtà. Un idealismo spinto e ricco di valori, dove seppur dichiarare un profondo desiderio non necessariamente gli darà luogo, la fedeltà a quel desiderio avrà però un buon luogo di responsabilità nell’ universo interiore di ciascuno. 

Dentro di noi l’utopia non è bizzarra fantasia ma certezza matematica. Come in Pasqualina.

E con pazienza si potrà arrivare lontano: noi stessi siamo i figli dell’utopia di tanti che, saggi, non sognarono un mondo perfetto, ma un mondo migliore.

Uno spettacolo magnetico, energizzante, lirico, politico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CAMPO DI BATTAGLIA – regia Gianni Amelio –

Con

Alessandro Borghi

Gabriel Montesi

Federica Rosellini

 Film presentato all’ 81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica 

Quante forme può assumere il nostro slancio vitale, immerso nell’emergenza traumatica della guerra?

Nella cornice che si avvia a chiudere il Primo Grande Conflitto Mondiale e ad aprire il fuoco dell’attenzione sull’esplosione della successiva guerra pandemica della Febbre Spagnola, lo sguardo poeticamente lacerato di Gianni Amelio riesce a relazionarci alla guerra da un’insolita prospettiva: quella che la vede campo di battaglia tra inedite forme di slancio vitale.

Il regista Gianni Amelio

Il film si ispira, realizzandone un libero adattamento, al libro di Carlo PatriarcaLa sfida” e ha, tra le altre cose, il merito di riaccendere l’attenzione cinematografica sulle conseguenze – mediche ed esistenziali – provocate dalla guerra e dalla pandemia della febbre spagnola, che raggiunse il suo picco nell’ottobre del 1918. Un trauma di cui si è poco parlato al tempo, per vari motivi, non ultimo quello per cui all’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. 

Ma ogni trauma è tale proprio perché accade un evento per il quale le attuali risorse per affrontarlo non si rivelano più efficaci. E seppur immersi nel buio, ne vanno ricercate delle altre. Perché “sopravvivenza” non equivale più solo a “resistenza”. Perché diverse sono ora le paure e le aspettative. Perché mutando i confini della libertà, emergono necessariamente altre identità di noi stessi.

Ed è  all’interno di questo disperato campo di battaglia civile che desidera indagare il prezioso film di Gianni Amelio.

Gabriel Montesi (Stefano)

Stefano (Gabriel Montesi) è uno dei due ufficiali medici di un ospedale militare del fronte trentino-friulano. Pur dichiarando di essere ormai insopportabilmente insoddisfatto del lavoro che svolge, non ce la fa ad uscir fuori da questa situazione stagnante che lo sta spegnendo. E che equivale – proprio nel suo rimanere cieco e sordo a come si stia modificando il suo sguardo sulla guerra – ad una sorta di automutilazione del suo slancio vitale.

Federica Rosellini (Anna) e Gabriel Montesi (Stefano)

Un accecante senso del dovere verso la patria e verso l’appartenenza allo status borghese lo portano allora a riversare la sua insoddisfazione in una disamina ossessiva tra chi, dei malati ricoverati, “deve” tornare a combattere al fronte e chi invece “deve essere giustiziato” avendo mentito sul proprio stato di salute, traumatizzato dall’esperienza di guerra appena fatta. 

E’ un gioco di specchi quello che lui inconsapevolmente mette in atto: anziché prendersi cura dell’effettivo stato di salute fisica e morale dei militari, punisce e obbliga chi non dimostra (un ottuso) slancio vitale nel ritornare al fronte, per compensare il fatto di non riuscire lui stesso ad affrontare la guerra con lo stesso slancio iniziale. Il suo fanatismo politico si trascina dietro allora un fanatismo medico, pur di non trovarsi lui stesso faccia a faccia con la nausea che lo pervade e che gli parla della necessità, ora, di un cambio di slancio vitale.

Gabriel Montesi (Stefano)

Come se cambiare punto di vista significhi esclusivamente essere inefficienti e traditori. E non anche avere la capacità di rimanere in contatto con la natura autentica del proprio sentire, che necessariamente muta immersa in un diverso contesto socio-esistenziale.

E infatti non è un caso che l’ossessione verso l’efficientismo predisponga alla prepotenza tipica degli intolleranti, che attribuisce paranoicamente all’Altro le proprie responsabilità.

Impotente quindi di fronte all’ascolto del suo desiderare, e di conseguenza anche verso quello degli altri, Stefano si auto elegge allora allo status di un dio che ogni giorno – quasi come in un contesto da “giudizio universale” – si sente chiamato a giudicare tra Bene e Male. E soprattutto a ben separarli. 

Gabriel Montesi (Stefano) e Alessandro Borghi (Giulio)

Con Stefano, nell’ospedale militare, lavora anche un suo amico d’infanzia – Giulio (Alessandro Borghi) – dalla vocazione di ricercatore e che, anche sbattuto in prima linea, non può fare a meno di continuare a chiedersi cosa significhi “aver cura” degli altri ora, quasi al termine della guerra. La sua postura medica ed esistenziale ci parla del continuo essere in ascolto se il suo sentire resta confermato o se invece propone delle variazioni. 

Alessandro Borghi (Giulio)

Scopre così che ora non ce la fa a “giudicare” e a “separare nettamente” – come fa il suo amico Stefano – il Bene dal Male. E clandestinamente prova compassione per i soldati che si ritrovano a desiderare di mentire pur di non tornare ancora sul campo a combattere. La sua compassione – paradossalmente al concetto istituzionale di cura – si concretizza nell’amplificare, dietro consenso, le ferite di guerra dei soldati, ancora ricoverati ma “giudicati” ottusamente idonei al ritorno in guerra dal “dio Stefano”.  Così enfatizzata, però, la nuova non idoneità elimina ogni dubbio e di conseguenza legittima il congedo autorizzato dal campo di battaglia.

E così, un luogo deputato alla cura e alla riabilitazione finisce per rivelarsi – in un contesto fuori dall’ordinario com’è la guerra – il campo dove si gioca la battaglia tra chi insensibilmente non si cura delle ferite dell’anima oltre che di quelle del corpo e chi, per curare le ferite dell’anima, mutila ancor di più il corpo.

Federica Rosellini (Anna)

I due amici e colleghi saranno poi raggiunti a sorpresa da una loro compagna di studi, ora ridimensionata a volontaria della Croce Rossa – Anna – (Federica Rosellini): una studentessa troppo brava per essere donna e quindi per poter essere riconosciuta nel suo autentico valore anche di medico.  Una figura femminile “mutilata” nel suo slancio vitale ma che fino alla fine- nonostante tutto – riesce a non abbandonare la sua vocazione verso la medicina, accogliendola come un fertile enigma, anche esistenziale, dalle molteplici soluzioni. Un po’ come l’amore.

Federica Rosellini (Anna)

Quasi in sciopero dalle parole – sono in lei i silenzi a prevalere – è nei suoi occhi che lo spettatore può leggere tutta l’ondivaga sublime inquietudine che la abita. S’ intuisce che in passato fosse molto vicina a Giulio e così continua a fare ora. Scoperto il suo insolito slancio vitale verso “il concetto di cura”, dopo un iniziale tentennamento, sceglierà di seguirlo fino a farsi testimone della sua vita.

Federica Rosellini (Anna) e Alessandro Borghi (Giulio)

Un film, questo di Gianni Amelio, che contribuisce a guarirci dalla tentazione all’assuefazione che la guerra tende ad ispirarci. Un film che tonifica l’elasticità del nostro slancio vitale.

E che ci racconta come “il prendersi cura” – così come la democrazia – si fondino sul principio dell’instabilità, del pluralismo, del mediare, del tradurre, dell’accogliere e del comporre le differenze e le diversità. 

Un “prendersi cura” che non trova compimento una volta per tutte: la vita, la democrazia e la medicina non si danno infatti per sempre: sono il frutto di una continua ricerca.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo S_MEME di Flavia Di Domenico e Marina Vitolo – regia Francesca La Scala –

TEATRO PORTA PORTESE, 10 e 11 Settembre 2024 –

Rassegna ROMA COMIC OFF 2024 – “Il Festival del Teatro Off della Capitale” – dal 10 al 18 Settembre –

Frizzante ieri sera l’atmosfera al Teatro Porta Portese che ospitava l’atteso spettacolo – scritto e interpretato da Flavia Di Domenico e Marina Vitolo – intitolato “S_MEME” per la regia di Francesca La Scala.

Lo spettacolo è inserito nel programma della seguitissima Rassegna Roma Comic Off 2024 – il Festival del Teatro Off della Capitale – in scena dal 10 al 22 Settembre 2024

Un teatro – seppur ormai crollato – continua ad essere scelto da un’attrice come suo rifugio esistenziale.  Dimenticata da registi e produttori, anche la sua identità e la sua professionalità sembrano crollate. Stessa sorte scoprirà legarla ad una sua ex collega, che cercherà accoglienza proprio nello stesso teatro scelto da lei. 

Ma un crollo non è necessariamente solo una disfatta: può anche assumere il valore di una forte scossa, di un urto necessario per rivedere un certo punto di vista. Ed è quello che le due attrici – in passato acerrime rivali sulla scena – scopriranno. 

Marina Vitolo e Flavia Di Domenico in una scena dello spettacolo

Le due attrici nonché autrici del testo Flavia Di Domenico (Anna) e Marina Vitolo (Regina) – perfettamente a loro agio nel cercare e nel cogliere i giusti tempi comici altalenati a commoventi tinte drammatiche – trascinano il pubblico su travolgenti onde emotive.

Complice la cura delle scene, sapientemente esaltata da un raffinato disegno delle ombre, così come i contributi musicali scelti per sottolineare opportunamente alcuni snodi drammaturgici. La regia dello spettacolo è di Francesca La Scala.

Recuperata la complicità umana e professionale, le due attrici – profondamente bisognose (economicamente, umanamente e professionalmente) di attirare su di sé l’interesse di registi e produttori – si lasceranno incantare e manipolare da facili e ben remunerate occasioni di visibilità televisiva, anche se di scarsissima qualità. 

Diventeranno, grazie ad una rete di inganni costruita dapprima da loro stesse e poi, una volta sempre più “famose” dalla loro manager (Maya, interpretata dalla stessa Francesca La Scala), la brutta copia delle professioniste che erano. 

Francesca La Scala

Ma il destino continuerà a dare loro ancora una possibilità, proprio attraverso un altro “crollo”: per poter ricominciare tutto da capo. In maniera diversa.

Uno spettacolo travolgente che, grazie ad un esilarante coinvolgimento comico – opportunamente punteggiato da momenti di riflessione – pone l’attenzione su una situazione professionale pungentemente reale. 

E’ infatti necessario e urgente tornare ad investire nel Teatro, metafora del conoscere umano che, attraverso la moltiplicazione dei punti di vista, illumina la realtà in cui siamo immersi secondo prospettive diverse, sempre in dialogo tra loro. 

Perché il Teatro promuove il consolidarsi del pensiero critico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL BARDO, VIAGGIO NELL’IGNOTO di William Shakespeare – a cura di Mamadou Dioume – regia Gina Merulla

TEATRO FRANCIGENA di Capranica (VT), 8 Settembre 2024

IMPACT FESTIVAL 2024

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

Non ci sono scene: i loro corpi sono luoghi sempre nuovi. 

Non ci sono costumi: solo una seconda pelle nera esalta la lussureggiante policromia delle fibre della loro energia. 

Sono la splendente testimonianza di ciò che una concertazione tra il linguaggio della razionalità e quello dell’inconscia interiorità riescono a plasmare plasticamente a livello vocale ed energetico. 

In questo sublime viaggio verso l’ignoto shakespeariano, a dare l’avvio al percorso è un tema assai caro al Bardo perché a fondamento della psiche umana, di cui Shakespeare fu un fine conoscitore: il potere della relazione tra esseri umani e le sue infinite e naturalissime perversioni. 

Il gruppo di lavoro seguito da Mamadou Dioume – attore e collaboratore di Peter Brook nonché Direttore Artistico del Festival – e composto da Francesca Rafanelli, Francesca Mastroddi, Luciano Masala, Damiano Allocca, Lorenzo Colombo, Marco Chiappini, Antonella Prodon, Julia Tola, Fabrizio Ferrari – porta in scena allora, grazie al penetrante ascolto registico di Gina Merulla, anche Direttrice Artistica del Teatro Hamlet Associazione organizzatrice del Festival,  una coreografia di intenzioni che narrano di quanto bisogno abbiamo dell’attenzione dell’Altro. E del danno psichico che subiamo nel momento in cui si tramuta in indifferenza. 

Ecco allora prendere vita la magia dello sguardo, quello distratto e accennato, così come quello più attento e accogliente e che fa esistere, fino allo sguardo che si fa muro rigido e invalicabile verso la diversità dell’Altro. 

Ecco la delusione del restare esclusi, del non essere riconosciuti nel proprio merito e quindi tagliati fuori dal gruppo della socialità. Invisibili, inesistenti.

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

E poi dopo lo sguardo-muro, arriva l’a’ambigua calunnia manipolatoria che viene versata nelle orecchie e che accende le nostre reazioni più violente. Di cui siamo non sempre consapevoli, perché conoscere noi stessi e poi aprirsi all’attenzione del conoscere l’Altro implica il desiderio di intraprendere un viaggio di esplorazione umana, di cui non si possono sapere in anticipo le conclusioni. 

E’ il fascino proprio di un viaggio dentro di noi che osa muoversi verso l’ignoto, di cui le opere shakespeariane sono una preziosissima testimonianza. Scendono infatti nelle profondità delle dinamiche della psiche umana comprendendole e poi spiegandole a noi, attraverso un’analisi smagliante sui rapporti tra Teatro e Realtà. 

I drammi di Shakespeare sono intessuti di pulsioni alle quali non possiamo resistere ed è per questo che leggendoli abbiamo la netta sensazione che siano loro a leggerci fino in fondo. Perché il Bardo ha dato vita più che a ruoli teatrali a vere e proprie personalità, dove ogni personaggio è un tratto peculiare della natura umana. 

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

E la sinergia del testo shakespeariano associato o alternato al gesto del movimento coreografico, capace di parlare ai nostri occhi e di scavare dentro le nostre anime, ci ha rapiti e sedotti. Infiammati e turbati. 

Pur essendo uno splendido spettacolo dal punto di vista estetico, ciò che fa la differenza non è l’elogio della forma. Perché qui la forma è il risultato non tanto e non solo di un lavoro tecnico quanto di una disponibilità assoluta degli interpreti ad essere totalmente presenti in scena.

Arriva sottilmente o in maniera deflagrante al pubblico una complicità e quindi una fiducia ad aprirsi nell’esplorazione dei propri abissi interiori, incluso il proprio peggio. Che è ciò che ci accomuna tutti nella nostra condizione di esseri umani. E che solo conoscendolo, e magari provando a farci amicizia, potremo riuscire a rendere profondamente creativo. Divino.

La regista Gina Merulla

E’ ciò che parla dalle spalle degli interpreti, oltre che dai loro volti, nudi di ogni maschera di accettazione sociale; è la scelta prossemica che predilige gli angoli; il disegno luci che cerca il cromatismo delle ombre; il corpo-psiche che si affida alla rottura dei piani; le emozioni che si aprono a congelamenti, a repentine fluidità, a guizzi istintivi, a paludosità, a complicità o a contrasti musicali.

Sono occhi, sono denti, sono mani. Sono torsioni, sono blocchi, sono seduzioni animalesche che scelgono di non opporre resistenza alla forza di gravità.

E’ lo strano, è il diverso, ad andare in scena. E noi del pubblico ci sorprendiamo a trovarlo così naturale!

E’ ciò che emerge dalla straordinaria e quindi creativa e quindi commossa complicità del gruppo di interpreti in scena, nudi di fronte alla natura umana. 

Espressione della magnifica diversità di vari punti di vista


Recensione di Sonia Remoli