Lavia dice Leopardi

TEATRO VASCELLO, 22 Ottobre 2021 –

Il palco è vuoto. Poi entra lui. E con lui una “donzelletta”. Conosciuta, ma in realtà tutta da scoprire. E’ come se Lavia facesse delle nuove presentazioni e poi ti guidasse attraverso “i perché” della scelta di determinate parole. Che regalano immagini. Che a loro volta ti consegnano la filosofia del Leopardi. Prima fra tutte, l’immagine che la vita si dà nel momento in cui tramonta. Non a caso la donzelletta arriva “in sul calar del sole”. E non a caso Lavia invita a soffermarsi sull’immagine successiva, costruita come un controcampo cinematografico: quella di una “vecchierella”. Che fila e che tanto ricorda le tre Parche dell’Antica Grecia.

E anche quest’ultima viene “incontro laddove si perde il giorno”. La descrizione prosegue e più avanti arriva un “Poi”, che ci sorprende come un colpo di scena. Ma in realtà ritorna sempre lo stesso concetto: “un legnaiuol che s’affretta e s’adopra di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”. Ma se allora così è la vita, se la festa è nella sua fine, non ci resta che godere !

Lo spettacolo è tutto un “dire”, cioè un personalissimo e generoso donare al pubblico l’enigmaticità di alcuni nodi poetico-filosofici. Per poi scioglierli. Con le mani, che sanno svelare più delle parole: la destra sempre più libera e vibrante; la sinistra più contratta. Uno spettacolo che si apre ad una provocante interazione con il pubblico: complice anche quel piccolissimo gradino che separa il palco dalla platea, caratteristico di questo Teatro. E poi la chiusura, che leopardianamente apre a un nuovo inizio: tutti coralmente a “dire” L’Infinito.

Recensione dello spettacolo LA SUPPLENTE di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini –

TEATROSOPHIA, dal 2 al 5 dicembre 2021 –

Entra in scena una donna, stretta in un trench aperto. Una donna plumbea, dal biondo crine inutilmente raccolto. Sarà abbastanza poetica per straziare la voglia di vivere? Sarà riconosciuta e ossessivamente ricordata?

Silvia Brogi e Stella ( il personaggio) sono riuscite a turbarmi profondamente. Non sapevo cosa aspettarmi quando, guardando la locandina, ho provato a immaginare qualcosa. Così magnetica: un corpo celeste luminoso. Splendente di luce propria? Una cometa? No. Errante? Sì. E così distante da non poterne distinguere il movimento. “Vedere le stelle” equivale a sentire un acuto dolore. Come quello del “desiderare”, che etimologicamente e’ composto anche dalla parola “stella”. Desiderano, coloro che sono disposti ad aspettare sotto le stelle, che arrivi qualcosa che manca.

“Nomen omen”: già, il nome è un presagio. Stella infatti aspetta una telefonata che potrebbe concretizzare un suo desiderio, una cosa che manca. Ma qualcosa la fa desistere dall’aspettare. Che cosa rende un giorno degno di essere vissuto? E’ resistibile viverlo da “supplente”? Applicando cioè un modo di essere diverso da quelli normalmente classificati e classificabili? Sarà sufficientemente dilatato, tanto da poter diventare “eterno” ? 

O servirà una “ricreazione” ? Che cos’è un miracolo? E’ il “now”: il vivere ora. Con tutti. Ma viceversa, miracoloso è anche riuscire a provare “rispetto”: guadare indietro (non sempre avanti) ed avere un dubbio, un bisogno di ricerca, di riflessione, che ci fa fermare un attimo. Questo è il “segno” lasciato dalla supplente a Stella: l’attenzione per tutto ciò che sembra “minore e resta dietro”. Che poi è anche la differenza che intercorre tra la retorica e l’oratoria. 

In questo spettacolo si viene rapiti, in alcuni casi trafitti, da messaggi evidenti e nascosti. Anche perché veicolati magicamente da toni, sguardi, corpi, inquietantemente credibili. Carichi di estro e di competenza. Si esce con la sensazione di essere stati divampati da qualcosa di contagioso, di indomato, che continua a propagarsi anche quando la scena si chiude. 

Un grande momento di teatro sociale, etico e politico.

Silvia Brogi

Qui trovi l’intervista all’autore del testo Giuseppe Manfridi, all’attrice Silvia Brogi e al RegistaBoccaccini: https://www.lanouvellevague.it/la-supplente-teatro-marconi/


Recensione di Sonia Remoli

Drive my car

Il film, che ha vinto:

  • il premio per la migliore sceneggiatura al 74° Festival di Cannes
  • il Golden Globes come miglior film straniero
  • il miglior film del 2021 per la National Society of Film Critics è un adattamento cinematografico dell’omonimo racconto di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta “Uomini senza donne”. (Leggi il comunicato ANSA).

E’ inserito qui tra le Recensioni Teatrali per il suo intrecciarsi strettamente al teatro.

Una coppia vive la perdita della figlia di quattro anni. Riescono a rimanere insieme e a mantenere ciascuno una propria forma di equilibrio, accettando di farsi interpreti di un racconto. 

Un racconto a puntate, che la moglie, in una sorta di trance erotico, “consegna” di volta in volta al marito. Lei, appena raccontato, lo dimentica: sarà il marito a memorizzarlo per ri-raccontarlo alla moglie, che ne farà una sceneggiatura per la tv. Nessuno dei due sa, ancora, che questo racconto a puntate parla di loro, del loro destino. La moglie, infatti, attraverso i convegni d’amore, è come se domandasse inconsapevolmente aiuto, per continuare a vivere. In risposta, riceve un racconto-oracolo da decifrare: proprio come avveniva a Delfi, quando per bocca della Pizia, il dio Apollo consegnava i suoi responsi enigmatici a chi si rivolgeva a lui in cerca d’aiuto.

Il responso dei responsi era costituito dal monito “conosci te stesso e vivi secondo misura”. Misura o autodisciplina che la stessa liceale, protagonista del racconto-oracolo, s’impone ma che poi smarrisce per un’incapacità, tutta umana, di entrare davvero in relazione con l’altro. Più avanti si scoprirà che la parte finale del racconto è stata consegnata non al marito ma ad un giovane amante della moglie. Il quale, in un momento d’angoscia, successivo alla morte della stessa, deciderà di consegnare/confidare al marito la vera conclusione del racconto.

Il potere magico-terapeutico della parola, alla base di ogni relazione, permea tutto il film e viene sottolineato dai testi (e dall’interpretazione degli stessi) delle due pièces teatrali messe in scena dal marito regista: “Aspettando Godot” di S. Beckett e “Zio Vanja” di A. Cechov. Testi che parlano dell’umana difficoltà di vivere, cioè di entrare in relazione con gli altri. Disponiamo però di due “chiavi” per entrare dentro la nostra casa, per conoscere noi stessi, attraverso l’altro: l’amore e la relazione con il personaggio da interpretare. 

Due modalità di entrare in relazione così profonde, da superare la stessa diversità delle lingue: innovazione del marito-regista è infatti quella di mettere in scena una sorta di babele delle lingue, in cui tutti riescono magicamente a comprendersi a un livello più profondo. Il titolo stesso del film cela questo messaggio: guidare la mia auto equivale a dire guidare la mia vita e quindi conoscere me stesso. “Bisogna vivere – scrive Cechov – spaventoso non è conoscere la verità ma vivere senza sapere come stiano veramente le cose”.

Dopo la morte della moglie, il marito continuerà il proprio percosso conoscitivo affidandosi ad una misteriosa ragazza che gli farà da autista. Sarà lei ora la sacerdotessa di Apollo che lo aiuterà a proseguire il percorso verso la conoscenza di sé, in una dinamica a specchio. “E’ indispensabile entrare in relazione con qualcuno, fidarsi – dice Cechov – per conoscersi, per vivere”. Ma soprattutto per sviluppare una creativa capacità di soffrire.

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 26 al 31 ottobre 2021 –

Lo spettacolo narra il mito di Fantasia, dea cospiratrice, che dona vita ad una storia senza un copione che contenga i suoi personaggi. Questi, peccando di “hybris”, cioè di vitale e quindi divina esuberanza, finiscono per irrompere nello spettacolo in allestimento dei figli di Immaginazione, dea un pò parassita. Non c’è tra le due narrazioni un confine; o se c’è è di natura porosa, osmotica. Perché un confine è anche il luogo dove ci si incontra.

Come ci viene suggerito già dall’inizio: un regista e il suo assistente “comunicano” anche se separati dal confine del sipario. Questo tema si ripete e insieme si arricchisce per tutto lo spettacolo, quasi come in un sistema organizzato per cerchi concentrici. Lo si ritrova nel confine che stabilisce quando passare dalle prove sedute (a tavolino) a quelle in piedi. E, ancora, nell’invito a far sentire il senso del guscio nello sbattere l’uovo.

Solo la dea Fantasia possiede il dono della creazione; solo lei plasma le percezioni che riceviamo, le emozioni che patiamo e le restituisce in forme coerenti. Per questo i suoi personaggi sono così vibranti, così vivi ! Ma nonostante ciò il regista decide di esortare i suoi attori, figli della dea Immaginazione, ad una “concertazione”, cioè ad un accordo o ad una sfida con i sei personaggi, figli della dea Fantasia. Il fine però è una cooperazione. Il regista promuove cioè, ancora una volta, un passaggio osmotico.

Lo stesso che fatica a crearsi tra i figli legittimi e quelli illegittimi. E ancora tra l’essere donna e l’essere madre di Amalia. Tra l’essere uomo e l’essere donna di Madama Pace. Tra una sartoria e una casa d’appuntamenti. Tra il “falla tua” e il “non è più nostra”. Tra l’illusione e la realtà. Tra il credere d’intendersi e il non intendersi mai. Tra il racconto e la drammaturgia. Fino alla fine. E quindi senza una fine.

Il sipario si apre su una sala prove di un teatro nudo: senza le abituali e così rassicuranti quinte. I muri perimetrali sono a vista, senza veli, esposti a possibili incontri e a reciproci contagi osmotici. Le corde provenienti dalla graticcia e che sostengono gli elementi scenici sospesi, sono lì, disponibili ad essere sciolte. Anche il fondale è diverso: non chiude nettamente lo spazio scenico. E’ della natura di una membrana, disponibile ad essere sfondata e attraversata.

Questo particolare spazio scenico inizia ad essere abitato da alcuni Attori che arrivano alle prove troppo sicuri e quindi aridi, annoiati, privi della sacra apertura a rendersi disponibili ad essere “posseduti” dal personaggio da interpretare. Sono figli di Immaginazione: combinano e ricombinano situazioni tecniche già conosciute, senza generare nulla di nuovo. Sono affatto inclini alla propositività e al rischio di un’osmosi; piuttosto si mostrano fermamente risoluti nell’arroccarsi in posizioni di sterile difesa.

Soprattutto quando il fondale verrà attraversato dall’invasione barbarica dei sei personaggi, figli di Fantasia. Neri, non solo perché visitati da una serie di lutti (desiderosi d’interpretare in una maniera sempre nuova) ma perché disponibili ad ospitare tutte le ombre che illuminano la vita. Lo leggiamo dalle loro posture, così plasmate e segnate dalle vicissitudini. Anche le più tenere. Su tutte la postura, la voce e soprattutto la risata della figliastra. Talmente scevra da sovrastrutture da incarnare la natura istintuale di una fiera. Che non resiste più alla forza di gravità. E si piega o s’inginocchia in un perenne attacco.

Una “spostata”, come l’etichetta subito il regista. Spostato è il suo sguardo: sempre immerso in un altrove irraggiungibile e che spesso crolla a terra. Mai indifeso. Eppure pudico. Si sente, anche se non lo possiamo leggere nei suoi occhi. Che se li incroci, ti possono pietrificare, come quelli di una Medusa. Ma anche lei ha subito questa pietrificazione dagli occhi di chi non l’ha “riconosciuta”. Per questo ora, come Perseo, sa che deve guardare altrove per resistere. E si aiuta ad orientarsi con le braccia, che diventano i suoi occhi. Anche il suo incedere è precario, come quello di un’equilibrista che tenta di camminare su una fune, per saggiare il proprio equilibrio. Un equilibrio che include numerose cadute verso quel basso che tanto l’attira. Come “La ragazza sulla ponte”, avrebbe bisogno di un lanciatore di coltelli che le faccia”sentire” i suoi speciali confini.

E che dire di quel suo fratellastro, così prossemicamente distante ma anche lui così tentato di cadere giù dal palco, di saltare fuori dalla quarta parete. Quasi come in un trompe l’oeil di Pere Borrel del Caso. E poi la matrigna: l’unica che si dà un nome. Anche lei ha una sua natura da fiera, che a differenza della figliastra si sforza di arginare in un dolore composto, che però non sfugge a involontarie torsioni cariche di pathos. Per poi esplodere in tutta la sua materna ferocia, nell’attimo in cui annusa puzza d’incesto. Trauma che rivive assumendo le sembianze posturali di una croce, contenente e contenuto. Dove a urlare è il silenzio. Come in un quadro di Munch.

E infine il padre: una diversa declinazione del vissuto di Mattia Pascal. Che qui dimostra di aver appreso il potere di attrazione degli oggetti: uno su tutti il cappello. Quello per evocare Madama Pace e quello di paglia, ornato da una ghirlanda di rose, per sedurre la sua giovane amante.

Una qualche “concertazione” alla fine viene raggiunta tra i figli delle due diverse Dee: gli Attori finiscono per disarmarsi, riuscendo ad assorbire le ombre dei Personaggi. Lo vediamo dai loro corpi, che perdono ognuno il caratteristico à plomb e si rendono malleabili ad essere piegati dalle emozioni. In particolare la prima attrice, che trasforma l’ossessivo accavallamento delle gambe in un “basic instinct” sguaiato. Di spalle, non per continuare a ricordare a tutti che lei non può perdere tempo ma perché finalmente inserita e catturata osmoticamente nel personaggio. E nel tempo.


Recensione di Sonia Remoli

Il fu Mattia Pascal

TEATRO MARCONI, 11 Agosto 2021 –

Un Dante e un Virgilio aprono la scena: quest’ultimo, nelle vesti di un bibliotecario, guida il suo “fu collega” nel ripercorrere la discesa, partendo dall’epilogo, nei gironi della sua vita.

Maledetto il colpo di scena di Copernico, così come quelli di cui sono pieni tutti i libri ! E quella cicatrice sulla mano di Romilda: così imbarazzante eppure così perversamente magnetica ! I libri e l’amore confondono il cervello, sono capaci di farti ribaltare antiche convinzioni e ti fanno detestare quel dolce immobilismo con il quale ci si anestetizza per vivere. Ma allora: cosa serve per essere riconosciuti? Per non deteriorarsi fino a diventare vermi?

Un evidente strabismo non è stato sufficiente. Ma neppure sottrarsi alla vista di quel sociale così vicino! Se è vero che un uomo non è fatto per morire ma per dare vita a nuovi inizi, non è vero però che “un (falso) morto non ha debiti ed è quindi libero”. Neanche osare di darsi un nuovo nome, cosa che di solito si riceve senza poterla scegliere, è valso a dare una nuova chance all’affermazione della propria “riconoscibilità”. Per questo motivo, un uomo nuovo, ma inventato, è comunque destinato all’isolamento.

Anche se sceglie una città come Roma, per ricominciare. Anche se qui incontra l’Amore, così verde, così pieno di speranze, così ritroso eppure così disponibile. E finalmente attento. Ma sarà la sensibile e vibrante maestra di pianoforte Silvia a “riconoscerlo” davvero: dai suoi gesti inconsapevoli, dalla sua aura negativa. “Forse però se si lasciasse crescere dei baffi, chissà!”. “No, no, le donne sono troppo complicate!”.

Ma gli uomini non sono mica più limpidi: vogliamo parlare di quel Terenzio, quell’opportunista Gerard Depardieu degli intrighi? O del forbito e tenebroso Alfonso, padre di Adriana, che preferisce la letteratura alla scienza, l’esoterismo del lanternino al lanternone della religione e si trova a suo agio spaziando per tragedie greche?

Il “fu” tornerà a casa come Ulisse ma seppure ad aspettarlo non ci sarà la sua Penelope, scoprirà, per un’inconsapevole eterogenesi dei fini, che Nessuno è pur sempre Qualcuno.

Uno spettacolo che sa solleticare lo spettatore fino a pungerlo, procurandogli una sana e lacerante riflessione. Complice l’arte dell’eleganza del regista Boccaccini.

Per approfondire

Recensione dello spettacolo TRE SORELLE da Anton Cechov – drammaturgia di Mario Moretti – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO MARCONI, 3 Agosto 2021 –

Entrano in scena, da sinistra verso destra: una spumeggiante Marylin, un’adorabile isterica Mondaini e un eternamente stupefatto Stanlio.

Così diverse nel linguaggio non verbale eppure così ricercatamente uguali e simbioticamente prossemiche: sembrano uscite da un’unica matriosca.

Tre sorelle, la cui famiglia “ha scansato loro le fatiche”, si trovano il noiosissimo ménage quotidiano invaso da una brigata di militari, “amanti così provvisori!” .

Nell’attesa di scoprire la verità sull’amore, “benedetto incantatore”, hanno eretto un altare di valigie dedicato a Mosca: la vagheggiata città dell’infanzia perduta dove, pur di tornare, sono disposte a immolarsi in qualsiasi sacrificio: “tanto si sa, il matrimonio è una catena di delusioni !” .

Non sono indenni, nondimeno, a momenti di profondo sconforto, nei quali però sanno librarsi come sibille in rituali magici, intonanti lamenti da “dies irae”. “Bisogna vivere, si sa! “.

E allora anche il saluto della banda ai militari in partenza può assumere la dolce limpidezza di un requiem allo xilofono. Ma “perchè bisogna vivere “, questo ancora non si sa. Ma a teatro lo si scoprirà.

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Recensione di Sonia Remoli