Dittico Fassbinder – KATZELMACHER e UN ANNO CON 13 LUNE – regia Leonardo Lidi

Ginesiofest, dal 20 al 25 Agosto 2025 , San Ginesio (MC)

“Il corpo è la nostra volontà”. 

In assenza di uno scenario sociale che orienti nell’indicare “da dove veniamo”, ciò che può dar vita ad un paesaggio in cui ritrovarsi sono i nostri corpi, le nostre volontà.

E così l’appassionato sguardo politico di Leonardo Lidi, onorando la poetica, la vibrazione creativa e la pulsione dei corpi che percorre l’intera e immensa opera di Rainer Werner Fassbinder (1945-1982), sceglie di mettere in scena il Dittico Katzelmacher e Un anno con 13 lune immergendolo nel presente. Complice un’accattivante coreografia di movimenti scenici – curata da Riccardo Micheletti – dove il corpo degli interpreti è paesaggio a loro stessi. 

Leonardo Lidi

Attraverso il moto dei corpi in scena e quella volontà che trasuda dai loro sguardi, allo spettatore arriva sempre più nettamente la sensazione di come il disagio dei ragazzi raccontati da Fassbinder riveli qui in Lidi non solo una subdola forma di violenza xenofoba ma anche un’ accorata richiesta d’aiuto. 

Un disagio, il loro,  che ci riguarda perché “questi corpi” sono il prodotto della società che li ha generati. E che, in determinati e ciclici periodi storici, torna a prendere tale forma. 

Leonardo Lidi decide allora di lavorare proprio su questo dittico di Fassbinder – che ci parla della nostra inclinazione a non accogliere “lo straniero” che è fuori ma anche dentro di noi – quale iniziazione a un triennio di lavoro che coinvolge ragazze e ragazzi del Teatro Stabile di Torino. Sono loro che il 21 e il 22 Agosto u.s. hanno attraversato con entusiasmo il primo debutto nazionale, sul palcoscenico diffuso della Sesta edizione del Ginesiofest.

Sono già lì, in scena. 

Forse sapevano di noi e ci aspettavano.

Sono tanti ma non sanno stare insieme: sono un branco, sono mani pronte a ghermire, avide. 

Sembrano liberi ma sono soli: si muovono ma non si spostano. Sembrano addomesticati a non andare oltre un certo spazio.

Se gli abiti di scena alludono ad un elogio della diversità, lo stesso non può dirsi dei loro sguardi: mentre prendiamo posto in sala, ci annusano con occhi che stillano sospetto e supponenza. 

Stiamo confinando il loro spazio e ora il loro moto ricorda quello di una ronda.

Vogliono capire se siamo come loro, se siamo disposti ad esserlo. Ad uniformarci. Acutamente Leonardo Lidi non materializza lo straniero katzelmacher Jorgos che viene dalla Grecia in un personaggio preciso. Perché ognuno di noi può essere Jorgos, lo straniero.

Il branco risponde con entusiasmo ossessivo al richiamo del ritmo dionisiaco di una batteria ma resta stregato anche dal richiamo apollineo di classiche melodie al pianoforte. Il branco è inconsapevolmente alla ricerca di uno spazio esistenziale, dove poter esprimere ciascuno la propria unicità. Insieme.

La loro è “una sete”. Non solo di violenza. Il loro è un profondo bisogno interiore da soddisfare: una necessità spirituale, emotiva, esistenziale. Che si dà come una mancanza, un vuoto, che loro credono di poter soddisfare colmandolo immediatamente con qualcosa di forte. E poi quella voglia di “ballare”, che parla del loro desiderio di riscoprire la capacità di esprimere emozioni, di creare comunità.

Al momento però la loro rudimentale forma di comunità si limita a fare barriera contro possibili “stranieri”. Come noi, come Jorgos, il greco. Al quale chiedono con fare investigativo: “ Dove vai? Dove vuoi andare?”.

Domanda in realtà a specchio, che loro inconsapevolmente rivolgono a se stessi. Alla ricerca come sono di “un’educazione che non si limiti alla formalità di dire grazie”.

Un’educazione che includa un concetto di lavoro che vada al di là del superamento dell’indolenza, in nome di un’efficienza dettata solo dalla velocità, sinonimo di guadagno.

Un’educazione indirizzata più che a riempire un vuoto, a tirar fuori, a scoprire, ciò che rende unico e speciale ognuno, proprio grazie alle sue fragilità. 

E’ questo l’interessante sguardo con il quale la regia di Lidi onora e riscopre la pièce di Fassbinder. Un taglio registico che aiuta ad affacciarsi con più coraggio a guardare dentro di sè, così da imparare a divenire più tolleranti anche nel guardare gli altri.  Riuscendo, sempre un po’ meglio e senza fretta, ad aprirci a quelle “maledette primavere”, così terribili ed irresistibili.

Uno sguardo registico che porta oltre quel venticello, oltre quell’

…“auretta

assai gentile

Che insensibile, sottile

Leggermente, dolcemente

Incomincia, incomincia a sussurrar

Piano piano, terra terra

Sottovoce, sibilando

Va scorrendo, va scorrendo

Va ronzando, va ronzando

Nelle orecchie della gente

S’introduce, s’introduce destramente

E le teste ed i cervelli, e le teste ed i cervelli

Fa stordire, fa stordire, fa stordire e fa gonfiar

E il meschino calunniato

Avvilito, calpestato

Sotto il pubblico flagello

Per gran sorte va a crepar”.

(Aria de La calunnia da “Il Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini)

Leonardo Lidi invita infatti i suoi giovani e talentuosi allievi a lavorare sul testo e sui loro corpi per portare il furore, che si origina in risposta al disagio in cui sono immersi, oltre la sterile e feroce distruttività. 

Distruttivita che inizia a palesarsi con quell’apparentemente banale volgere le spalle all’altro – come ben visualizzato dalla coreografia dei movimenti di scena – isolandolo dal nostro sguardo. 

La proposta registica di Lidi punta invece al riappropriarsi “senza fretta” di se stessi, imparando a coltivare, in risposta allo smarrimento, il desiderio di “portare a casa la nostra anima”, il nostro furore creativo, che come un’ “ombra” non smette di seguirci “a piedi nudi, per la strada”.

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Gli effetti dello smarrimento e quindi del disagio dovuto al non sentirsi parte di uno spazio sociale e di un proprio corpo desiderante, lega questa prima parte del Dittico – “Katzelmacher” – alla seconda parte: “Un anno con 13 lune”. 

Qui infatti veniamo a conoscenza della storia autoimmune di Elvira, straniera a se stessa:  ex uomo perdutamente innamorato di un altro uomo che, per essere accolto dal desiderio del corpo amato, abdica al suo corpo e alla sua volontà per farsi donna. Con il risultato di scoprirsi comunque abbandonata dal suo amato ma soprattutto ancora straniera al proprio corpo: disabitata da quel furore costruttivo che, solo, può spingerla a voler conoscere “il suo” desiderare. E a ricongiungervisi.

Ora, come fin dalla nascita: Erwin è infatti un figlio illegittimo abbandonato in orfanotrofio. E l’autostima, il senso di identità, il senso di appartenenza, sono doni che riceviamo dagli altri: dalla famiglia, dalla società. Su questo aspetto s’interroga la regia di Lidi, avvalendosi anche qui di un interessante lavoro sui movimenti scenici, per visualizzare l’importanza del “paesaggio sociale ed esistenziale” in cui veniamo gettati al mondo.

Qui, in Lidi, gli altri, gli amici, in parte provano a contenere in un abbraccio, che finisce per farsi morsa, il dissidio delle influenze masochistiche di Elvira. Che si dichiara disposta a tutto, pur di essere ospitata dal corpo del suo amato. 

Elvira può contare in particolar modo sull’appartenenza ad Irene, sua moglie quando era Erwin. Lei, Irene, così attratta dalla terra – come descritto suggestivamente dalla prossemica – sa farsi lei stessa luogo di fertile ospitalità.

Ma non basta. Erwin, non avendo ricevuto la possibilità di conoscere qual è il suo autentico desiderare, è straniero a se stesso e si comporta necessariamente come emigrato e immigrato rispetto al suo stesso corpo. Anche una volta divenuto Elvira tende a lasciarsi andare, allontanandosi sempre più dalla sua anima.

La sua famiglia sono state le bestie del mattatoio, dove andò a lavorare una volta uscito dall’orfanatrofio. Da loro, a qualche livello, ha appreso l’imprinting dell’attrazione verso la morte, vista come realizzazione della vita. Realizzazione attesa con impazienza, perché la morte libera dalla “percezione della vita”.

Uno strano furore, il loro. E non solo, perché furore proprio anche di chi non ha avuto la possibilità di sapere “da dove viene”. E trova quindi  più difficoltà a far tornare a casa la propria anima.

Non sa infatti – sottolinea la regia di Lidi – che la felicità non sta nel raggiungere un determinato risultato. Ma nel percorso che nel tempo porterà ad avvicinarvisi, riempiendo anche di fallimenti quella “pagina bianca” che riceviamo in sorte. 

E che la Luna – dice Fassbinder – in determinati frangenti astrologici può, influenzando la volontà dei più smarriti, decidere di stracciare.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA – regia Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO

dal 20 al 25 Maggio 2025

Cifra stilistica e politica delle regie di Leonardo Lidi è la vocazione ad applicare la propria testimonianza a servizio della salvaguardia dell’eredità di un testo, sia esso classico o contemporaneo. Arrivando a confrontarvisi poi in maniera originalissima ed efficace per la contemporaneità. 

Lidi sviluppa così un imprinting tutto suo, con il quale conduce lo spettatore a riallacciare immaginari fili tematici – sia durante la visione dello spettacolo che una volta uscito dal teatro – con la tessitura dei suoi lavori precedenti. 

Leonardo Lidi

Al calar delle luci, Lidi inizia a seminare il suo primo indizio sagomando la nostra attenzione sulla nipotina di casa Polliott (una deliziosa Greta Petronillo). Che ci confida, attraverso la sua interpretazione di Fly Me to the Moon, il suo desiderio di piccola donna che sogna l’amore: un amore capace di non temere universi lontani e sconosciuti. Un amore che non trattiene, che non manipola: un amore che lascia volare il desiderio oltre la Luna. Un desiderio da scoprire insieme, tenendosi per mano. Nonostante tutto.

Ma, ad un certo punto, il suo “canto alla vita” inizia ad incrinarsi, ad essere risucchiato, fino a venire brutalmente interrotto. E il sipario si apre su uno spazio ampiamente vuoto, accecantemente freddo, dal mortificante lindore marmoreo (la cura della scena è affidata, così come il disegno luci, a Nicolas Bovey). Dove sua zia – la preraffaellitica Margaret di Valentina Picello – va in fulgenti escandescenze per una macchia di sporco sul suo vestito, provocata dal vivace e imprevedibile gioco dei nipotini, invitati alla festa di compleanno del nonno. 

Valentina Picello è Margaret

Arriva così allo spettatore quella sensazione stonata di qualcosa che è stato spazzato via, che è  andato perduto. Un po’ come ne “il Giardino dei Ciliegi”, che chiudeva la trilogia del Progetto Čechov di Lidi. 

Ma cosa significa ora, qui nel testo di Tennessee Williams del 1954, quel concetto di “utile” così centrale già là nella Trilogia? E come parla a noi oggi?

“Utile” è ancora ciò che economicamente produce frutto, come un terreno, appunto. Ma anche come una donna, qui in Williams. E non solo: la tentazione è tornata attuale.

Perversamente produrre frutto fa esistere in quanto utili e funzionali ad un sistema, che ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi. E che non a caso, in cambio, ci illude di renderci visibili e inclusi.

Un sistema cioè che fa leva sui bisogni più radicati nell’essere umano: l’inclusione nella vita di una comunità (a partire dalla prima comunità: quella della coppia) e poi il bisogno costitutivo di sentirci (sempre) al sicuro. Protetti. Preferibilmente da altri. Bisogni che se subdolamente manipolati, ci svuotano del nostro personale e autentico desiderare. Ed è proprio questa la sensazione che avvertiamo all’apertura del sipario: un gran vuoto sterile di vitalità, scambiato per un paradiso.

Un paradiso che, qui, il padre della famiglia Polliott ha messo a frutto nei suoi primi (e ultimi) 65 anni di vita. Ossessionato da quella visibilità che si riceve in cambio a patto di trasformare il capitale umano in un valore “economico”, alla stregua di una merce. E così, fedele all’etica a cui si è votato, il patriarca vale quello che possiede: dollari e acri di terra. Sarà paradossalmente l’incontro con il sospetto di un’imminente morte a riattivargli la vista. Una vista senza cataratte d’ipocrisia che riporta alla luce, tra le rovine, anche una profonda sensibitià dialogica con Brick, con echi di maieutica socratica.

Questo testo  per il quale Tennessee Williams venne insignito del Premio Pulitzer – il secondo, dopo quello per “Un tram che si chiama Desiderio”  –  denuncia nella sua versione non edulcorata e censurata la perversione di un sistema incentrato sulla subdola protezione fondata sull’ipocrisia.

Nicola Pannelli è il Padre – Fausto Cabra è il figlio Brick

“Ma la vita è fatta d’ipocrisia – ricorda il padre a Brick – E tu non vuoi vivere d’ipocrisia? Ma caro mio, non si può vivere d’altro. Io tutta la vita ho navigato nell’ipocrisia e ci navigherai anche tu!…L’ipocrisia, è il sistema in cui viviamo…”.

 “Ipocrita” è colui che dopo aver deciso di separare, e quindi di nascondere, qualcosa da qualcos’altro, risponde in una determinata maniera alla vita e agli altri.

Ecco allora che Leonardo  Lidi  – con la complicità della traduzione di Monica Capuani – sceglie registicamente e politicamente di restituire autenticità al testo di Williams mandando in scena la sostanza dei “segreti” e quindi dei “sogni” e quindi delle diverse forme, che può assumere “il desiderio”. Quella “sostanza” – così pericolosamente destabilizzante per un sistema societario basato sull’apparente sensazione di perbenistica sicurezza – che è stata per troppi anni condannata ad essere accuratamente messa a tacere. Perché sporca: scandalosamente vitale.

Fausto Cabra – Valentina Picello

Lidi invece restituisce cittadinanza agli esclusi: ai tabù e a quelle fragilità che ci abitano ontologicamente. E che non devono farci perdere fiducia in noi stessi, né negli altri. Fragilità da affrontare insieme: “con” l’altro, senza scandalizzarci.

Perché “lo scandalo”, in realtà, etimologicamente si dà come una “ trappola”, un errore, un inganno, in cui è umano poter cadere. Una trappola esistenziale che solo successivamente è stata caricata di una connotazione morale: una tentazione, ovvero un’occasione di peccato di cui vergognarsi. 

Parlare e quindi condividere “scandali” può essere invece fertilmente trasgressivo, se aiuta a restituire ossigeno ad atteggiamenti asfittici, mortificanti e mortiferi. Se aiuta a farne cioè occasioni di nuovi inizi: per capire meglio chi siamo.

Fausto Cabra (Brick) – Valentina Picello (Margaret) – Riccardo Micheletti (Skipper)

E così mentre Margaret si accanisce (cadendo in una trappola) contro i figli dei cognati, che le ricordano quanto lei sia pericolosamente minacciata di esclusione a causa del suo mortificante mancato dare frutto come semplice terreno, suo marito Brick, pur essendole fisicamente vicino, la ignora. “Tu non vivi con me”. Tu vivi insieme a me nella stessa gabbia (trappola)”.

Lui infatti pur continuando a stare fisicamente in famiglia vive come in esilio volontario, autopunendosi e autoescludendosi, con la complicità dell’alcool, da quella vita sociale e familiare che ha tacitamente assecondato, non riuscendo a condividere e a difendere “con” Skipper la verità dell’omosessualità che li legava.

Verità che continua a legarli: ossessivamente il suo desiderare resta bloccato in un perverso tentativo di recupero e di espiazione, in cui Brick si riempie gli occhi di un continuo sedurre ed essere sedotto dal suo amore perduto.  

E Lidi rende questo disperato dialogo erotico di dilaniante bellezza. Il Brick di Fausto Cabra è come reduce da una guerra che ha perso e che lo ha mutilato nel corpo.  Ma non tutto è finito: riesce a succhiare linfa vitale non tanto dalla bottiglia quanto dal non voler smettere di dedicare attenzione erotica al suo oggetto del desiderio. I suoi occhi sono ancora languidamente vivi, la sua voce è umida di un pianto che vorrebbe scatenarsi come un temporale – per ricevere e per concedersi il perdono – ma che si limita a lambire provocantemente la sua bocca, mai paga (apparentemente) di alcool. Che gli viene servito dal fantasma di uno Skipper (Riccardo Micheletti ) che Lidi immagina di inquieta bellezza neoclassica. Un giovane uomo dallo stupefacente allure femmineo, che tesse intorno e insieme a Brick una magnetica prossemica. Seducente, come un rituale di corteggiamento in cui ci si mescola a portare e ad essere portati. 

Riccardo Micheletti (Skipper) – Orietta Notari (Ida) – Fausto Cabra (Brick)

Così facendo Lidi ci regala anche una persuasiva visualizzazione di quanto l’irrazionale possa essere più potente di ogni tentativo di imbrigliamento egoico-razionale. E di come sempre l’irrazionale sia un linguaggio raffinatamente enigmatico, prezioso sia per l’individuo che per la collettività, se messo in dialogo con quello razionale. 

Questa visualizzazione prende forma attraverso una sorta di imprinting con il quale Lidi guida il nostro sguardo – e quindi la nostra attenzione – a tenere insieme le due storie parallele: quella tra Brick e Skipper (narrata attraverso un linguaggio irrazionale) e quella del resto della famiglia (narrata attraverso i principi della logica).  Con un passaggio successivo Lidi fa di Skipper il collegamento che pone in dialogo le due narrazioni. Skipper infatti, posizionando la porta /quinta a doppio specchio  all’interno di alcune dinamiche, porta lo spettatore a “vedere” sottotesti diversi.  Un efficacissimo procedimento registico “cinematografico”, dove a parlare sono certe inquadrature in primo piano, ma anche degli interessanti piani sequenza. 

Greta Petronillo (la nipotina) – Valentina Picello (Margaret) – Fausto Cabra (Brick)

Effetto di questo ensemble di raffinatissime trame di montaggio registico è l’arrivo della consapevolezza nello spettatore che diversamente da quanto sembrerebbe, cio’ che più conta per ciascun personaggio, è ciò che a ciascuno manca. 

Al di là dei travestimenti che ognuno di essi sceglie di indossare, ciascun personaggio ci parla anche di altro.

Margaret ad esempio – una Valentina Picello dalla verve disperatamente lussureggiante – è un’insolita gatta, “castrata” dalla famiglia e dalla società nella sua natura selvaticamente felina. Essendo lei etichettata come un terreno che non dà frutto, rischia di scomparire. Rischia di essere esclusa, ancora una volta ai margini della società. Anche nella vita di coppia le è preferito Skipper. E forse veste non a caso un abitino di un ceruleo “non ti scordar di me” (la cura dei costumi è di Aurora Damanti). Non si può permettere e non ce la fa a scappare, a saltar giù dal tetto che scotta. Non si può permettere di essere sensibile e vulnerabile: deve cambiare natura, deve resistere con acume. E da manipolata diviene a sua volta manipolatrice. Ed  è consapevole della sua mutazione: dice di sentirsi “diversa”. E’ consapevole di non essere una persona buona, ma nessuno lo è.  Tanto che alla domanda di Brick: “come farai a fare un figlio con un uomo che non ti può soffrire?” – lei sul momento riconosce la difficoltà, ma non si arrende. Sa attendere rimanendo in ascolto e l’occasione arriva dopo lo scatenamento del temporale interno alla famiglia. E lei si fa trovare pronta quando sarà proprio Ida a servirgliela: è un sogno e un inganno. Ma Brick lo sa: “la verità va oltre il parlare: la verità è esasperante”. E lui sceglie di farsene complice. Ma non è quello che sembra.

                    Valentina Picello – Giuliana Vigogna (Mae) – Giordano Agrusta (Gooper) – Orietta Notari (Ida) -Fausto Cabra

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   Papà Polliott, il padrone della “tenuta più fertile al mondo dopo quella del Nilo” – un elegantemente ruvido Nicola Pannelli dal denso carisma – è l’altro personaggio che dice di sentirsi “diverso”, di essere cambiato (dopo il sospetto di morte). Per non restare escluso ai margini dalla società, lui ha immolato il suo desiderio vitale per diventare ricco e quindi degno della stima e dell’invidia degli altri. E così si accontenta di valere quello che possiede. Non solo: il progressivo arricchirsi lo rende così tracotante da credere di poter gestire anche l’arrivo della morte. Ma poi la morte invece si palesa con un inganno e lui cade in crisi, fortunatamente. Così può cogliere l’occasione per vedere tutto con nuovi occhi, tamto da sentirsi “più saggio e più triste”. E riuscirà persino ad aiutare suo figlio Brick a “partorire maieuticamente” la causa del suo disgusto.

Nicola Pannelli (il padre) – Fausto Cabra (il figlio Brick)

Ida, sua moglie – una strepitosamente remissiva Orietta Notari, commovente nella sua resiliente energia vitale – è anche lei, in teoria, una donna “realizzata” e “inclusa”, perché in regola con il sistema (il suo terreno ha dato frutti) e perché ha sposato un uomo che nel tempo è diventato sempre più ricco. In realtà, più degli altri, Ida ha ricevuto in dono il potere dell’invisibilità e per tramutare questo dono in continue epifanie ama vestirsi di paillettes luccicanti. L’unica che in verità regala visibilità a Ida è Margaret: lei è la sola a chiamarla per nome e così facendo le restituisce la sua identità di donna. E forse non a caso Ida cercherà il suo appoggio prima-durante-dopo lo scoppio del “temporale familiare”. Ed è sempre includendo Margaret che si compone quello che Mae, con invidiosa ironia, definisce “un bel quadro familiare”, preludio all’annuncio del miracolo-mistero della tanto attesa natività.

Valentina Picello (Margaret) – Orietta Notari (Ida)

Gooper  – un efficacissimo Giordano Agrusta apparentemente morbido ma dallo sguardo carico di saette pronte per essere scagliate – è il fratello (apparentemente) “realizzato” perché divenuto avvocato e sposato ad una donna che non smette di rendersi fertile per il sistema. In verità Gooper da sempre soffre del fatto che fin dalla nascita i suoi genitori hanno preferito Brick a lui. E per sublimare questo insopportabile senso di esclusione, ha dedicato la sua vita allo studio dell’applicazione della giustizia, così da prepararsi adeguatamente alla vendetta finale sull’eredità paterna.

Giuliana Vigogna (Mae) – Nicola Pannelli (il padre) – Riccardo Micheletti (Skipper) – Fausto Cabra (Brick)

Mae  – una raffinata Giuliana Vigogna avvolta in un panneggio color veleno – è la complice perfetta di Gooper per acume misto sia ad accondiscendente sottomissione che a ipocrita trasgressione. E insieme fanno di tutto per portare a termine la loro vendetta, che ha il sapore infantile di un giudizio universale, misto al piacere di un colpo alla Bonnie e Clyde.

Fausto Cabra (Brick) – Valentina Picello (Margaret)

Leonardo Lidi, attraverso la sua preziosa vocazione alla salvaguardia dei contenuti originari di un testo, ci restituisce tutto il carattere scandalosamente di denuncia, contenuto nell’opera di Tennessee Williams: “quell’odore dell’ipocrisia che è l’odore più potente che esista, un odore di morte”. E la bellezza del suo personale adattamento si dà proprio nel non escludere la possibilità che uomini e donne possano essere scandalosamente magnifici, riuscendo a “fare comunità” proprio attraverso le proprie fragilità.

Come da sempre ci ricorda il Teatro.

Giordano Agrusta, Fausto Cabra, Riccardo Micheletti, Nicolò Tomassini, Leonardo Lidi, Orietta Notari, Giuliana Vigogna, Greta Petronillo, Nicola Pannelli, Valentina Picello


Recensione di Sonia Remoli

COME NEI GIORNI MIGLIORI – regia Leonardo Lidi

TEATRO INDIA

dal 14 al 25 Maggio 2025

Il titolo si dà, con enigmatica suggestione, come una similitudine: figura retorica qui però mutilata del primo termine, il termine che fa scaturire il paragone, la similitudine appunto.

Ed è bellezza.

Perché sebbene la similitudine nasca dall’esigenza di chiarire meglio un concetto, la scelta di rendere in tal modo il vuoto di un inesprimibile linguistico è splendida. 

Perché tale vuoto – riconosciuto come assenza carica di significato – è come una pienezza straripante. E quindi indicibile attraverso il linguaggio basato sui principi della logica.

Alfonso De Vreese (B) – Alessandro Bandini (A)

Si può tentare di esprimerne in qualche modo tale magnificenza – come qui ardisce fare l’autore Diego Pleuteri – apportando un taglio ad un artificio linguistico, la figura retorica, per rendere più efficacemente suggestivo il concetto. 

E funziona.

E poi arriva la messa in scena teatrale: una vertiginosa “visualizzazione” di questo pressocché inafferrabile concetto. Una testimonianza di quell’ “Ama e fai quel che vuoi” con cui si apre lo spettacolo. E insieme lo specchio di come può essere difficile, nelle relazioni, fidarsi dell’altro. Anzi affidarsi all’altro.

Ecco allora lo spazio teatrale e della mente vuoti: liberi da egoicità. Spazi dai confini osmotici, tali da poter essere invasi dall’energia del dio Pan: un’energia parossistica, da eccitazione, da pan-ico. Ed è seducentemente da capogiro per l’occhio (anche alla lettura della drammaturgia) e per l’orecchio, lasciarsi trascinare insieme agli interpreti dai rapimenti osmotici da uno spazio all’altro: dallo studio dell’analista, alla pinacoteca e poi alla discoteca e così via. Ma anche nel passaggio repentino tra una fine e un inizio, tra il vomito e l’eros, tra un lutto e una rinascita. Spazi resi ambientazioni immersive da un efficacie disegno luci su stativi, curato da Nicolas Bovey.

(ph. Luigi De Palma)

Ma nonostante queste stupefacenti esperienze, resta sempre qualcosa che tiene i due protagonisti ancorati a terra: la minaccia dell’altro, della sua diversità così mal conciliabile con la propria personale voglia di avere tutto per sè e fare sempre a modo proprio.  

E poi ci sono le parole.  Se si potesse fare a meno delle parole!

“Diciamo di amarci, e magari è vero” – sceglie di scrivere Pleuteri in epigrafe al suo testo, citando il Raymond Carver, di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.

Leonardo Lidi

Però qualcosa che può venirci in aiuto c’é.

Ed è un po’ il messaggio che serpeggia dentro questo interessantissimo lavoro diretto da Leonardo Lidi.

Allenarci ad avere fiducia.

Che é qualcosa di  diverso dall’avere fede, anche se appartenente alla stessa chioma di parole. Addirittura, anche quel fidanzato/a, dal sapore oramai antico, appartiene alla stessa famiglia dove nessuna parola ha un significato netto. Si tratta di parole dai confini osmotici – concetto vitale, finanche divino, ben reso in scena – dove fiducia si intreccia a confidenza, ma anche ad affidamento e poi a coraggio e anche a fedeltà

Perché la fiducia è libera: liberamente si fonda e si rifonda. Senza il rigore ubbidiente della fedeltà.

E quindi, nonostante tutto, possiamo ancora ri-concedere fiducia a noi stessi e all’altro: “…E quest’anno ho fatto trent’anni, lo so che non sono niente, ma a trent’anni una volta erano vecchi e prima ancora morti e allora se abbiamo lottato per vivere tutto questo tempo in più forse possiamo prenderci qualche rischio e magari cambiare idea e provare a raggiungere queste cose belle che sembrano così lontane, sì insomma, non ci corre dietro nessuno o comunque abbiamo un tempo in più per sbagliare, è come se avessimo vinto qualche giro di giostra e possiamo girare ancora, e io sono un imbranato di dimensioni colossali, non ho mai vinto niente, ma con te mi piacerebbe provarci, senza fretta che poi mi viene l’ansia ma senza neanche lasciarti andare come se niente fosse…”

(ph. Luigi De Palma)

” …e possiamo girare ancora…”: ancora è infatti la parola che meglio riesce a descrivere noi umani, noi e l’amore, noi e le relazioni, noi e la comunicazione. Perché come diceva Hannah Arendt “gli uomini non sono fatti per morire ma per continuamente incominciare”. 

Questo di Leonardo Lidi è uno spettacolo disperatamente vitale. A qualche livello legato osmoticamente a “Giorni felici” di Beckett, dove quel comune dramma della conversazione trova proprio nel quotidiano più quotidiano (finanche qui nel pane e nei cioccolatini) echi di “sacro”. 

Dove l’affogante rigidità esistenziale può essere pervasa da un caos così vitale da appanicarci: fino a riuscire “a sparire da noi stessi”.

Dove ognuno di noi può appassionarsi, proprio come un detective, a trovare in superficie e in profondità tracce di quella meraviglia che si diverte ad infiltrarsi nel dramma di vivere. 

Di più: queste indagini vitali possiamo condurle anche “insieme”. Anzi insieme sono più efficaci: perché insieme si impara a mettersi nei panni dell’altro (come assai efficacemente viene visualizzato dal lavoro sui costumi, curato da Aurora Damanti). Dove “il mio” indossato da te, non solo finalmente “lo vedo” ma mi fa anche un effetto diverso, nuovo.

Lidi fa sì che lo scambio di habiti arrivi a contagiare  anche scena e platea, attore e spettatore: che qui divengono spazi e ruoli osmoticamente fluidi. Capaci di “sparire” ciascuno nell’altro, in un freschissimo “conosci te stesso” delfico.

E così anche il pubblico, per certi versi, viene invaso da Pan: il dio amico di Dioniso, che si aggira tra noi come tra pascoli e montagne. Il pubblico, infatti, investito da questa energia straripante si spaventa, si eccita, si commuove. E aspetta che si abbassino le luci in dissolvenza per liberarsi in un’onda di complice entusiasmo. E di riconoscimento.

Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese lasciano il segno: si danno come sublime energia vitale. Loro stessi corpi emozionali osmotici, che amano e fanno quello che vogliono.


Recensione di Sonia Remoli

Il Giardino dei Ciliegi: Progetto Čechov al Teatro Vascello

PROGETTO ČECHOV, terza tappa

Anton Čechov / Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO, dal 3 all’8 Dicembre 2024


C’è qualcosa che rischia di essere spazzato via, di andare perduto. 

C’è qualcosa che stiamo privando della sua “eccezionalità”, soppiantandolo con qualcosa di “utile”.

Ma cosa significa “utile”?

Diversamente dall’uso comune che siamo soliti attribuirle, la parola “utile” non allude tanto all’ “usare” e “all’essere usato”, quanto piuttosto al “rendere utile”. 

Non si tratta quindi di una furbizia o di una sottomissione, quanto piuttosto di un’attività creativa. “Utile” non è  solo una funzione economica ma anche un valore esistenziale, sociale e politico.

“Utile” è ciò che rende fertile qualcos’altro: la qualità della vita personale e comunitaria, ad esempio.  

Ma come siamo arrivati a questo punto ?

Com’è che siamo arrivati a buttar via cose, pensando solo alla loro “utilità” economica?

Leonardo Lidi

Anche da queste domande si genera il “Progetto Čechov”  di Leonardo Lidi: dalla sua urgenza di erede del passato, che desidera rendere onore alla tradizione. Per poi tradirla sapientemente, al fine di renderla vicina e d’ispirazione per il presente.

Un presente che, come ogni volta accade nei momenti di transizione, ci chiede di non sottrarci all’esigenza di rivalutare le nostre responsabilità, per poter affrontare fertilmente, insieme, i necessari cambiamenti.

Responsabilità vitali che il teatro da sempre – e con sempre nuove modalità – fotografa e racconta, mosso dall’urgenza di affrontarle.

Ecco allora che la penetrante sensibilità di Leonardo Lidi si mette al servizio di un’attiva presa di coscienza su come il passato – anche teatrale – può fornirci delle “utili “idee per affrontare periodi di particolare difficolta adattativa, che ciclicamente si presentano nel corso della storia.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Quello che infatti accade ora ne “Il giardino dei ciliegi” è il risultato di qualcosa che si era già presentato ne “Il gabbiano” , che si era manifestato in “Zio Vanja” e che ora qui, nella terza opera della trilogia, produce i suoi effetti devastanti.

Acutamente Lidi già entrando in sala ci immerge in un’atmosfera scenica “barbarica”: qualcosa è passato a spazzare via quelle sedie che ne “Il gabbiano” erano allineate in fondo alla scena – in un dietro le quinte a vista – dove gli attori sedevano in attesa di entrare in scena.

Ora invece quello che lì era dietro (il futuro) è divenuto qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, il presente. Ma gli attori, ognuno con il proprio ruolo e quindi con la propria responsabilità – proprio così come nella vita – hanno tardato ad agire. E ora quello che prima accoglieva la loro attesa è divenuto inaccogliente, visto che nessuno di loro ha considerato “utile” entrare in scena. 

“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi

Quel presente che ne “Il gabbiano” era così aperto – e che veniva così ben rappresentato da una scena totalmente libera e quindi disponibile ad essere plasmata – già spaventava assai. 

Perché è questo l’effetto che può farci la libertà: può non solo inebriarci ma anche angosciarci

“…Ti senti sola 
Con la tua libertà
Ed è per questo 
Che tu 
Ritornerai…”

Lo spazio scenico, allora così ampio, era già un po’ troppo prudentemente vissuto. Ci si accalcava spesso tutti intorno a quella panchina, che ora ne “Il giardino dei ciliegi” scopriremo essere tornata sul fondo, laddove una volta erano le sedie degli attori in attesa di entrare e prendere il loro ruolo nella scena. Non solo teatrale. Per dare voce alla loro interpretazione del presente e quindi alla loro vocazione esistenziale. 

“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi

Una prudenza che inizia a diventare terrore in “Zio Vanja” dove gli attori scelgono di muoversi in una scena presente, il cui sguardo è reso miope da un alto muro di legno. Sul quale si desidera aderire, quasi a restarne epidermicamente ed esistenzialmente incollati. Concedendosi giusto lo spazio per mantenere la postura seduta e quella eretta. E pochi passi di libertà.

Un presente “in  campo corto”, dove ci si limita alla fisiologia del mangiare  e del dormire. Ma soprattutto dove si beve molta vodka. Per mantenere ancora vivo un barlume di ardire in amore. 

Ma continuando a restare paralizzati dalla libertà esplorativa offerta dal nuovo contesto storico in mutamento – quello tra 800 e 900 certo, ma così vicino anche al nostro – si finisce per ritrovarsi ancora in attesa di “debuttare”. Ancora alla prova. Anzi: ancora in attesa. Ma non c’è più nulla d’attendere, se non le conseguenze di una difficoltà sempre più atarassica ad affrontare i mutamenti.

Così facendo si finisce col perdere anche la preziosa relazione con la natura. Qui ne “Il giardino dei ciliegi” è impossibile non notare il trionfo della plastica sul legno. Un legno che resta solo come cielo di un passato che, come un deus ex macchina, a volte plana sul presente con le ali della nostalgia.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

E quella plastica – apparentemente così economicamente “utile”, così fallace sinonimo di benessere e di democrazia dei consumi – arriva a contaminare anche i tessuti degli abiti di scena, seconda pelle di “habiti”, ovvero modi di fare e costumi etico-sociali. Laddove, infatti, ne “Il gabbiano” sopravviveva la preziosa naturalità del lino, che poi in “Zio Vanja” declina in cotone, qui ne “Il giardino dei ciliegi” diventa il trionfo del tessuto tecnico e quindi sintetico. 

“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi

“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Della stessa tragica involuzione Lidi ci rende partecipi anche attraverso il riflesso che questa produce sulla recitazione degli attori, sul loro diverso modo di esprimere lo stato di disagio. 

Se infatti ne “Il gabbiano” il linguaggio espressivo conservava ancora una fertile malizia, che trovava una particolare forma musicale nei ritmi sostenuti – sebbene tentati dalla fuga nell’irrazionalità dell’assenza dei segni d’interpunzione, così come dei principi della logica- ; in “Zio Vanja” Lidi rende più perturbante l’incarnazione attoriale ed esistenziale spingendola verso un ondivago senso delle parole, esaltato per contrasto da una solida immobilità del corpo dell’attore, che si apre solo meccanicamente ad una rottura dei piani. Quasi burattini nelle mani del fato. Per poi arrivare qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, ad assistere paradossalmente a come la paralisi d’azione abbia provocato una rottura quasi totale degli argini tra tragico e comico; tra riso e pianto; tra causa ed effetto. Anche la stessa arte medica ha perso la sua capacità terapeutica. E laddove la conoscenza di se stessi è maggiormente oscura, anche i generi si prestano a scivolare più fluidamente l’uno nell’altro. 

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

E così, quasi come un contrappasso, quella duttilità e quell’entusiasmo che di almeno un pizzico avrebbero potuto superare la paura dei cambiamenti, ora si scatenano in una fluidità indistinta. Che provoca, per reazione, il sorriso ma che, subito dopo, stringe la pancia dello spettatore in un giro di morsa.

Perché una Dunjasa che si ostina a rimanere giovane, rifiutando la responsabilità dei suoi anni racconta molto di noi, della nostra tendenza, ad esempio genitoriale, a farci complici dei nostri figli, più che loro testimoni del segreto di un sano desiderare. 

Perché un Lopachin così subdolo ci ricorda il fare tipico da presentatore delle nostre amate televendite. 

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Perché un First ridotto in sedia rotelle e a sua volta in sedia, ci parla di come anche noi oggi tendiamo a dimenticarci del nostro passato. E, così facendo, non possiamo se non condannarci a ripeterlo. Come provocatoriamente ci invita a cantare Lopachin: 

“Ritornerai…

Ritroverai 
Tutte le cose che
Tu non volevi 
Vedere intorno a te

E scoprirai
Che nulla è cambiato

Che sono restato 
L’illuso di sempre…”

Perché la tensione a non modificarci è innata al nostro corredo genetico, orientato all’autoconservazione.

Perché ad affrontare con coraggio la libertà e i suoi mutamenti si impara. E solo poi, si può trasmetterla.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Ma Lidi inserisce anche un alito di speranza. E lo fa, ad esempio, quando sceglie di ambientare la festa da ballo in un’atmosfera di denuncia e di ribellione, quale quella espressa dalla musica rap. Un genere e una filosofia che abbracciano elementi del rock, dell’elettronica e del jazz, dando vita a nuovi stili e a suoni unici. 

Perchè questo di Leonardo Lidi è il compimento di una trilogia capace di “rendersi utile e di renderci utili ”. Grazie al suo spingerci verso una presa di coscienza : quella che precede l’audacia di difendere i valori che ci rendono creativamente umani; quella che ci stimola a cercare in noi e nella vita qualcosa di “utile”, cioè di creativamente interessante. 

Perché quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame “utile”, qualcosa che ci avvicina a qualcosa, o a qualcuno. 

Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. 

Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Applausi per “Il giardino dei ciliegi” di Leonardo Lidi

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

Coerentemente il Teatro di Leonardo Lidi si dà come un teatro di attori inclini a riconoscere preferibile un desiderio di crescita e di testimonianza collettivo, piuttosto che miopemente individuale. Un teatro e uno stile di vita sociale e politico dove ciascuno è consapevole di splendere in quanto parte irrinunciabile di un tutto. 

Un Teatro che non smette di divertire, pur non proponendosi mai come un teatro “innocuo”. 

Un Teatro “utile”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SENZA MOTIVO APPARENTE di e con Christian La Rosa – Ginesio Fest 2024 –

Tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli

SAN GINESIO (MC) – 18 Agosto 2024 – Chiostro di Sant’ Agostino ore 21:30 –

Il dono della pioggia scende, quale rito di fertile augurio, sulla serata d’apertura della quinta edizione del Ginesio Fest 2024, diretta da Leonardo Lidi.

Leonardo Lidi

Splende, bagnato a lucido, il borgo medievale marchigiano di San Ginesio a vocazione artistica, in quanto luogo del Santo protettore della comunità attoriale.

A lui é stato intitolato anche il Premio San Ginesio “ All’arte dell’ Attore”, ideato e voluto da Remo Girone,

Remo Girone

Presidente della Giuria composta dal giornalista Rodolfo di Giammarco, dall’attrice Lucia Mascino, dalla poetessa Francesca Merloni e dal regista Giampiero Solari. Quest’anno la giuria ha attribuito il premio a Vanessa Scalera e a Giuseppe Battiston, ai quali sará assegnato il Premio il 25 Agosto, giorno della festa del patrono San Ginesio.

Isabella Parrucci

La comunitá di San Ginesio – sotto l’egida della Direttrice generale del festival Isabella Parrucci – sa come non perdere smalto e, viva d’entusiasmo, sa come riuscire a non smettere di dare vita a sempre nuovi inizi. Com’è nella nostra natura di esseri umani – diceva Hannah Arendt.

E di continui nuovi inizi ci ha parlato anche lo spettacolo che ha dato avvio alla prima serata del Ginesio Fest 2024 : “Senza motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli.

In uno stile accattivante dalla caratura cinematografica Christian La Rosa, fin da subito e per tutta la durata del suo monologo, ci trascina con sé dentro un racconto concertato per più voci narranti. I suoi campi sequenza narrativi , sapientemente contrappuntati da campi corti e primi piani, ci seducono al punto da entrare nel ritmo dei suoi respiri: scattante, complice, colmo d’emozione. Efficace anche la costruzione della suspense, che ci risucchia dentro intuizioni e sospetti solo poi confermati o disattesi. Sono le diverse micro contrazioni che danno forma alle sue spalle a parlarcene, rendendo la comunicazione maledettamente intrigante.

Christian La Rosa

E’, quella di Christian La Rosa, un’urgenza magnificamente umana di evidenziare i continui nuovi inizi che hanno sfidato e sfidano la perversa volontà di chiudere e di insabbiare gli elementi che hanno dato origine all’omicidio del dottor A., ovvero all’omicidio di Amedeo Damiano.

Amedeo Damiano

A lui é dedicato lo spettacolo essendo la sua morte avviluppata all’interno di un’intricata vicenda, ancora oggi parzialmente irrisolta. E vede, come prima fonte d’ispirazione, il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali proprio in virtù della sua precisa ricostruzione dei fatti.  Sergio Anelli, facente parte della commissione d’inchiesta presieduta da Amedeo Damiano, scrisse infatti il romanzo per approfondire quello che questo attentato di mafia tracció non solo a livello politico e sanitario, ma soprattutto sociologico: il nuovo volto della mafia, quello che si stava delineando negli anni ’80. L’assassinio di Damiano portò infatti alla luce insospettate vicende malavitose in una pacifica realtà di provincia “di portici e geometrie”: la pacifica Saluzzo, apparentemente immune da dinamiche a carattere mafioso.

Ma 37 anni fa, Amedeo Damiano, presidente dell’allora Ussl 63, (Unità socio-sanitaria locale) di Saluzzo fu ucciso in un agguato la sera del 24 marzo 1987. “Il dottor A” aveva appena varcato la porta del palazzo del centralissimo corso Italia, dove viveva con la moglie Giuliana Testa e quattro figli, quando nell’androne dell’abitazione due uomini aprirono il fuoco. Quello che doveva chiaramente essere una sorta di avvertimento, una ‘gambizzazione’, finirà però in tragedia. I colpi di pistola oltre a fratturargli il femore, lesionarono anche il midollo spinale, paralizzandolo. Dopo un lungo calvario in diverse strutture ospedaliere, Damiano morirà a distanza di 100 giorni dall’attentato, il 2 luglio 1987, mentre era ricoverato in una clinica di Imola dove era stato portato per un disperato tentativo di riabilitazione.

Giornali e telegiornali iniziarono a farsi domande.

Fortunatamente.

Perché porsi domande è un’inclinazione squisitamente etica che ci permette di comprendere il passato, evitando di ripeterne gli errori.

Perché domandare esprime un desiderio di sapere – e non di dimenticare – alla base anche del metodo di conoscenza socratico.

Domande si pose “il dottor A.” per riuscire a risanare la situazione sanitaria precedente.

Domande si pose Sergio Anelli nel suo lavoro di fine archivista, al fine di raccogliere il maggior numero di dettagli informativi per fare chiarezza sul caso del “dottor A.”

Domande continua a porsi Christian La Rosa per educare il pubblico a porsi domande.

E attraverso il suo spettacolo teatrale sa lasciare una traccia in chi lo ascolta: com’è nella natura di un attore e regista dal carisma erotico. La narrazione di Christian La Rosa sa infatti appassionare alla ricerca della verità e al suo continuo saper ricominciare: al di là di ogni possibile sconfitta, al di là di ogni possibile ostacolo.

Proprio com’è nella natura del Teatro: quella di essere un continuo luogo d’incontro. Tra attore e spettatore; tra domande e possibili risposte; tra l’ “ e poi mamma?” E il suo “chissà!” ; tra il nostro “io” e le altre parti che compongono la nostra anima. Tra l’inclinazione naturale a sopraffare – con la quale tutti noi veniamo al mondo – e l’educazione all’amore della verità, che passa per il rispetto dell’Altro, da imparare una volta gettati al mondo. Per realizzarci davvero, autenticamente. Al di là di ogni “solitudine”: anche giudiziaria, come quella di cui ci parla questo caso, rievocato dallo spettacolo di Christian La Rosa. Una rievocazione laica della passione della morte del “dottor A.”

A lui, a 30 anni di distanza dall’omicidio Damiano, “è stato chiesto” infatti di occuparsi di un evento cittadino di scottante importanza. Alla “domanda” La Rosa ha risposto con entusiasmo, utilizzando l’ ‘arma’ di cui sa mirabilmente disporre: quella della rappresentazione teatrale. E con una calibratissima e seducente drammaturgia, La Rosa sale sul palco a raccontare l’intricata vicenda giudiziaria che ha portato dopo 14 processi ad un nulla di fatto sul mandante di quell’attentato. Solo i tre esecutori materiali vennero condannati: “Nessun movente, nessun mandante. Il dottor A. venne ucciso senza motivo apparente”. La Rosa ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con la famiglia Damiano, di accedere alla rassegna stampa dell’epoca e soprattutto al libro di Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”

Una storia non solo cuneese ma, al di là di ogni solitudine, italiana.

Una storia su cui continuare a interrogarsi, perché solo così ci si accorge di essere vivi: continuando a tenere in vita la ricerca della verità.

Perché solo così si cresce, si va avanti.

Insieme.

San Ginesio (MC)

Il Ginesio Fest 2024 ha avuto il suo magnifico inizio: la magia è scesa su questo primo incontro e saprà continuamente rinnovarsi.

Qui il programma dei prossimi eventi

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ZIO VANJA di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Seconda tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO – dal 9 al 14 Aprile 2024

Cosa succede quando il passato invade il presente? 

Quando i ricordi fagocitano gli impulsi creativi? 

Succede che si riduce notevolmente la visione prospettica sulle nuove possibilità di “riempire gli anni”. Ieri come oggi.

La regia di Leonardo Lidi affida a Nicolas Bovey la cura per la realizzazione di un’efficacissima struttura scenografica capace di veicolare – già solo attraverso l’impatto visivo – la claustrofobia di questa perversa modalità di stare al mondo.

In verità questo possibile modo di vivere esprime la tensione più potente che abita la natura dell’essere umano. E non è quindi propria di un determinato periodo storico. Per natura infatti siamo tutti inclini a conservarci, a proteggerci dall’ignoto. A ridurre il nostro campo visivo e quindi il nostro campo d’azione.  Preferiamo renderci innocui. 

Ecco allora che il confine che separa il passato dal presente avanza smisuratamente appropriandosi di grand parte dello spazio d’azione. Anche sul palco. Ed è subito afa.

Ne deriva la sensazione di un presente schiacciato, opprimente, senza un fiato di vento. Dove ci si accontenta di anelare – attendendola più o meno compostamente tra richieste di compatimento e imbambolimento vario – l’azione rigenerante di un temporale.

Un presente “a campo corto”, dove si mangia e si dorme. Ma soprattutto dove si beve molta vodka: per acquisire – almeno per tutto il tempo della sbronza – “un simulacro di vita”. E così provare ad agire, ad osare. Perché tutto il resto, è noia. 

Una noia che non è la serenità della pigrizia. Piuttosto la logica conseguenza emotiva di quel senso di disinteresse che non conosce uno sprone che punga, facendoci contorcere alla disperata ricerca di qualcosa di non monotono, di interessante. E’ quella noia che è la cifra di chi non immagina progetti, di chi non coltiva interessi di stupore partecipe.

Una noia piena di fiumi di parole che, sebbene scorrano via a ritmi vorticosamente accelerati, restano in bilico sul loro stesso valore logico. Di conseguenza anche quel che resta del sistema emotivo va in tilt. O si scolora.  E assieme all’ habitus (il modo di fare, il costume sociale) perde vivacità anche la seconda pelle, ovvero l’abito, che non osa spingersi oltre le tenui tonalità pastello (la cura dei costumi e di Aurora Damanti). 

Lidi sceglie allora che la recitazione degli attori incarni questo ondivago senso delle parole sia attraverso un’apparentemente solida immobilità del corpo, sia attraverso una totale rottura dei piani del corpo. Quasi burattini nelle mani del fato. Ed è bellezza. 

Una bellezza che fiorisce da un lavoro attoriale che riesce ad esprimere l’urgenza simbiotica del corpo di “aderire” allo spazio. Di “spalmarsi” su di esso, lungo ogni coordinata. Un corpo quasi totalmente privo di autentici slanci d’entusiasmo, se non espressi con la complicità della vodka. 

Ma che fine hanno fatto i desideri? Quella spinta, il desiderio, che regala così tanta tonicità alla psiche umana? In un habitat atarassico, dove si desidera solo l’autoconservazione, sono bandite le tensioni di qualsiasi natura. Troppo pericolose: sono fucina di cambiamenti. E i cambiamenti spaventano assai. 

Ma la scelta di votarsi alla sicurezza di un male conosciuto piuttosto che a un bene tutto da scoprire risucchia linfa vitale: quella che spinge ad andare alla scoperta, alla ricerca. Anche della propria vocazione: anzi no, “quella la conosce solo Dio”. 

E ci si chiede, fuori da ogni consapevolezza logica, se chi verrà dopo si ricorderà di loro come coloro che hanno “spianato la via”. Valore che Puskin riconosceva all’opera di Batjuskov, autore così amato dal Professor Serebrjakov. Ma per essere onorati dagli eredi occorre essere padri “interessanti”.

E poi ci si rammarica di invecchiare troppo velocemente. Ma come evitarlo se si vive all’insegna della monotonia: dove niente di quello che si fa è “interessante”? Dove niente è più capace di destare curiosità, di suscitare attenzione o partecipazione ? Dove niente coinvolge e appassiona? Neanche l’amore. Neppure quello per la natura. Perchè – come riconosce zio Vanya – “si vive di miraggi quando manca l’autentica vita”.

Tentazione così maledettamente vera anche oggi.

E pensare che quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame, qualcosa che sta in mezzo e ci avvicina a qualcosa o a qualcuno. Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

La regia di Leonardo Lidi affida allora a Franco Visioli la cura di  creare sonorità labirintiche e lunari e a Nicolas Bovey una drammaturgia delle luci proveniente da un cielo basso e vagamente sinistro. Tali da enfatizzare la vacuità sterile delle crepe esistenziali dei personaggi, resi con sconcertante verità extratemporale dagli attori in scena.  Si ride. Ma da qualche parte ci arriva una fitta.  

Lidi sceglie – ed è la sua filosofia – un teatro di attori dove un desiderio collettivo risulti superiore ad un desiderio personale. E infatti Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna splendono restituendoci l’agrodolce miseria dei loro personaggi, proprio in quanto consapevoli parti irrinunciabili di un tutto. 

Leonardo Lidi ha un talento che brilla per la capacità di “tradire fedelmente” i testi del grande teatro classico. Il suo è un modo di gestire l’eredità dei padri del teatro che onora il valore di testimonianza. Un teatro, il suo, con una particolare raffinatezza di gusto: un teatro divertente che si guarda bene dall’essere “innocuo”.

Un teatro necessario.

Leonardo Lidi, il regista

“Zio Vanja” è la seconda tappa  – dopo “Il Gabbiano” – del suo Progetto Cechov, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino e Festival dei Due Mondi. La trilogia si completerà con “Il giardino dei ciliegi” che debutterà tra qualche mese al Festival dei Due Mondi di Spoleto. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GABBIANO di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Prima tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023

Nessuna musica. Nessuna quinta. Il sipario si apre su uno spazio teatrale (le scene e le luci sono di Nicolas Bovey) completamente nudo e massimamente aperto. Indifeso e quindi pronto a essere plasmato. Come nella vita, gli attori in scena sono “gettati” in un luogo da riempire solo con la propria interpretazione. Con la propria vocazione.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Unico oggetto in scena: una panchina in proscenio. E delle sedie disposte in un’unica fila sul fondo dello spazio: una sorta di dietro le quinte a vista. Un dietro che avanza. La panchina, così come la fila di sedie, “margini” sui quali “sedersi” . L’atmosfera è più quella di una sala prove che quella di un debutto.

Una scena del film “Vanya sulla 42esima strada” di Louis Malle (1994)

E fa tornare alla memoria il film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, tratto da un adattamento teatrale di David Mamet. Anche per il tipo di recitazione affidata agli interpreti: più smaliziata, dai ritmi più sostenuti (a volte addirittura scevra da segni d’interpunzione), più gradevole, più attuale.

Il cast dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

A parlarcene sono anche i costumi che indossano (curati da Aurora Damanti): la scelta dei tessuti, il tipo di taglio, le scelte cromatiche. Poco nero, se non dove è indispensabile. E laddove (drammaturgicamente) consentito, alleggerito dal bianco. Contribuendo così, in sinergia al tipo di recitazione più essenziale e quasi autoironica, a rendere il confine tra riso e pianto meno netto.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Fino a riuscire a strapparci di tanto in tanto un sorriso. O una risata. Di comprensione. Di complicità. Come sarebbe piaciuto a Čechov, visto che inalterata resta l’intensità e la bellezza del testo teatrale. Sono, questi rivisti dal regista Leonardo Lidi, personaggi che rispecchiano poeticamente la nostra stessa difficoltà, variamente declinata, di stare al mondo. Soprattutto nei momenti storici di passaggio. Vivono in una, a tratti consapevole, coesistenza di disperante malinconia e irresistibile comicità. E li comprendiamo: senza giudicarli.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Oscillano: siedono sulla vita volteggiando su se stessi, anche quando sono in due a ballare. Senza avanzare davvero. Tentati dalla rassegnazione. Un desiderio, il loro, che non conosce vera intrepidità se non nei giovani, diversamente contagiati dal nuovo che sta entrando. “Silenzio, viene gente !” è il loro mantra per sfuggire a qualcosa che potrebbe invaderli: l’amore. “Come siete tutti nervosi ! E quanto amore ! “.  

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

E quando cadrà su di loro il cielo del nuovo tempo, non li toccherà. Se non anagraficamente. Invecchieranno riuscendo ancora a schivare ciò che li sta investendo. Convincendosi, come il Dottore, di continuare a batterlo loro il tempo. Ipnotizzandosi. Impreparati, ancora, a debuttare. Nella vita.

“La bohème, la bohème, 

indietro non si torna mai”

(Charles Aznavour, La bohème)


Recensione di Sonia Remoli

La signorina Giulia

TEATRO VASCELLO, Dall’ 11 al 16 Ottobre 2022 –

Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?

Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più fretto­losamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresen­tarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.

Leonardo Lidi

August Strindberg

Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore. 

All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.

Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che sol­tanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.

Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.

Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.

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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico del Ginesio Fest.

Recensione dello spettacolo FUGGI LA TERRA E L’ONDE – di e con Lino Guanciale –

TEATRO INDIA, 8 Settembre 2022 –

Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.

Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare,  come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.

Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.

E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.

E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.

E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.

Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.

“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.

Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CONCERTO PER VITALIANO – con e di Michele Di Mauro –

GINESIO FEST (Auditorium Sant’Agostino), Concerto per Vitaliano, 22 Agosto 2022 –

Detestava le immagini (foto, dipinti, specchi). Forse per la sublime bellezza di quell’ “assenza”, incorniciata dalla finestra della sua camera. Ma ieri sera, l’anziano protagonista di “Solo RH” si è lasciato avvolgere dalle immagini di splendide tele: quelle della mostra “Hoc opus – Il ritorno della bellezza”, ospitata all’interno dell’Auditorium Sant’Agostino di San Ginesio.

Quell’ incantevole borgo medioevale del maceratese, che sta ospitando la terza edizione del singolare festival diffuso “Ginesio Fest” (fino al 25 Agosto p.v.), quest’anno sotto la prestigiosa direzione artistica dell’attore, regista e drammaturgo Leonardo Lidi.


Un po’ come i protagonisti del testo di Vitaliano Trevisan “Solo RH” (“solo” uno dei testi portati in scena ieri sera), un tenebrosamente comico Michele Di Mauro (qui non solo attore ma anche intrigante regista) e un “drammaturgo del suono” qual è Franco Visioli hanno dato vita ad una concertazione: un gareggiare in segni linguistici e musicali, stringendo tra loro un singolarissimo patto, includente il rispetto delle inclinazioni e delle peculiarità l’un dell’altro.

Michele Di Mauro

Hanno “eseguito” come musicisti; “vibrato” come strumenti accordati, complici e liberi nel raggiungere il miglior risultato nell’omaggiare, e quindi valorizzare, la meraviglia della scrittura ferocemente insolita del poliedrico artista, recentemente scomparso: Vitaliano Trevisan.


Franco Visioli

Gagliardi ed impetuosi, Michele di Mauro e Franco Visioli ci hanno donato il loro sguardo sull’ “uomo” Vitaliano proponendo i temi ricorrentemente ossessivi del defunto artista, come avviene nel linguaggio musicale, riprendendoli e sviluppandoli in vari modi. Un “sogno” ad occhi aperti, in cui si è immaginato un mondo terribilmente e magnificamente “stonato”. 


Franco Visioli e Michele Di Mauro

Questo primo studio di Michele Di Mauro e Franco Visioli esalta la scrittura di Trevisan, sulla quale i due improvvisano e variano, imbastendo un dialogo fluviale che oscilla jazzisticamente tra scatti nervosi e pause inaspettate. Le parole sono preferibili alle immagini, soprattutto se imprigionate in “taccuini”, archiviati alla maniera di quelle nubi descritte nei “Sillabari” di Goffredo Parise, alla voce “Ozio”.

Vitaliano Trevisan

Ma quando le parole “sono di troppo” allora molto meglio risulta la voce, il suono “solo”, capace di tagliare come la lama di un coltello. Perché “non è male essere colti”: raccolti, abbracciati, presi, afferrati. Sorpresi. Compresi. Seguiti. E quando non accade, allora Vitaliano Trevisan diventa preda dell’ossessione compulsiva dell’annotare, del contare: passi sì ma anche parole, in sterminati elenchi. Lui, così pungente e dissacrante ma al tempo stesso preciso e disarmante.

Michele di Mauro

Una serata, quella di ieri sera, così vibrante, anche per la concertazione accordatasi con il pubblico, da riuscire a squarciare, almeno per un attimo, quel “velo” che era solito attraversare i limpidi occhi azzurri di Vitaliano Trevisan. Finalmente “colto”. Ancora.

Vitaliano Trevisan

San Ginesio


Recensione di Sonia Remoli