Non è il mio cuore a perdersi, ma il mondo che lascio

LA PELANDA (Mattatoio), dal 31 Marzo al 2 Aprile 2023 –

L’ ACCADEMIA D’ARTE DRAMMATICA SILVIO D’AMICO ALLA PELANDA

Esercitazione degli allievi del secondo anno del corso di regia dell’Accademia Silvio D’Amico
Diploma Accademico di primo livello – A.A. 2022/2023
Supervisione artistica di Giorgio Barberio Corsetti

All’interno della cornice costituita dagli edifici del Mattatoio, dove il moderno stile industriale si mescola con le origini operaie del quartiere Testaccio, si inseriscono gli ampi spazi, di rara suggestione, de “La Pelanda”, originariamente destinati alla lavorazione dei suini.

In fondo, se “il teatro” è una città virtuale, nello stesso tempo “la città” è un teatro potenziale. E se le tradizioni, il tipo di vita, le strutture urbane di una città formano gli atteggiamenti dei suoi abitanti e disegnano, giorno dopo giorno, quegli aspetti caratteristici che rendono unici e irripetibili i luoghi, i quartieri e i cittadini, allora ognuno di noi recita la sua parte e la città assume l’aspetto di un grande palcoscenico naturale.

Una veduta del Mattatoio di Testaccio

E proprio qui, negli spazi urbani de “La Pelanda”, grazie alla collaborazione tra l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e l’Azienda Speciale Palaexpo, nei mesi di Marzo e di Aprile verranno ospitati due progetti di didattica e spettacolo. Saranno guidati rispettivamente da Giorgio Barberio Corsetti e da Antonio Latella.

Giorgio Barberio Corsetti, regista, attore e drammaturgo

Domenica 2 Aprile si è conclusa la terza replica dello spettacolo itinerante “Non è il mio cuore a perdersi, ma il mondo che lascio” (con ingresso libero fino a esaurimento posti). Il progetto era volto allo studio di tre testi di Pier Paolo Pasolini, messi in scena dagli allievi registi di II anno, con gli allievi del II anno del corso di recitazione: Studio su “Porcile”, allievo regista Sergio BiagiStudio su “Histoire du soldat”, allieva regista Giulia FunicielloStudio su “Pilade – Appunti da un’Orestiade pasoliniana”, allievo regista Mattia Spedicato.

Lunga, all’ingresso de “La Pelanda”, la fila per poter accedere allo spettacolo; di più quella della lista d’attesa di coloro (quasi totalmente giovanissimi) disposti ad attendere, pur rischiando di non poter entrare. 

Condotti in uno dei locali predisposti per la rappresentazione, siamo stati fatti accomodare su cuscini a terra o su piccoli sgabelli disposti a semicerchio che facevano da contorno alla scena. Lì già stavano gli attori: sorpresi a terra da qualcosa che li aveva immobilizzati. Scalzi, tutti, e cinti in vita da una lunga e ampia gonna nera. Sono perfettamente armonizzati con i colori del nudo spazio che li ospita: il nero del fondale e delle porte e il colore della chiara “terra” del palco, delle pareti e della loro pelle.

Calato il buio, una donna in bianco fa il suo ingresso: elegantemente, quasi fosse una diva. Come per azione di uno zoom, giunge al nostro cospetto: i suoi occhi lampeggianti vendetta e la sua voce cruda unitamente alle sue parole colme d’ira, ce la rivelano una furia. Ora è chiaro: lo spettacolo itinerante prende avvio con la rappresentazione del progetto: “Studio su Pilade: appunti da un’Orestiade pasoliniana” dell’allievo regista Mattia Spedicato.

“Pilade” di Pasolini rappresenta un’ideale continuazione dell’ “Orestea” di Eschilo: dopo l’uccisione di Egisto e Clitemnestra, il popolo di Argo è in attesa di nuove autorità, allorché arriva Oreste, che spiega al Coro di essere stato ispirato da Atena, dea della Ragione: dea nuova e senza memoria. Oreste decide di cambiare le istituzioni della città e dà incarico all’amico Pilade di organizzare per la prima volta libere elezioni.

Queste danno luogo ad un nuovo benessere economico ad Argo, anche se arriva notizia che alcune Eumenidi relegate sulle montagne come divinità benigne si stiano trasformando nuovamente in Furie. E proprio una di loro scende in città (della quale noi del pubblico rappresentiamo gli abitanti) per ammonirci, a mo’ di prologo, di ciò che accadrà: un mattatoio umano. Chiari sono i presagi: dolore si sta preparando. La terra, ovvero i contadini bloccati a terra, si scuote alle sue parole.

Al suo uscire entrano Oreste (in tailleur borghese) e poi Elettra, dal capo velato di nero: “la monaca”. Ma ad entrare c’è anche qualcuno che tende a posizionarsi ai margini della scena, arrivando anche tra noi del pubblico. Uno che osserva da vari punti di vista, da varie prospettive. E non parla. Veste anche lui un tailleur: nero, però. Anche cromaticamente, oltre che prossemicamente, ci arriva il senso di un “diverso”. Di uno che ha cambiato idea. Di uno che trova il coraggio e l’urgenza di opporsi con un’insolita rabbia.

È Pilade: l’uomo “che sapeva tacere” e per questo era ritenuto “pieno di grazia”. Collaborativo. Ora, invece, va tenuto sotto controllo da quella nuova “mente” alla quale si obbedisce abdicando al proprio pensiero critico. Molto suggestiva la scena che vede Pilade “un caso” da analizzare con tante luci subdolamente “velate”. Così come efficacemente cinematografica risulta la scena che fa di Athena una star degli Anni ’50, che con seducente narcisismo riesce a farsi seguire da un sagomatore. E si duole di essere solo una dea e non un’idea. Cancellata è ormai qualsiasi dialettica. Complice un raffinato disegno luci che si rivela capace di veicolare, come un contrappunto alla narrazione, la densità dei diversi stati d’animo. 

Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Eleonora Bernazza, Ludovica Cerioni, Andrea De Luca, Riccardo Di Cola, Giuseppe Palmese, Stefano Poeta, Vittoria Salamone, Alice Sellan, Leonardo Simone, Ana Trif. E con l’allievo diplomato Renato Civello.

Invitati a spostarci in un altro spazio de “La Pelanda”, veniamo condotti in una sala dove ci aspetta un soldato di ronda. Intuiamo di essere immersi nel secondo studio “Histoire du soldat” dell’allieva regista Giulia Funiciello. Noi del pubblico cingiamo la scena sempre a mo’ di semicerchio. Questa volta siamo testimoni dell’incomunicabilità esistente tra il soldato e una ragazza che, pur essendo a lui prossemicamente adiacente, preferisce indossare delle cuffie che la isolano dal reale. Per ascoltare musica. O forse no. A rompere il loro isolamento, l’arrivo di un altro soldato, ebbro dell’innocente assaporamento della piccola-grande libertà di una licenza. La sua musicalità del gesto e della parola gli permette di entrare in relazione con entrambi: sa come corteggiare il collega e come la ragazza. E lui stesso si presta a essere sedotto dalle richieste altrui: “soname mentre magno Ninè !”. È un bisogno umano essere desiderati dal desiderio dell’altro. Ma c’è chi se ne approfitta: qualcuno che elegantemente vestito si aggira subdolamente tra loro, per scoprire come condurli da un’altra parte. Come è successo “co a cirioletta”, il pane dei poveri, così l’attenzione di Ninetto (questo il nome del soldato in licenza) viene attratta e spostata (anche logisticamente) su un nuovo spazio, morfologicamente “a specchio”, da dove si intravedono piatti colmi di leccornie. Ninetto è tentato: va e invita anche noi a seguirlo. Andiamo.

Scopriamo allora che si tratta di uno spazio contiguo, sul fondale del quale va in scena, proiettata, “la parola” di Pasolini. Che nessuno ascolta: né Ninetto, soddisfatto e lusingato nella sua “fame”; né tantomeno quel tizio che poco prima subdolamente si aggirava nell’altro spazio e che ora mangia apparentemente condividendo lo stesso cibo di Ninetto. Ma la sua prossemica parla di un’eloquente distanza. Intanto noi del pubblico prendiamo posto in platea posizionandoci tra Ninetto, che è sul palco, e quel tipo, che Ninetto ingenuamente chiama “Sor Maè”: il diavolo del consumismo.

La sua “proposta indecente” arriva al momento giusto: quando Ninetto ha soddisfatto “la fame” di cibo e di donne . Queste ultime lo appagano, al di sopra di ogni sua aspettativa, nella sua esigenza di virilità e nell’entrare a far parte del tanto vagheggiato mondo dei media. Si tratta di dedicare solo un giorno della licenza per restare lì con Sor Maé ad insegnargli a suonare il violino. In cambio Sor Mae’ gli insegnerà a leggere (facendo ben attenzione, però, ad escluderlo dalla comprensione dei testi. Troppo pericoloso lasciar pensare le persone con la propria testa!).

Innocentemente sedotto dalla “fama” derivante dalle continue presenze televisive, Ninetto non si rende consapevole che “il diavolo” può essere anche un concetto, un pensiero dominante e che il male può cambiare aspetto con il mutare dei tempi. Spenta la capacità di giudizio critico necessaria per riuscire ad accorgersi della manipolazione, anziché un giorno Ninetto trascorre lì un anno. E come disertore viene arrestato.

Ma “il diavolo della TV” preferisce di gran lunga che sul potere dell’orecchio domini quello dell’occhio: così Ninetto “vedendo” che il diavolo riesce a liberarlo da (quelle) manette, continua a credere “solo” ai propri occhi. Ma il colpo finale sta per scattare e oltre ad essere beffato Ninetto scoprirà che ciò che ha davvero valore è quello che lui già aveva e ingenuamente ha finito per cedere al diavolo: il saper suonare. Il potere dell’orecchio. Interessante in questo studio la scelta dei due spazi scenici “osmotici”: un insolito teatro nel teatro. 

Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Francesca Iasi, Negrar Mojaddad, Juan Moro, Edoardo Raiola. E con l’allievo diplomato Luca Carbone.

L’ultimo percorso ci conduce alla terza sala: quella che ha ospitato la rappresentazione “Studio su Porcile” dell’allievo regista Sergio Biagi. Qui lo spazio scenico è rappresentato da un palco in terra, anzi in grani, che si presta anche alla suggestione di “un ring”, dove sembrano ospitati, ma in realtà lottano, due oggetti dal valore fortemente simbolico: un megafono (simbolo di una comunicazione manipolante, omologante e ossessivamente ripetitiva) e un libro (simbolo di una comunicazione aperta alla diversità delle possibili letture).

Julian, il protagonista, dichiara fin da subito: “io non so chi sono”. Il senso d’identità e l’autostima sono doni sociali ma i suoi genitori sono distratti da altro: la loro azienda e gli ambigui traffici con gli ebrei. Perfettamente inseriti nella mentalità del consumismo, non hanno tempo né autentico interesse altruistico verso il proprio figlio. La loro prossemica parla chiaro: sono seduti tra noi del pubblico, quali semplici “spettatori” passivi di ciò che avviene nella vita di Julien. Si alzano ed entrano in scena solo quando risulta necessario proteggere i loro affari, o per giustificarsi nei confronti di un figlio che non ubbidisce ma nemmeno disubbidisce.

La regola è tacere: che non se ne parli.

Julian è nato il primo giorno di primavera: un momento di transizione potentissimo, che segna il passaggio dal buio alla luce, dal freddo al caldo e che per questo è considerato rigenerante. Julian però sembra rimanere intrappolato, un po’ come Proserpina in questa transizione, propendendo cronicamente verso un’apatia che tradisce solo con una fortissima attrazione verso i maiali.

Ha una cara amica innamorata di lui: Ida, che tenta di sollevarlo da questo torpore. Ma Julian dice di non desiderare nulla di più che il torpore (e il porcile). Così si sente bene. Neanche gli ideali della politica lo solleticano: inutile andare a combattere “i vecchi” borghesi insieme ai “nuovi” borghesi. La situazione peggiora quando Julian cade in coma: per lungo tempo giacerà steso a terra come crocefisso. Unica tensione vitale: i pugni chiusi.

Si riprenderà e con Ida troverà il coraggio di chiarirsi, almeno parzialmente. Lei si sposerà con un altro e lui, anziché tornare al suo “menage” adorato, andrà al porcile sì ma questa volta, per una vocazione al martirio, ad offrirsi in pasto ai maiali. La vita è bella oppure è terrorizzante. Il “diverso” non può essere accettato.

E visto che di Julian non è rimasto niente, il nuovo socio del padre gli chiederà il silenzio su questa vicenda. E’ la dittatura del conformismo. E pensare che invece “… tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito – e comincerà qualcos’altro…” (Medea, prologo). Interessante, in questo lavoro, lo studio fatto sulla prossemica.

Con gli allievi del secondo anno del corso di recitazione del diploma accademico di primo livello: Alessandro La Ginestra, Michele Montironi, Arianna Pozzi, Dario Schutz, Virginia Sisti. E con l’allievo diplomato Davide Fasano.


Scene Massimo Troncanetti
Costumi Francesco Esposito
Suono Franco Visioli
Video (per il progetto Histoire du soldat) Igor Renzetti
Direttore di scena e Luci Camilla Piccioni
Assistente alla regia Luigi Siracusa
Fonico Akira Callea Scalise
Sarta Loredana Spadoni
Foto Manuela Giusto
Riprese video Carlo Fabiano

Bambola – La strada di Nicola

TEATRO LO SPAZIO, dal 30 Marzo al 2 Aprile 2023 –

La nostra identità è davvero espressa dal nostro nome proprio ? E come potrebbe ? Il nostro nome è scelto da altri, i nostri genitori, che inevitabilmente finiscono per caricarlo di tutte le loro aspettative. E’ un po’ come se già prima di nascere “venissimo scritti” da altri . Ma a noi resta ancora la libertà di scrivere qualcosa di “davvero nostro” .

Paolo Vanacore, autore del testo dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”

Questo ci ricorda il testo pieno di bellezza “Bambola, la strada di Nicola” scritto da Paolo Vanacore, interpretato con estroso ardore da un poliedrico Gianni De Feo e musicato dal Maestro Alessandro Panatteri.

Il Maestro Alessandro Panatteri

Nicola è il nome di ripiego di Nicoletta (Strambelli, in arte Patti Pravo) la dea adorata dalla madre di Nicola: quel tipo di donna che la mamma non era riuscita ad essere. Ma ora poteva riuscirci sua figlia: si sarebbe chiamata come lei, Nicoletta, e avrebbe ereditato la sua stessa personalità: libera, vera, autentica. La signora non lascia minimamente spazio, tra le sue aspettative, alla possibilità di poter dare alla luce un figlio. Quando accade se ne dispera. E non smette di farlo, silenziosamente, per tutta la vita.

La cantante Patty Pravo

Tra frustrazione e inevitabile assecondamento, Nicola cresce. Ma già da bambino inizia a sentire “di essere chiamato” per lasciarsi andare in un’altra direzione. Il primo segnale lo sperimenta nei momenti in cui suo padre, che non nutre invadenti aspettative su di lui e lo ama così com’è, riesce a ritagliarsi degli spazi da dedicargli. Quando cioè, soliti stendersi a terra, il piccolo Nicola ama chiudersi in posizione fetale all’interno del corpo di suo padre, come in un guscio. Quasi l’immagine di una nuova gestazione.

Un paradiso tu vivrai se tu scopri quel che hai…” . Scoprire ciò che si ha, scoprire il proprio “valore”, la propria autentica identità e potervi accedere per “realizzarsi” come persona: questo cantava Patty Pravo, un’avanguardia negli anni ’60. Ma quanta (apparente) sicurezza siamo disposti a cedere per non tradire il nostro desiderio, il nostro talento, senza farlo dipendere totalmente dagli altri ?

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Il padre di Nicola muore quando lui ha solo sette anni e dieci anni dopo sua madre sceglie di suicidarsi. Nicola resta orfano e qualcosa, già vivo in lui, inizia a prendere forma: Bambola. Un nome che Nicola sceglie pensando a quel tipo di donna cantato da Patty Pravo. Una donna che aspetta godottianamente qualcosa che deve arrivare e che con sensibilità leopardiana non può fare a meno di rivolgersi alla Luna per constatarne però ogni volta il suo disinteresse.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Una storia avvincente, personale e insieme universale, immersa nella Roma degli Anni ’60, dove nelle periferie si vivevano i fermenti dei moti di emancipazione: il femminismo, la libertà sessuale, la contestazione giovanile. Periferie laboratorio, dove Pasolini ambientava, tra l’altro, le interviste dei suoi “Comizi d’amore”. Tra le voci di un’umanità che inizia a trovare l’ardire di parlare di sessualità, intervistato è anche un Giuseppe Ungaretti che dichiara che in amore non esiste un concetto di “normalità” che lega gli uomini alla propria natura. A salvarci è solo uno “sforzo di poesia”.

Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini in “Comizi d’amore”

Poesia che Gianni De Feo dimostra di saper portare in scena: sua infatti è la capacità di utilizzare il corpo per catalizzare l’attenzione per poi scoccare il dardo dell’emozione sul pubblico. Con grande controllo di gestualità e mimica: senza mai incorrere in eccessi.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

La cifra stilistica di Gianni De Feo trova espressione in una capacità registica ed attoriale sincretica, che si avvale della complice sinergia di linguaggi diversi. La canzone, ri-arrangiata per essere messa al servizio dell’interprete ad esempio e’ una componente drammaturgica imprescindibile che, unita alla lingua da proscenio, dà vita ad una proposta di teatro canzone davvero molto interessante. Frutto della particolare affinità tra Gianni De Feo, Paolo Vanacore (autore del testo), il Maestro Alessandro Panatteri e Roberto Rinaldi (curatore delle scene e dei costumi).

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

David Copperfield sketch comedy -un carosello dickensiano

TEATRO VASCELLO, dal 28 Marzo al 2 Aprile 2023 –

È un inno all’istrionismo questo adattamento del “David Copperfield” dickensiano a cui dà vita il visionario regista Marco Isidori.

I sette attori-giocolieri in scena (ognuno con una pluri-partitura) volutamente indulgono in una recitazione enfatica, volta a suscitare plateali emozioni. Eccezionali le loro doti sceniche: un’atletica prestanza fisica si unisce ad una scultorea plasticità vocale, entrambe costantemente mutevoli. In bilico: così com’è la vita.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Una recitazione, la loro, proprio perché contestualmente variegata, ricca e magnetica: capace di esaltare fisicamente il testo. Sono loro stessi testo. Un testo in cui lo spettatore può concedersi il lusso di perdersi, lasciandosi trasportare. Senza preoccuparsi di capire.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori al Teatro Vascello

Perché i personaggi sono parte di un tutto e tutto diventa personaggio. È un grande gioco: il gioco del teatro, del tutto per tutto. Gioco che i Marcido chiudono non con il malinconico disincanto de “La tempesta” shakespeariana ma con il grato ” Quant’è bello svanire ! ” .

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori

Dall’estroso caos della pittrice e scenografa Daniela Dal Cin, dove spesso accade che scena e costume si fondino e confondino, ha preso forma una macchina scenica sui generis. Calibratissima sempre. Sui tre lati del palco si sviluppa, a delimitare lo spazio scenico, una struttura metallica che apre a varie suggestioni: da un militare ripostiglio di armi in asta, a un’ordinatissima cabina-armadio di “personaggi” che, qui, hanno trovato un autore. Un dietro le quinte a vista: spartano ma caratissimo. In scena, invece, ci sono “le persone”, consapevolmente disposte, in tuta da lavoro con scritta “Marcidos at work”, ad essere in-vestite dai “personaggi”.

Una scena dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori al Teatro Vascello

Il genio di Daniela Dal Cin li ha immaginati bidimensionali come ombre, alle quali la densità grottesca del tratto fumettistico dona tridimensionalità. Voluto è lo iato tra essere e apparire ma soprattutto esaltata è la frammentarietà della natura umana, alla quale il gioco del teatro riesce a dare un’unità. Temporanea. Sempre da ricalibrare sul prossimo equilibrio da riconquistare.

Il cast dello spettacolo “David Copperfield – sketch commedy” del regista Marco Isidori agli applausi

Perché la vita è come una sarabanda: una danza figurata con la morte. Da replicare più volte, con improvvisazioni, secondo uno schema. Come in un carosello. Una continua e diversa “declinazione” è il gioco della vita . E del teatro. Una filosofia, quella del “clinamen ” epicureo, che questa storica compagnia ha assunto a giocosa identità ontologica .

Uno spettacolo che si riconferma una fantasmagorica opera d’arte totale, dove gli attori, abitati dalla percezione delle più varie identità umane, danno vita a partiture musicali incardinate dentro spazi di visione. Leggibili, al di là delle sovrastrutture di senso.

Einstein, il grande racconto dell’astronomia

TEATRO VITTORIA, dal 28 Marzo al 2 Aprile 2023 –

“Perché portare Einstein a teatro?”

Questa la domanda che Piergiorgio Odifreddi, matematico, logico e saggista, immagina che il nostro desiderio di sapere ci abbia suscitato.”La stella” di cui percepiamo la mancanza (la parola desiderio, infatti, questo significa) e che ci predispone ad ascoltare un “racconto”. Il suo: il grande racconto dell’astronomia, questa scienza così densa di stupore intelligente. Sì, perché il sentimento di meraviglia e l’analisi calcolata non sono in contraddizione. Anzi, le più importanti esclamazioni sono preparate proprio dalle più profonde interrogazioni.

Ecco allora che Odifreddi, da buon narratore, anziché esaudire subito il nostro desiderio in qualche modo continua ad accrescerlo. Con un pizzico di sana impertinenza, insiste e ci solletica dicendoci che in effetti “Einstein non è un personaggio inventato ( come generalmente sono quelli che accoglie il teatro) ma è più di un personaggio di fantasia” .

Ora, se è pur vero che nulla, forse, si realizzerebbe senza la fantasia, che cosa si intende davvero per “fantasia” ? Potremmo dire che non è una forma di intelligenza, né un sentimento ma quel “quid” che permette di collegare elementi apparentemente lontani, aprendo la mente a una visione alternativa di ciò che potrebbe accadere.

Joan Mirò – Fantasia –

In questo senso, l’arte, la tecnologia, la scienza e persino la società civile devono molto alla fantasia, all’immaginazione, alla creatività, all’inventiva. E in effetti Einstein è stato l’uomo che più di altri ha cambiato la nostra percezione del mondo. Questa, allora, è la chiave di lettura della mappa da utilizzare per “viaggiare nel tempo” insieme a Odifreddi.

La sua narrazione partirà da Copernico (1473 – 1543) per arrivare fino ad Einstein (1879 – 1955) prestando attenzione, però, non solo a come questi uomini hanno cambiato la visione del mondo grazie alla loro “fantasia” ma anche grazie ai loro “errori”.

Gli errori sono infatti quel “di più” di cui Odifreddi ci aveva parlato: “Einstein non è un personaggio inventato ma è più di un personaggio di fantasia”. Gli errori, sì, così fertili: soprattutto per chi viene dopo. Questo si verificò con la teoria eliocentrica di Copernico, che passò attraverso la riflessione di Giordano Bruno e poi attraverso quella di Galileo Galilei. Fino a Newton, le cui formule matematiche, una vera e propria novità del periodo, passarono osmoticamente i confini delle scienze per trovare accoglienza anche tra i confini della letteratura. Voltaire, Emilie du Châtelet, Diderot e lo stesso Tolstoj presero a utilizzarle nei loro testi letterari. Anche Einstein partirà da Newton per andare “oltre”.

Sarà anche per questo che Odifreddi conclude la sua narrazione affermando che “gli scienziati sono gli uomini più religiosi”, coloro cioè che approntano delle scelte, prestando molta attenzione ai fatti.

Piergiorgio Odifreddi

Un teatro di narrazione quello di Piergiorgio Odifreddi che mira a mostrare la pervasività della scienza in generale, e della matematica in particolare, nella cultura umanistica: soprattutto nella letteratura, nella musica e nella pittura, ma anche nella filosofia e nella teologia.

Sergio Maifredi

L’attenta regia di Sergio Maifredi fa sì che il testo guidi una narrazione agile; ed effettivamente il racconto si dispiega in maniera molto leggera. Solo apparentemente compassata, la narrazione risulta in realtà disseminata di guizzi ironici e garbatamente impertinenti, funzionali a mantenere desta l’attenzione per oltre due ore.

E quindi se è vero che ciò che caratterizza il “teatro” è il desiderio di guardare, di osservare, allora Einstein, e i vari personaggi della matematica, a buon diritto possono essere accolti in teatro. Uomini desiderosi, tutti, di avere shakesperianamente una musa di fuoco che li levi al più fulvido cielo dell’immaginazione.

Recensione dello spettacolo ASCOLTA COME MI BATTE FORTE IL TUO CUORE di Wislawa Szymborska – con Maddalena Crippa – progetto e regia di Sergio Maifredi –

TEATRO VITTORIA, 27 Marzo 2023 –

In un effervescente Teatro Vittoria, si è tenuta ieri la serata inaugurale dell’anno dedicato a Wisława Szymborska (1923 -2012), in occasione del centenario dalla sua nascita. Ad aprire la serata la presentazione del progetto, nato due anni fa da un’idea di Andrea Ceccherelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università di Bologna) e di Luigi Marinelli (professore ordinario di slavistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma), da parte del regista Sergio Maifredi, curatore del progetto e dello spettacolo. Uomini, loro, tutti legati da grande amicizia a Pietro Marchesani, il traduttore per l’Italia delle opere di Wisława Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996.

Wisława Szymborska, poetessa Premio Nobel per la Letteratura nel 1996

Ospiti d’onore della serata, inoltre, il segretario personale della Szymborska Michał Rusinek (di cui ora gestisce la Fondazione) e la Direttrice dell’Istituto Polacco di Roma Adrianna Siennecka. L’evento inaugurale della serata rientra, infatti, nelle celebrazioni ufficiali indette dal Senato della Repubblica di Polonia.

Ultimate le presentazioni ufficiali, il calare delle luci in platea introduce il pubblico in sala all’immersione in un clima diverso: più intimo. A raggiungere il pianoforte a coda sul palco, è il pianista Michele Sganga, che per l’occasione ha composto una raccolta di brani dedicata all’energia vitale di Wisława Szymborska.

Michele Sganga, pianista dello spettacolo “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”

Un’opera variegata ma unitaria la sua, leggera e complessa, in cui movimento danzante e stasi contemplativa si rincorrono senza mai raggiungersi, in quel circolo vitale che è la danza stessa del reale. Due linee guida che il musicista, spinto da quel senso tutto szymborskiano di curiosa apertura al paradosso, segue e reinterpreta in modi diversi.

Sergio Maifredi, regista dello spettacolo “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”

La raffinata regia di Sergio Maifredi sceglie che prima che il maestro Sganga posi le sue mani sui tasti del pianoforte, entri in scena la commossa sensibilità dell’interprete Andrea Nicolini, con una rosa rossa, dal lungo gambo: omaggio e presenza stessa della poetessa. Con autentica sacralità, Nicolini la posa a terra: al centro della ribalta. “Che cosa penserebbe la Szymborska di questa nostra incontenibile gioia di ricordarla ?” – si chiede, traducendo ad alta voce i nostri pensieri. Magari direbbe, con quel sorriso reso unico dalla sua cordiale e brusca ironia, che “per caso” così tanti amici e sconosciuti si sono organizzati e dati appuntamento al Teatro Vittoria. E “cosa farà ora? Firmerà autografi, anche lì dove si trova, o si godrà una sigaretta ascoltando la sua adorata Ella Fitzgerald ?”.

Andrea Nicolini

A suggellamento di questo rituale oramai officiato, il pianista Michele Sganga trova quelle note che, sprigionandosi nell’aria, traducono e danno una qualche risposta alle nostre domande.

Ora la voce della Szymborska può “trovare scultura” attraverso la mirabile emissione vocale di Maddalena Crippa. Una lettura interpretativa, come l’avrebbe desiderata Lei, la nostra poetessa: scevra da toni solenni. Fluida, come pensata.

Maddalena Crippa

La regia di Maifredi prevede acutamente che anche Andrea Nicolini si sieda, lì sul palco, bagnato da una luce che rende sacro il suo ascolto. Successivamente si alternerà a Maddalena Crippa nella lettura, regalando un colore “a tutto tondo” al carteggio intercorso tra la Szymborska e il suo amato Kornel Filipowicz.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Nella magia di un’incantevole serata della primavera romana, è andata in scena, nel “tempio” del Teatro Vittoria, la rievocazione di quel verso libero, tipico di Wiesława Szymborską. Così complesso eppure percepito in maniera così sorprendentemente semplice. Fruibile con agio da tutti: solo la genialità della poetessa premio Nobel è riuscita a cesellarlo. Come una miniaturista.

Wiesława Szymborską, da giovane

Perché dietro quell’arguta e succinta scelta delle parole si cela una profonda introspezione intellettuale. Una lirica filosofica la sua, dove si apprezza la bellezza della certezza ma di più quella dell’incertezza. Perché il destino, fino a che non è pronto a manifestarsi, “si diverte a giocare” con gli uomini. E allora la sua poesia è la meravigliosa e incantata espressione di un “non so”, al quale però ci si può aggrappare “come alla salvezza di un corrimano”.

Wiesława Szymborską insieme a Kornel Filipowicz

Perché, sebbene la parola “tutto” sia “solo un brandello di bufera”, il savoir-vivre cosmico esige da noi “un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal e una partecipazione stupita a questo gioco, con regole ignote”.

Wiesława Szymborską


Recensione di Sonia Remoli

Nei panni di una donna ?

TEATRO LE FONTANACCE, 26 Marzo 2023 –

Da ingegnosa artigiana teatrale, Luciana Frazzetto, nel “dare forma” al personaggio femminile di questo monologo, non poteva trovare migliore mestiere per connotarlo che quello legato alla sartorialità. 

Luciana Frazzetto, autrice ed interprete del monologo comico “Nei panni di una donna?”

Obiettivo degli autori (il testo è scritto a quattro mani da Luciana Frazzetto e da Riccardo Graziosi) è “attagliare” un personaggio femminile: costruirgli cioè un “habitus”, un modo di fare, che lo renda contemporaneamente singolare ed universale. Una sorta di “taglia unica”. 

Riccardo Graziosi autore, con Luciana Frazzetto, del monologo comico “Nei panni di una donna ?”

Ma come accade nei migliori ateliers dove la sarta apporta gli ultimi dettagli “in presenza”, ovvero durante la prova con il cliente, appuntando gli spilli e ricontrollando l’esattezza della cucitura su una spalla o su di un fianco, così la Frazzetto solo una volta al cospetto del pubblico in sala, apporta gli ultimi aggiustamenti al suo personaggio. La sensibilità dell’attrice è tale che, non staccando mai l’ascolto sul pubblico, riesce ad improvvisare “rimodellamenti” cercando e trovando, momento per momento, il giusto accordo con le reazioni del pubblico.

Un collage di alcuni momenti dello spettacolo “Nei panni di una donna?” di Massimo Milazzo

Non solo: obiettivo degli autori è anche quello di non irrigidire il personaggio, e i temi che lo connotano, “modellandolo” solo sull’universo femminile. Ci riescono grazie ad un bizzarro escamotage che coinvolge, nel complesso universo femminile, il più lineare sguardo maschile. Ne deriva una partecipazione di pubblico totalizzante. Sempre. 

Luciana Frazzetto in una scena dello spettacolo “Nei panni di una donna?” di Massimo Milazzo

La capacità della Frazzetto di rompere la quarta parete è tale che per tutto lo spettacolo il pubblico dà vita ad un continuo contrappunto di commenti catartici. Straripano le risate. Ma progressivamente lasciano spazio anche ad accorati sospiri che, sul finale, confluiscono in qualche lacrima.

Massimo Milazzo, il regista dello spettacolo “Nei panni di una donna?”

Attraverso l’attento sguardo d’insieme di Massimo Milazzo, il personaggio femminile protagonista del monologo non solo drammaturgicamente ma anche registicamente risulta incline a smussare angoli e ad allungare o accorciare pretese, come fossero orli. Fino ad arrivare a trovare uno sviluppo, dove la protagonista imparerà che non sempre è possibile creare ponti, come si fa intagliando asole per abbottonare due punti di vista. A volte i ponti vanno fatti saltare. Subito.

Perché le donne non “si toccano” !

Luciana Frazzetto

Merito dello spettacolo è quello di affrontare il tema della violenza sulle donne al di là dei moralismi. La chiave di volta, qui, è l’utilizzo del paradosso della risata che, opportunamente indirizzata registicamente, diventa dapprima amara e poi di rottura. 

Esemplare il sodalizio artistico (e di vita) di due splendide persone come Luciana Frazzetto e Massimo Milazzo, che sono riuscite e riescono ogni volta a “sedurre” platee colme di presenze umane, che sentono l’urgenza della benefica funzione del teatro. Un presidio culturale, quello da loro fondato a Rocca Priora, davvero prezioso.

Recensione IL SOCCOMBENTE – di Thomas Bernhard – regia Federico Tiezzi

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Marzo 2023 –

Desiderio, più o meno confessato, di ogni essere umano è quello di avere “un testimone”: qualcuno che si interessi al nostro modo di stare al mondo, che condivida con noi esperienze e, proprio per aver avuto diretta conoscenza dei fatti della nostra vita, possa far fede nel rievocarla. Mantenendone la memoria.

Sandro Lombardi è il Narratore nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

Speciale investitura che in questo testo di Thomas Bernhard (tradotto da Renata Colorni e ridotto da Ruggero Cappuccio) cala su un innominato Narratore, testimone e unico sopravvissuto di una singolare amicizia, una e trina, che dà vita a diversi esiti, tutti riconducibili però alla medesima domanda: chi siamo? Ovvero, cosa ci identifica davvero? O meglio: che cosa ci rende “realizzati”? E poi: cosa siamo disposti a fare per individuare e portare a compimento il nostro “daimon”, il nostro talento?

Thomas Bernhard, autore del testo “Il soccombente”, facente parte di una Trilogia sulle Arti

Il regista Federico Tiezzi affida l’interpretazione di questo particolare “testimone-narratore” a un lucido e ancora tormentato Sandro Lombardi, a cui regala un ironico disincanto che contribuisce a renderlo ricco in fascino passivo. In un corposo flusso di coscienza, il Narratore, comodamente assiso in una poltroncina del suo salotto/camerino, rievocando gli effetti di quell’indimenticabile incontro con Glenn Gould , prova a rintracciarne le cause. Ora, a circa trent’anni dall’evento e a pochi giorni dal suicidio di Wertheimer. Gould era solito identificare l’amico-collega qui Narratore con l’appellativo di “filosofo”. E forse, proprio per questa sua presunta natura socratica, non riesce a colmare attraverso la scrittura di un libro quell’epifania che Glenn Gould rappresenta. Ancora.

Glenn Gould, tra i più grandi pianisti mai vissuti

Il suo elegante spazio, insieme luogo della mente, ri-ospita gli amici che per due mesi e mezzo hanno frequentato il corso tenuto dal grande maestro russo Vladimir Horowitz a Salisburgo. Periodo in cui hanno condiviso tutte le ore del giorno e quelle della notte a studiare e ad esercitarsi ossessivamente al pianoforte: lui, il Narratore, Wertheimer e l’immensamente ingombrante Glenn Gould, iconograficamente rappresentato dal nero Steinway, oggetto del desiderio nel quale Gould anelava trasformarsi.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi al Teatro Vascello

Ricchissimo di suggestione “lo scenario” che ospita questa ambientazione salottiera, così lontana dalla frenesia che contraddistingueva lo spazio che li voleva uniti nel condividere un’irrefrenabile passione per la musica. Ma le “morbide” linee curve del salotto vengono inscritte in rigide geometrie sulle quali si incide la perfezione, e quindi il mistero, di una triangolazione. E su tutto cala, come un deus ex machina, l’eterna presenza di Glenn Gould, rapito esecutore delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. Una scenografia che con il rigore di un pentagramma ospita i corpi degli attori, punteggiatura “in posa”, priva di un autentico “daimon”.

Pagina dello spartito con la prima Aria delle Variazioni Goldberg scritte da Johann Sebastian Bach

Geniale il lavoro sul corpo dell’attore che il regista Tiezzi ha individuato per ciascuno di loro.

Federico Tiezzi, regista dello spettacolo “Il soccombente”

La staticità per il corpo del Narratore (Sandro Lombardi) che, rapito dall’urgenza del flusso di coscienza, sceglie un punto di vista da cui riesaminare tutta la vicenda.

Una scena dello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi al Teatro Vascello

La funambolicità per il corpo di Wertheimer (Martino D’ Amico): quella della psiche trova espressione in una fisica sfida all’equilibrio gravitazionale, che lo porta ad assumere quasi esclusivamente posizioni da “soccombente”. Lo scopriamo, infatti, o spalmato sul pianoforte (come appena atterrato dal volo per suicidarsi), o continuamente tentato a salire sopra gli oggetti d’arredo (quasi volendo pregustare il febbrile osare lanciarsi in volo da ogni altezza).

Martino D’Amico è Wertheimer nello spettacolo “Il soccombente” di Federico Tiezzi

E poi la prossemica della sorella di Wertheimer: predata come una cerbiatta e responsabile per lungo tempo di essersi resa disponibile ad accettare di gravitare intorno a lui, quale unica forza di attrazione. Assecondandolo, e così illudendolo, di colmare in qualche modo i suoi insopportabili vuoti di senso. Plasticamente strabiliante la duttilità vocale e fisica dell’interprete Francesca Gabucci.

Francesca Gabucci

Perché quello che fin dall’inizio Gould aveva ri-nominato ” il mio caro soccombente” (Wertheimer) era in qualche modo predestinato a tale fine, non avendo in sé (già molto prima del loro incontro) un vero baricentro di consapevole unicità esistenziale. Oscillando, da sempre, tra il prevaricare e l’arrendersi.

Fatale esito di un processo già avviato, la paralisi sinestetica provocata in Wertheimer dall’ascolto dell’esecuzione delle Variazioni Goldberg da parte di Gould si originava in chi si era accorto che ciò che fa la differenza tra essere o non essere un Artista è saper “entrare in relazione” con la musica . E non semplicemente sottomettersi ad essa, oppure prevaricarla. Un fuoco che arde perché crea. Non per incenerire.

Glenn Gould

Gould, ci riferisce lo stesso Narratore, era solito usare espressioni come “stare nella pelle”, “stare nei panni”. Di più: sapeva lasciarsi rapire dalla musica come da un’amante, complice la consapevolezza che poi lei stessa avrebbe saputo come ricondurlo in superficie. Temporaneamente. Fino al successivo amplesso.

Come descritto da Platone ne “Il Simposio“. E come dichiarato dallo stesso Gould, che definiva il lavoro incubatorio che avrebbe portato alla luce le sue opere “un romanzo d’amore” . Una relazione amorosa tale da riuscire a rendere “speciale” e quindi “unica” anche quella “diversità” che per i suoi amici è restata solo una discriminante malattia.

Questo, forse, è l’Artista.

Questo, forse, è riuscire a fare qualcosa di fertile con l’Infelicità.


Recensione di Sonia Remoli

Teresa la ladra

TEATRO PARIOLI, dal 22 al 26 Marzo 2023 –

Un cono di luce bagna solo Lei. Il resto è immerso nel buio. Finalmente, qui sulla scena, Teresa (una fantasmagorica Mariangela D’abbraccio) riceve quell’attenzione accogliente e piena d’interesse di cui nella vita non è mai stata oggetto. Neanche quando è venuta alla luce: al momento del parto la madre la credeva morta e il padre voleva buttarla nell’immondizia. È stata la sua sana prepotenza di sopravvivenza a farla urlare con tutto il fiato, che non sapeva neppure di avere in gola, per reclamare il diritto ad esistere. Sua mamma era spesso triste e anziché parlarle, la picchiava. E così erano soliti fare i suoi fratelli più grandi.

Una scena dello spettacolo “Teresa la ladra” di Francesco Tavassi al Teatro Parioli

Mentre parla di loro, alcuni ragazzi entrano in scena: sono dei “nuovi fratelli, ovvero i musicisti dell’orchestra dal vivo che, abbracceranno, attraverso la musica, le parole di Teresa. Lei è bella: ingenua e insieme selvatica. Soprattutto è una donna con un destino da clandestina, da randagia. Ma più di tutto è coraggiosa: questo la fa bella davvero. La sua geografia mentale la rende irresistibilmente interessante: nel bene e nel male.

Mariangela D’Abbraccio in una scena dello spettacolo “Teresa la ladra” di Francesco Tavassi al Teatro Parioli

Per sopravvivere sarà costretta a rubacchiare, perchè in tempo di guerra, a volte non basta essere disponibili a lavorare. E noi, nonostante tutto quello che lei ci racconta, restiamo dalla sua parte. Perché Teresa difende sempre la propria integrità morale ma soprattutto non smette di cercare e di farsi domande per capire quanti volti può avere la libertà: leggera come una febbre e pesante come un’angoscia.

Mariangela D’Abbraccio in una scena dello spettacolo “Teresa la ladra” di Francesco Tavassi

Quella di Teresa è una storia individuale che sa diventare patrimonio universale: la sua, come la nostra, è una vita spesa nella ricerca dell’affermazione della propria identità personale. Teresa siamo noi, tutti noi. Noi che ci sentiamo ladri quando osiamo preservare la nostra più pura essenza; noi che rubiamo scampoli di libertà per riuscire ancora a respirare. Noi che guardandola, ritroviamo nei suoi occhi la nostra luce.

Francesco Tavassi, il resista dello spettacolo “Teresa la ladra”

La regia di Francesco Tavassi porta in scena un adattamento del testo di Dacia Maraini Memorie di una ladra” del 1972 , che tanto appassionò Pasolini per il sapiente lavoro su una lingua popolare d’antan, unendo parole e musica; gesti tormentati ma anche pieni di delizia. È una partitura tutta costruita sul ritmo e sulla velocità, seppur in un corposo ritratto d’epoca di circa due ore, all’interno del quale Teresa è immersa e travolta, senza mai però restarne succube o sottomessa.

Dacia Maraini, autrice del libro “Memorie di una ladra” , al quale si ispira lo spettacolo “Teresa la ladra”

Sta forse nella sua particolarissima genesi il segreto dell’energia travolgente di questo romanzo. Mentre conduceva un’inchiesta giornalistica sulle condizioni nelle carceri femminili italiane, nel 1969 Dacia Maraini incontrò una detenuta dalla personalità straripante, Teresa Numa: “Le ho parlato per due minuti e ho capito che era il personaggio che cercavo”. Non potendo intervistarla a causa dei regolamenti carcerari, la Maraini ha aspettato qualche mese che la donna uscisse di galera e ha raccolto per circa un anno la sua drammatica (ma anche grottesca e avventurosa) testimonianza sulla sua vita e la sua carriera di ladra e truffatrice: una storia picaresca, l’ha definita a ragione la Maraini, che ha frequentato poi la signora Teresa fino alla sua morte, avvenuta qualche anno fa. 

Dacia Maraini, “Memorie di una ladra”, BUR

Lo spettacolo di Tavassi mantiene del romanzo anche la forma della testimonianza orale: sono state volutamente lasciate ripetizioni, contraddizioni, riflessioni e il linguaggio è colorito, sgrammaticato, ricco di neologismi non voluti. Un vero capolavoro di Neorealismo straccione e grottesco che ha ispirato il film ” Teresa la ladra ” diretto nel 1973 da Carlo Di Palma e interpretato da una indimenticabile Monica Vitti e da Stefano Satta Flores

Locandina del film di Carlo di Palma “Teresa la ladra” con Monica Vitti

Ora, da qualche anno ormai, il testo è stato adattato a monologo teatrale e portato in scena con lusinghiero successo da Francesco Tavassi e da Mariangela D’Abbraccio sui palcoscenici di tutta Italia. Sinergicamente la scrittrice, l’attrice e il regista hanno pensato che la musica e le canzoni potessero essere uno strumento espressivo utile a completare il racconto rocambolesco di Teresa, facendo di questo spettacolo una sorta di operetta musicale, di teatro-canzone.

Sergio Cammariere, il musicista che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo “Teresa la ladra”

E’ stata dunque fondamentale la collaborazione di Sergio Cammariere , che ha scritto una vera e propria colonna sonora oltre a delle canzoni originali su testi della stessa Maraini. Mariangela D’Abbraccio è la Teresa che oltre a raccontarsi canterà la sua storia accompagnata da un gruppo di musicisti, in una formazione suggerita dallo stesso Cammariere. Prende forma così uno spettacolo funambolico così come la vita di Teresa.

Mariangela D’abbraccio, interprete di Teresa nello spettacolo “Teresa la ladra”

Mariangela D’Abbraccio, lasciandosi plasmare dallo sguardo della Maraini, sempre così affascinato dalla “diversità” e quindi dall’unicità dell’essere umano, riesce nell’arduo tentativo di restituirci tutta “la tenerezza” di una donna come Teresa. E fa sì che quello sguardo carico di tenerezza noi riusciamo a regalarlo anche a noi stessi.

Una storia semplice

TEATRO VITTORIA, dal 21 al 26 Marzo 2023 –

Che non si tratti di “una storia semplice” subito viene registicamente dichiarato dall’adattamento di Giovanni Anfuso . Il sipario si apre, infatti, su una scena buia dove gli attori, allineati su due diversi schieramenti, danno le spalle al pubblico. Si celano al loro sguardo. E se, una volta illuminati, si voltano lo fanno con fare losco, con sospetto. Come a difendersi. Ma da cosa? Dalle complicazioni, da scandagliare, insite nella ricerca della verità. E quindi della giustizia.

Giovanni Anfuso, il regista dello spettacolo “Una storia semplice”

A opporsi a questa prossemica, la postura aperta e solenne di Giuseppe Pambieri, voce narrante dell’autore. Entra in scena, infatti, declamando la frase di Dùrrenmatt che, a mo’ di prologo, anticipa condensandola in poche righe, l’ostinata fiducia sciasciana nel “pianeta uomo” (come ribadirà sul finale, a suggellamento):

“Ancora una volta voglio scandagliare

scrupolosamente le possibilità che

forse ancora restano alla giustizia”.

Giuseppe Pambieri (voce narrante dell’autore) in una scena dello spettacolo “Una vita semplice”

Pambieri sa come insistere, attraverso il gesto e la parola, sul valore umano e civile del concetto espresso dalla parola “ancora” (ripetuta, a breve distanza, ben due volte) facendosi luminoso portavoce, attraverso Dùrrenmatt, di quella resiliente poetica sciasciana eppure così consapevole della tentazione tutta umana a sviare dal corretto esercizio delle giustizia. Uno scetticismo “salutare” quello di Sciascia: il miglior antidoto, come era solito ribadire lui stesso, contro quel fanatismo ottimista che finisce per uccidere la libertà.

Leonardo Sciascia, Una storia semplice (1989)

D’altronde già la stessa parola contenuta nel titolo, “storia”, una delle più importanti della nostra lingua, non esprime un semplice concetto, bensì una narrazione. E, come tale, “la narrazione” si può caricare di molteplici significati, perché diversi possono essere gli sguardi, i punti di vista, su un evento.

… è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcela al più presto…non facciamo romanzi…”

E questa è la cifra più importante della nostra specie, della nostra ambivalente natura: quella “irriducibile disparità di punti di vista” che ci può far eccellere o che ci può condurre ad un perverso abbrutimento.

Il cast dello spettacolo” Una storia semplice” di Giovanni Anfuso

Il regista Anfuso gioca molto in questo suo adattamento sull’evidenziare le diverse narrazioni, i diversi punti di vista, tenendo un giusto equilibrio tra bene e male, tra serio e faceto, tra drammatica densità e necessaria leggerezza. Fedelmente al testo originale, Anfuso inscena una guerriglia tra quei personaggi che si ostinano a far sembrare “semplice” ciò che non lo è (sebbene appartenenti ad ambienti che dovrebbero ergersi a tutela della sicurezza dei corpi e delle anime) e quei personaggi che invece sanno dare voce ad un’ urgenza di approfondimento. Come il brigadiere Antonio Lagandara (un poetico Paolo Giovannucci) o il Professore Carmelo Franzò (sagacemente interpretato da Giuseppe Pambieri).

Guerriglia ben resa dal corpus attoriale in scena, che sa avvalersi di un opportuno utilizzo del ritmo: sottolineando efficacemente l’ossessività di alcuni atteggiamenti con un’ironica e scanzonata musicalità del suono e del movimento. Lo spettacolo si articola, infatti, dando vita esso stesso ad un affresco (complici le scene di Alessandro Chiti e i costumi di Isabella Rizza) raffigurante una “rutilante” umanità shakesperiana, ambiguamente devota ad alcune figure di santi.

Georges de La Tour, San Giuseppe falegname (1642)

La vicenda narrata viene infatti incastonata proprio nel giorno della vigilia della “sentitissima” festa dedicata a San Giuseppe falegname: il santo che rappresenta la dignità del lavoro. Ma non solo: anche il santo che rappresenta una particolare figura di “paternità”: non naturale ma che “si può scegliere”, come dirà “il figlio” dell’assassinato Giorgio Roccella. Perché sono i “padri” coloro che possono insegnare ai figli a interiorizzare il valore della “legge”, il suo carattere di necessario “limite”.

Busto di Sant’ Ignazio, ambito lombardo, XVII sec.

L’altro santo “complice” di questa “storia semplice” è Sant’Ignazio: il santo dall’intelletto “illuminato” e dall’ “intuizione” quasi infallibile, dietro il cui busto viene nascosto l’interruttore della luce del luogo in cui viene conservata la refurtiva. S

Un Santo solo apparentemente complice di un nascondimento, che infatti si rivelerà, al momento giusto, attraverso “un improvviso caso di sdoppiamento” pirandelliano: sarà proprio il commissario di polizia (un potentemente torbido Stefano Messina) a tradirsi attraverso un atto mancato. Inconsapevolmente rivelerà il posizionamento di questo interruttore “segreto”: un lapsus d’azione, come se “in quel momento fosse diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso”.

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Natività dei santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, 1600

Inoltre è una tela raffigurante la “Natività dei santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” del Caravaggio l’oggetto del desiderio innominato che spicca tra la refurtiva nascosta nella soffitta del diplomatico assassinato Giorgio Roccella e il cui furto, fatto di cronaca realmente accaduto a Palermo nell’ottobre del 1969, ha fortemente colpito la sensibilità di Leonardo Sciascia , tanto da costituire una forte ispirazione per questo suo ultimo racconto del 1989 (anno anche della sua morte).

Leonardo Sciascia (1921 – 1989)

Le arti figurative costituiscono un elemento importante per ben comprendere l’opera sciasciana. Ed è meravigliosa la soluzione scenografica finale (di Alessandro Chiti) di “riportare alla luce” la semplice maestosità della tela del Caravaggio, da dietro le sinistre – ma proprio per questo efficacissime – architetture che velano e svelano i retroscena dell’inquietante vicenda.

Leonardo Sciascia, illustrazione di ARGO | fb.com/argoimago

Uno splendido modo per tentare di sublimare il mancato ritrovamento della tela ma soprattutto per ricordare, sempre, un uomo divisivo e scomodo come pochi ma che dalla sua avversione contro i compromessi, verso la quale ci sentiamo sempre più spesso in debito, trae ancora oggi, a oltre 100 anni dalla nascita, la sua modernità. 

Molly B.

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 16 al 19 Marzo 2023 –

Prendendo posto nell’intima sala del Teatro Argot non si può non costeggiare il letto disfatto nel quale giacciono un uomo e una donna. Sembrano addormentati, probabilmente colti dalla mollezza della fine di un convegno amoroso: sono rimasti sfalsati, lei con la testa tra i cuscini, lui con la testa tra i piedi di lei.

Il letto che li ospita ha un’insolita testiera nella quale sono stati attirati e catturati tutti gli oggetti di scena, quelli che possono arredare uno spazio. Come se una potentissima forza di attrazione li avesse calamitati. E bloccati. Per dare vita ad un altro spazio. Tutto suo. Solo suo. E insieme di tutti.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

È una notte d’estate dai sentori ancestrali: canta la cicala e a lei, talvolta, s’unisce l’upupa. La donna, immersa profondamente in questa atmosfera magico-onirica, inizia a muoversi nel letto e nel dormiveglia, quasi come un ulteriore uccello, inizia ad emettere suoni che via via vanno assumendo la chiarezza di una serie di affermazioni: “sì … sì … è così …” .

Ora, può prendere avvio una lunghissima moltitudine di pensieri, di ricordi, di suggestioni, tipiche di chi si muove in quello stato primordiale qual è la fase tra la veglia e il sogno. È l’amore, l’argomento che li unisce tutti: l’amore come spinta vitale, come appetito, come affamato bisogno d’incontro e di scontro. Di complicità e di schermaglia. Di bugie e di confessioni. Di maschile e di femminile. In una parola: fame di sedurre e di essere sedotti.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Questo movimento dell’immaginazione richiama, coinvolge ed accende il corpo di lei che, dall’iniziale posizione fetale, inizia ad aprirsi sempre più generosamente, fino a bagnarle gli occhi.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Iaia Forte dimostra una potenza straordinaria a lasciarsi possedere dall’immaginazione. È talmente coinvolta che sembra rapita da un “daimon” che la rende sacra e le permette di fingersi, anzi di essere, maschile e femminile. E poi femminile e maschile. In un continuo scambio di ruoli. Non ci guarda, ma noi del pubblico il suo sguardo lo percepiamo con nitidezza: si insinua ovunque. 

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Lei è Mollly Bloom e siamo nel diciottesimo e ultimo episodio dell’ “Ulisse” di James Joyce, noto come il “monologo di Molly Bloom”. Un flusso ininterrotto di oltre quaranta pagine, che conta due soli segni di punteggiatura. E’ costituito da otto enormi frasi nelle quali Molly inizia a riflettere, prima di addormentarsi, su di una richiesta che il marito Leopold le ha fatto nel capitolo precedente. Per passare poi a considerazioni sui propri amanti, su di sé, sugli altri personaggi incontrati durante il romanzo, in un flusso incessante di idee, memorie, sensazioni, percezioni che scorrono liberamente e senza pause o cesure, proprio come fanno i pensieri nella mente umana.

Iaia Forte

La succulenza vocale di Iaia Forte, diretta do sguardo di Carlo Cecchi, da sempre attento al gesto, all’esattezza dei ritmi vocali e alla sottolineatura sonora, fanno di questo monologo una trascinante partitura musicale che rivoluziona il senso dello spazio, dove quel palpabile e insieme impalpabile spessore del corpo si fa scenografia.

Carlo Cecchi, regista dello spettacolo “Molly B.” con Iaia Forte