Recensione dello spettacolo PUPA & ORLANDO – da Giuseppe Fava

TEATRO LO SPAZIO, 1 e 2 Febbraio 2024 –

– Tratto dai testi di GIUSEPPE FAVA –

Dov’è la verità ?

E’ notte: Pupa va in strada per fare “carezze d’amore” . Spaventata, sussurra di Nino Rota Canzone arrabbiata. Ma una struggente malinconia domina sulla rabbia.

Canto per chi non ha fortuna

Canto per me

Canto per rabbia a questa luna

Contro di te…

Contro chi e ricco e non lo sa…

Chi sporcherà la verità

Penso all’illusioni dell’umanità

Tutte le parole che ripeterà…

Dipinto di Giuseppe Fava

Gli avventori le dicono che lei è una cosa inutile; si dimenticano il suo nome. Ma lei non perde la consapevolezza della sua identità.

Perchè si racconta a noi. E così grazie al potere del racconto può continuare a tenere insieme tutti i ricordi che le danno la prova di esistere. 

Pupa s’innammora: riesce sempre a trovare qualcosa di cui innammorarsi. E ne è felice. Scopre di diventare madre ma prima che nasca suo figlio muore il suo Michele. Allora il bambino si chiamerà come suo padre e oltre al nome ne erediterà il destino.

Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa)

L’amore poi prende il nome di Orlando ma lui la fa esibire nelle piazze: è il suo amore e il suo pappone. Sono storie d’amore e di morte. Pupa lo sa: basta chiudere gli occhi e immaginare che quelle carni siano del suo Orlando.

Ma le narrazioni di Pupa e di Orlando differiscono: dove sarà la verità?

Dipinto di Giuseppe Fava

Pupa si strugge per i suoi figli, per le contraddizioni dell’essere madre: desiderare di spingere fuori – alla vita – il proprio figlio ma poi desiderare anche farlo rientrare nel proprio grembo. Proggerlo dal crescere, dall’allontanarsi, dall’essere indipendente. Dal morire.

Quanto vale la vita di un uomo ?

Claudio Pomponi (Pupa) e Marco Aiello (Orlando)

In un’epica del sopravvivere dolce-amaro, Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa) – a scena quasi nuda – riescono a “riempirci gli occhi di parole e la gola di sospiri per amore”.

La Pupa di Pomponi brilla di un femminile in purezza: candido e sordido; delicato e prorompente. E di una vocalità sinuosa e suadente. Un femminile trasversale all’ontologia del genere.

Di Marco Aiello emerge la versatilità, nella quale si muove attraversando le pluripartiture che in lui prendono vita: dall’avventore al musicista (di lacerante bellezza i suoi interventi contaminanti con l’armonica a bocca); dall’avvocato al pappone. Sostiene con efficacia e credibilità un dialetto siciliano parlato con un ritmo vorticoso eppure chiarissimo, netto, opportunamente articolato.

Entrambi ricordano un po’ i guitti della commedia dell’arte ma il riferimento più esplicito e ai cantastorie erranti siciliani. 

Uno spettacolo che brucia il cuore.

È il teatro di Giuseppe Fava: il teatro che punta la luce sulla “normalita”, sullo stile popolare dal linguaggio denso e marcato. Sull’ “antica ed eterna contraddizione di vivere tra infelicità e speranza”. Un teatro come esercizio del potere investigativo verso la ricerca di quella libertà, che non è un dono di natura ma ardita e consapevole conquista.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FARA’ GIORNO – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO PARIOLI, dal 31 Gennaio all’ 11 febbraio 2024 –

L’evocativa drammaturgia di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi portata in scena dalla calda sensibilità di Piero Maccarinelli dà vita ad uno spettacolo ironico, allegro, mordace ma anche delicato, tenero, commovente, plasmato da una vitale tensione verso il rispetto della dignità umana.

Il regista Piero Maccarinelli

È il racconto di un improbabile e folgorante incontro tra tre diverse modalità di stare al mondo, apparentemente inconciliabili ma intimamente capaci di essere attraversate da una fertile accoglienza. Un incontro di quelli capaci di rompere l’abituale scorrere del tempo: quelli dove niente è più come prima.

Alberto Onofrietti (Manuel), Antonello Fassari (Renato) e Alvia Reale (Aurora)

E’ l’incontro tra un anziano padre (un lirico Antonello Fassari) che, precedentemente partigiano e poi disilluso dagli ideali del comunismo, oramai rimasto solo in casa continua a trovare ispirazione e conforto in un microcosmo di libri; sua figlia (una densa ed enigmatica Alvia Reale) che, sentitasi tradita dal suo stesso padre, prende ampie distanze prossemiche ed affettive dallo stesso; e un teppistello fanaticamente tatuato di ideali politici di destra (un tormentato e splendidamente tempestoso Alberto Onofrietti) alla guida della propria vita, senza essenziali istruzioni per l’uso e senza r-assicurazioni affettive.

Antonello Fassari e Alberto Onofrietti

Ma se è vero – come è vero – che “una vita è i suoi libri“, citando il titolo di uno splendido libro di Massimo Recalcati, l’anziano Renato ha maturato una speciale predisposizione ad avvertire possibili e fertili confronti emotivi con gli altri. Perché nel leggere ci si accorge che il libro ci legge. E c’insegna che lo stesso attraversamento può avviene anche dall’incontro con gli esseri umani. Anche da quelli che sembrano così diversi da noi.

Molto efficace la costruzione dello spazio scenico – curato da Paola Comencini – modulato per accogliere occasioni d’incontro con i libri.

“Impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo, perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto”. 

E Renato lo sa e non a caso oltre alla sua testimonianza sceglie di lasciare in eredità al tempestoso Manuel un libro che ha accompagnato la sua vita ma che sente di non poter riuscire a terminare : “Guerra e pace” di Lev Tolstoj. Perchè per realizzarci come persone occorre amare la vita in tutte le sue sfaccettature, nel bene e nel male, in guerra e in pace. E lo stesso vale nei confronti di chi incontriamo: amare sempre la diversità dell’altro, così speciale proprio perché così diversa.

Alberto Onofrietti e Antonello Fassari

Ed è per questo che nell’accogliente microcosmo di Renato, che ha generosamente fatto spazio all’esuberanza -seppur ancora acefala- di Manuel, il ritratto di Antonio Gramsci può alternarsi a quello di Francesco Totti. Una fertile duttilità d’animo che non passera inosservata allo sguardo della figlia Aurora che, tornata dal padre dal quale si era isolata per 30 anni, avvertirà come la presenza di Manuel sia stata preziosa per predisporre suo padre ad un nuovo punto di vista sulle possibili deviazioni politiche giovanili. Un padre che ha imparato “a tradurre” la lingua dell’attuale impazienza giovanile.

E allora “farà giorno”.

Alvia Reale e Alberto Onofrietti

E, seppur solo per un attimo, si scopriranno – proprio come ne “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas, primo libro letto voracemente da Manuel – “tutti per uno, e uno per tutti !”. 

E allora al di là dei duelli di parole e di silenzi, resta e vince l’acuta tolleranza verso un’onesta carenza morale e una nobile guitteria, quando queste arrivano a fiorire in generoso altruismo.

Uno spettacolo importante e necessario.


Antonello Fassari, Alvia Reale, Alberto Onofrietti 

FARÀ GIORNO 

commedia in due atti di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi

regia Piero Maccarinelli

scene Paola Comencini

musiche Antonio Di Pofi 

produzione Teatro Franco Parenti 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SMARRIMENTO – scritto e diretto da Lucia Calamaro – per e con Lucia Mascino

TEATRO BASILICA, dal 25 gennaio al 4 febbraio 2024 –

Che cosa c’è prima di un inizio?

Che cosa c’è prima di una scelta che taglia via tutte le altre possibilità in cui può iniziare un inizio ? 

Che cosa c’è prima di un “now”?

Lucia Mascino

C’è ciò di cui ci fa dono questo meravigliosamente smarrito spettacolo di Lucia Calamaro.

C’è il caos, c’è l’assenza dei principi della logica, c’è il mondo del sogno, c’è il regno dell’inconscio.

C’è tutto ciò che ci spaventa di più, o che ci imbarazza facendoci sorridere. 

Lucia Calamaro

Autrice e Regista

C’è quello che la metafisica Lucia Mascino provoca in noi, qui parti del suo ‘Io’ e del suo “Super Io”. Parti che lei interroga, cercando di tenerle tutte insieme: come in un condominio esistenziale. 

Ma la Mascino è così fascinosamente smarrita che arriva a contagiarci fino a far diminuire progressivamente la nostra tendenza a mettere argini al suo caos. 

Lucia Mascino

Tutto in lei recita: incluso il bianco che indossa. Inclusi i capelli: così smarritamente acconciati. E poi gli occhi: cosi sbigottiti e calamitanti. Due sirene blu.

Blu come un deliquio momentaneo, immerso in un microcosmo e in un macrocosmo di bianco: il colore che contiene tutti gli altri colori e quindi il più ricco in possibilità. 

Una ricchezza che atterrisce per la difficoltà provocata dalle attese, “dai tanti occhi” e dalla stratificazione dei saperi. Una ricchezza che non aiuta a scegliere, tagliando via tutte le altre direzioni. Una densa consapevolezza esistenziale che a volte ci porta ad invidiare “i comodoni o gli ossessivi”, coloro cioè che sanno sempre cosa fare, in un senso o nell’altro. Senza accorgerci invece di come siamo fortunati a smarrirci: “se non fosse per questo, ma perchè ?” – conclude, complice, la Mascino prima degli applausi finali (scroscianti).

Lucia Mascino

Smarrirsi è l’attesa gestazionale che precede, ogni volta, l’epifania di “un incontro”, di un’ispirazione. E’ una sorta di “atopia socratica”: un sentirsi in nessun posto, un po’ “come dopo che ti hanno dato una botta in testa”- traduce la Mascino. Una sensazione unica, speciale, “da sussurri”, intima: fertile proprio perché vuota e quindi ricca di mancanze. Talmente vera che sembra finta. “E pensare che ci tenevo tanto ad avere una vita normale” – chiarisce con arguzia la Mascino.

Smarrirci é ciò che ci costituisce come esseri umani – sosteneva Hannah Arendt – che proponeva di definirci “natali” e non “mortali: tutti moriamo, è vero, ma anche tutti nasciamo. Tutti iniziamo continuamente. facoltà di ciascuno è proprio quella di poter essere – “ogni volta che il possibile non è più abbastanza” – un nuovo inizio. 

Lucia Mascino

Un “nuovo scatto d’umore” da proteggere, amare e tutelare dal giudizio esterno. Anche con un bel “oggi ho i nervi a fior di pelle, lasciatemi stare”. Perche l’acume è instabile e va ogni volta ritrovato. Perché tanta sensibilità a fior di pelle va recuperata con una “convalescenza”.

Recita l’elegante accessorio indossato dalla scrittrice in scena: una custodia per carta e penna, strumenti di lavoro di chi é in attesa di una nuova ordinazione (ispirazione divina), da servire (pubblicare) al pubblico.

Un testo e una regia, questi di Lucia Calamaro, geniali e profondissimi, resi mirabilmente fruibili dai sagaci sottotesti espressivi della fluida ed epica Lucia Mascino.

E il pubblico ne gode.

Lucia Mascino


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SOBRIO O UBRIACO ?

TEATRO GARBATELLA, 27 e 28 Gennaio 2024 –

Cosa significa fare qualcosa “per gioco” ?

Giocare ci rende liberi o ci gioca brutti scherzi?

Che tipo di verità  siamo disposti a sostenere quando stiamo in un gioco ? 

Se – come sosteneva Hegel – “nella sua indifferenza e nella suprema leggerezza il gioco può essere la serietà più elevata e quella unicamente vera”, cosa si cela allora dietro a un gioco? 

Intorno a queste domande ruota l’interessante testo di Asia Giulia Quarta messo in scena con brillante sensibilità dalla regista Serena Masullo.   

Un filo di noir – che la drammaturgia delle luci sa sottolineare efficacemente – s’intesse nella trama di questa scoppiettante commedia degli equivoci. O meglio, dei segreti.   

I protagonisti in scena infatti  – interpretati da Asia Giulia Quarta (Samantha), Kevin Magrì (Enea) e Lucia Torre (Erika) – pur definendosi tra loro legati da un’intima amicizia in realtà, come accade spesso nella vita di cui il gioco è  una superba metafora, sono legati da intimi segreti. E sarà  proprio un gioco a rivelarli. 

L’autentico soggetto del gioco infatti  non è il giocatore ma il gioco stesso – ci ricorda Hans-Georg Gadamer. È il gioco che ha in sua balia il giocatore, lo irretisce e lo fa stare al gioco.   

E così arriva la consapevolezza che la verità  e la menzogna sono due facce della stessa moneta: sono ciò  che ci costituiscono come esseri umani.   

Ma dove c’è  imperfezione c’è evoluzione: è tutto un gioco di leggi e caso, una dialettica tra elementi normativi ed elementi idiosincratici casuali. Qualche volta prevalgono di più gli aspetti normativi e allora il processo è abbastanza direzionato; altre volte invece prevalgono gli aspetti casuali, che fanno cambiare rotta. E si rivelano un punto di svolta.   

Ecco allora che Samantha, la protagonista principale dello spettacolo interpretato appassionatamente dall’autrice Asia Giulia Quarta, ad un certo punto della sua vita sente l’urgenza di “vederci chiaro”. E un po’ come l’ispettore Clouseau dà avvio ad una ricerca delle cause del caos in cui si trova immersa da anni. Erede del fare imbranato ma efficace dell’ispettore francese, Samantha affidandosi al proprio istinto arriva a deduzioni sconcertanti ma corrette. E da lì  potrà  ripartire.

Perchè  così  è  la vita.   

Kevin Magrì, Asia Giulia Quarta e Lucia Torre

In una scena curatissima si muovono con destrezza e afflato i tre attori Asia Giulia Quarta (Samantha), Kevin Magrì (Enea) e Lucia Torre (Erika),  che riescono a sostenere efficacemente i giusti ritmi richiesti da un testo brillante e velatamente enigmatico. Puntuali anche nei tempi comici.   

Uno spettacolo che sa trovare la giusta chiave brillante per restituire al pubblico, che segue costantemente partecipe, verità profonde ed intime.         


Fino al 4 Febbraio p.v. il Teatro Garbatella prosegue nel portare in scena gli spettacoli della prima edizione della Rassegna “Puck – Nuove Proposte Teatrali”

12 Gennaio 2024 MONOLOCALE OSPITA IL GRANDE SLAM

13-14 Gennaio 2024 IL MELOGRANO ZUCCHERINO

19-20 Gennaio 2024 FAKE NEWS

21 Gennaio 2024 GLI OCCHI DEL CUORE

25-26 Gennaio 2024 L’EBREZZA DELLA VOLATA FINALE

27-28 Gennaio 2024 SOBRIO O UBRIACO

1-2 Febbraio 2024 NON SVEGLIATE VISHNU’

3-4 Febbraio 2024 RESTI UMANI NON IDENTIFICATI E LA VERA NATURA DELL’AMORE


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PROCESSO GALILEO – di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi – regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO, dal 19 al 27 Gennaio 2024 –

Quanti racconti si possono fare intorno ad un argomento ? C’è davvero qualcosa di certo e sicuro a cui possiamo ancorare i nostri racconti – sospesi nello sforzo di comunicare – e annodarli come corde a un mantegno ?

Quanto bisogno abbiamo noi esseri umani di sentirci al sicuro, confinando idee e nozioni in leggi e costruendoci intorno scienze?

Ruota al centro di questi “massimi sistemi” il “dialogo” proposto dallo spettacolo “Processo Galileo”, interessante esempio di sperimentazione teatrale. E’ infatti la risultante di un lavoro fertilmente sinergico che vede registi Andrea De Rosa e Carmelo Rifici; autori Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, dramaturg Simona Gonella; attori di grande esperienza Milvia Marigliano e Luca Lazzareschi; giovani e talentuosi attori Chaterine Bertoni De Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi e Isacco Venturini. E poi raffinati artigiani quali: Daniele Spanò per le scene, Margherita Baldoni per i costumi, Pasquale Mari per le luci e GUP Alcaro per il progetto sonoro.

Uno degli oggetti d’indagine di questo lavoro accende l’attenzione sul nostro modo di reagire di fronte ad un trauma: a quel tipo di evento inaspettato nei confronti del quale ci troviamo senza i mezzi adeguati per affrontarlo. Traumatico sulla Chiesa fu l’effetto della rottura dei cieli aristotelici da parte delle teorie galileiane ma traumatico fu anche l’effetto provocato, sulla giovane divulgatrice scientifica in scena, dal lutto per la perdita della madre. E qualcosa di simile abbiamo vissuto noi tutti in occasione della pandemia da Covid 19.

Nello specifico, idee che andranno a dare forma a questa corale sperimentazione furono alimentate negli autori proprio dal trauma provocato dall’estremo smarrimento in cui ci gettarono i periodi di quarantena.

La stessa scienza medica subì “ una rottura del proprio cielo” ma, diversamente da quello che accadde a Galileo, non le fu ingiunto di uscire di scena. Tutt’altro: si é rimasti in balia delle varie teorie sostenute dai virologi, in attesa di conferma.

In che cosa consiste allora davvero “un processo” – ovvero un progredire – per noi esseri umani ? Raggiungere nuove scoperte basterà a farci sentire al sicuro ? E se sì, per quanto tempo ?

Quanto incide, nell’ontologia del concetto di scienza, il desiderio – sano e ingannevole – dell’uomo ad avanzare faustianamente nel sapere? Si possono arginare le derive narcisistiche del desiderio di sapere ?

A questo riguardo lo spettacolo mette in scena un acuto dialogo tra la tensione quasi ossessiva ad avanzare nel sapere e la più consapevole tensione contadina ad inserirsi all’interno dei ritmi e dei traumi (ad es.metereogici) della terra.

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Devi sapere che il verme

non dice niente alla terra su cui striscia

e la nuvola ignora

di essere la madre della pioggia.

Dovremmo congedarci subito

dalle nostre futili arroganze.

Siamo tutti povere ignoranze.

(da Canti della gratitudine, Franco Arminio)

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Ma allora, desiderare ci rende liberi o ci spinge verso un “cattivo infinito” ? Un infinito cioè molto vicino al subdolo desiderare proprio dell’ imperativo capitalista al “sempre nuovo”, che in verità – lungi dall’essere libero – è manipolato da un dictat egemonico? 

Tra conservatorismo e scientismo il dialogo può essere integrato con il recupero della sacralità del sapere ancestrale legato alla terra.

La componente razionale non è la sola a costituirci: anche quella irrazionale va ascoltata e nutrita. È la disperata consapevolezza a cui giunge la divulgatrice scientifica in scena, che di fronte al trauma della morte della propria madre si scopre indifesa. Tradita e abbandonata dai suoi riferimenti iper razionalistici.

La scena si offre nella forma di un’enigmatica istallazione razionalistico-visionaria che lascia lo spettatore libero di immaginare più habitat: ad esempio una porzione del globo terrestre in cui le terre emerse si avvicendano alle acque. Oppure lo stare al mondo in uno spazio iper controllato, iper confinato e saldamente ancorato ad un perimetro di mantegni. O ancora una sorta di serra di orti dove si coltivano prodotti agricoli grazie alla complicità dell’ illuminazione artificiale e della bellezza matematica della musica di J. S. Bach. Uno spazio che pare abbia rinunciato alla fertile magia del mistero.

Resta la poesia di una candela dal sapore macbettiano, a memento mori.

Intriganti le scelte prossemiche che regalano magnifici effetti cinematografici ed iconografici. Complici le scelte di Margherita Baldoni, relative ai costumi: efficacissimi anche cromaticamente.

Potentissima l’interpretazione di Galileo Galilei fatta propria da Luca Lazzareschi : il corpo della sua voce si declina tra la veemente inquietudine dello scienziato e la tenue vocazione al rispetto della legge propria di un padre. 

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Tremendamente passionale, austera e solenne ma anche provocatoriamente comica Milva Marigliano nella sua doppia partitura di personificazione del Sant’Uffizio e di madre di Angela.

Dalla grazia tenace di madonna quattrocentesca, l’interpretazione di Roberta Ricciardi in qualità di figlia di Galileo. 

Intimamente raffinata e spudoratamente sensibile il personaggio di Angela, la divulgatrice scientifica interpretato da Chaterine Bertoni De Laet.

Interessanti ed efficaci anche gli interpreti Giovanni Drago, allievo di Galileo e Alberto Venturini , Alberto il figlio di Angela.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Un intreccio di trame narrative, fluttuanti tra storia e visionarietá, coinvolgono il microcosmo di ciascuno spettatore. E’ un invito a non dimenticare. Ma soprattutto a non smettere mai di avere uno sguardo critico su ciò che ci accade.

Ad avere cioè un nostro racconto da legare e da mettere a cimento con quello di altri. Anche perchè se qualcosa ci è rimasto dentro del periodo della pandemia è che nessuno di noi si salva da solo.

E questa polifonica rappresentazione ne è uno splendido esempio.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Recensione dello spettacolo LA STRADA ALL’ ALTEZZA DEGLI OCCHI di Donatella Diamanti – regia Luca Gaeta

TEATRO MARCONI, dal 18 al 28 Gennaio 2024 –

Nel seminterrato di una strada che ricorda “Via del Campo”, la strada di coloro che abitano gli orli della società , vive Pina: “la graziosa dai grandi occhi color di foglia” .

Un luogo che è anche uno stato della mente e una condizione psichica: quella di chi tenta di evitare il fuoco dell’inferno e insieme la monotonia del paradiso. 

Tiziana Sensi (Pina) e Mariano Gallo (Principessa)

È il mondo cantato da De André: un mondo definito malfamato dall’ipocrisia borghese ma permeato da pura autenticità. È il mondo a cui allude l’appassionata drammaturgia di Donatella Diamanti.

Pina (una Tiziana Sensi di malinconica ed ingenua bellezza) abita, ed e abitata, da un monolocale seminterrato, dove quel che resta della visibilità – consentita dal muro che occupa gran parte della vetrata – permette di vedere la strada all’altezza degli occhi. 

Un’ottica, e quindi uno sguardo, che ai più sfugge ma che rivela come si vive strisciando a terra e rischiando ad ogni istante di essere schiacciati. Metafora di un’umanità che vive ai margini della società. 

Tiziana Sensi (Pina)

Il pericolo di schiacciamento viene amplificato dalla sensazione provocata dal particolare posizionamento obliquo, anziché perpendicolare, della vetrata-tetto del seminterrato. Sensazione percepita e ritratta da Guido, il figlio di Pina, nei suoi disegni. 

La scena, così centrale in questo spettacolo diretto con profonda sensibilità dal regista Luca Gaeta, è magnificamente realizzata da Alessandro Chiti, che vi crea un habitat vitale di decadente poesia. 

Tiziana Sensi (Pina)

Pina sta scrivendo una lettera: la sua ultima lettera. Fatica a terminarla perchè il desiderio di vita riaffiora in lei prepotentemente, nonostante tutto: è il desiderio di prendersi cura degli altri ad “innaffiare” la sua densa malinconia. E poi ci sono i ricordi: quelli belli. Quelli che la legano a Guido, il suo amato bambino. 

Pina solo apparentemente sembra accontentarsi di un’esistenza “a mezza bocca” : di quelle che capisci e non capisci. Il suo autentico desiderio è quello di non rendere totalmente incomprensibile ciò che in realtà lei vuole “si legga” di se stessa.

Tiziana Sensi (Pina)

Il suo avvicinarsi sul confine dove la vita si incontra con la morte non denota la volontà di ‘decidere’, cioè di “tagliare” e quindi di separare la vita dalla morte. Non a caso il suo commiato termina con un “arrivederci” e non con un “addio”. È piuttosto invece come se desiderasse ancora una possibilità: quella capace di regalare una nuova “forma” (non più semi-oscurata e schiacciata) alla sua esistenza, grazie alla forza trasformativa che solo certi incontri sanno “accendere”.

Mariano Gallo (Principessa)

Ecco allora il manifestarsi di Principessa (un Mariano Gallo “dal sorriso tenero di verdefoglia” che non teme di correre verso “l’incanto dei desideri”) : una creatura così diversa da lei, eppure così capace di sintonizzarsi sulle sue frequenze. Così effervescente, eppure con un allure da pierrot liricamente struggente.

Quando si ritrova al cospetto di Pina ne è frastornata perchè: 

“lei ti guarda con un sorriso

non credevi che il paradiso

fosse solo lì al primo piano”

Mariano Gallo (Principessa ) e Tiziana Sensi (Pina)

Ma Pina è anche una donna che si affida ad una logica primitiva, infantile, che va al di là dei principi della logica. Per lei non esistono etichette per incasellare le cose e le persone in maniera definitiva (come invece tende a fare Principessa): lei va oltre il principio di identità e di non contraddizione. Le cose, i fatti, le persone, possono essere letti secondo diverse modalità. E lei ogni volta le fa esistere tutte, nominandole. E solo dopo, ne sceglie una. Guidata dal suo istinto. E così finisce per avvolgere Principessa in una selvaggia e tenera confusione gioiosa. 

Tiziana Sensi (Pina)

Principessa al contrario, per difesa, ha scelto di sorreggersi proprio grazie all’univocità delle definizioni della logica: vere e proprie etichette che lasciano Pina piuttosto stordita. 

Ma pur percorrendo strade esistenziali diverse, queste due “anime all’orlo” riescono a trovare quel sentiero che le fa incontrare e stare bene insieme. Fertilmente. Saranno proprio le loro ferite più o meno nascoste ad avvicinarle, ad incuriosirle a vedere le cose del mondo anche con lo sguardo dell’altra.

Mariano Gallo (Principessa)

Principessa ad esempio ha difficoltà con l’olfatto: il nostro cervello ancestrale. Dietro il suo altezzoso “schifarsi” si cela la difficoltà ad entrare in contatto con la natura più primitiva di sé. Non meno di Pina, anche lei chissà quante volte avrà pensato di farla finita. Ma poi di tutte le lettere di commiato ha finito per decidere di farne balze del suo “habitus”.

Efficacemente estrosa risulta allora la scelta della costumista Ilaria Ceccotti di ri-coprire Principessa con una sorta di vestaglia-soprabito sulla quale sembrano cucite, e insieme lasciate libere di balzare, le sue passate lettere di “arrivederci”. 

Tiziana Sensi si cala generosamente dentro il personaggio di Pina, dotata di una psiche così semplice eppure così straordinariamente ricca di contraddizioni, tessendo con questo complesso personaggio una trama di potente complicità. E lo spettatore ne avverte tutta la drammatica e primitiva bellezza. 

Mariano Gallo, proprio nell’andare “a correggere la fortuna”, trova il modo più adatto per farci dono di una preziosa possibilità: quella di poter avvertire epidermicamente, e quindi intimamente, quanto possa essere bella anche una natura così esuberantemente fragile, così ricca di femminile ma anche di maschile. Che si dà senza sbavature: in purezza. Limpida, proprio perché consapevolmente torbida. 

Uno spettacolo intimo: tragicamente comico. Uno spettacolo umano e divino: un viaggio interiore alla ricerca della nostra identità, del nostro sogno. Che attraversa “ingorghi di desideri” per poi godere del loro incanto.

Uno spettacolo che ci parla del nostro realizzarci come “anime salve”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SVELARSI regia di Silvia Gallerano

di e con Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, Silvia Gallerano

con il contributo di Serena Dibiase e la voce di Greta Marzano.

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, dal 10 al  14 Gennaio 2024 –

Quanti significati si nascondono dietro lo “svelarsi” ? Li esplora con gioia, ironia e commozione l’omonimo spettacolo di scrittura collettiva voluto e diretto da Silvia Gallerano, in scena fino a domenica 14 gennaio p.v. al Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica.

Una performance scritta e pensata da donne, per sole donne e per chi si sente donna.

Silvia Gallerano (ph@ Giulia Ducci)

Svelarsi è un’epifania: una rivelazione, un portare alla luce qualcosa di bello, di sacro, precedentemente nascosto.

Svelarsi è un liberarsi: uno sciogliere o allentare i lacci, un nuovo respiro ampio e profondo. 

Svelarsi è un offrirsi con elasticità e generosità. Un aprirsi a se stessi e quindi agli altri. Un attraversamento di confini.

Svelarsi è sollevare il velo ma anche avere occhi adatti a vivere e a recepire la rivelazione. 

Svelarsi è un essere pronti.

Che cosa significa “farsi notare”? Perchè è così essenziale essere visti ? 

Ritrovarsi insieme, come invita a fare questo spettacolo, può essere utile per rintracciare delle risposte che finalmente diventino gesti. “Senza perdersi in chiacchiere”. 

Gesti che ci svuotino da ciò che non è nostro e lascino aperti dei vuoti, liberi di riempirsi di autenticità individuali. Uniche.

Regalandoci così la forma dell’acqua, che può entrare ovunque e prendere tutte le forme: cambiando ciclicamente stato.

Sì: lo spettacolo diretto da Silvia Gallerano è una fertile e gioisa occasione per conoscerci, per metterci a nudo. E scoprire quanto possano essere belle le diversità. Quanto possano essere attraenti certe imperfezioni.

Rompendo così il gesso degli imperativi categorici relativi all’essere costantemente “accettabili” e “composte”.

In verità “Svelarsi” è più di uno spettacolo: è un esperimento, l’avvio di un processo di ricerca e di apertura. Un rito collettivo tra l’apollineo e il dionisiaco. Grazie al quale riuscire ad iniziare ad emanciparci dalle definizioni e dalle etichette: così chiare ma così asfissianti.


SVELARSI

regia Giulia Gallerano

di e con Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, Silvia Gallerano

con il contributo di Serena Dibiase e la voce di Greta Marzano

allestimento luci Camila Chiozza

consulenza costumi Emanuela Dall’Aglio

una produzione Teatro di Dioniso

in collaborazione con PAV nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe e Frida Kahlo Production

con il contributo del MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio e Roma Capitale

in collaborazione con SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori 

sì ringraziano per il supporto e l’ospitalità ATCL per Spazio Rossellini, Lottounico, Fortezza Est e Fivizzano27


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CLITENNESTRA regia di Roberto Andò

da “La casa dei nomi” di Colm Toíbín

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 21 Gennaio 2024 –

Il suo sguardo è prigioniero di una visibilità opalescente. La Clitennestra di Colm Toíbín, a cui si ispira il regista Roberto Andò, è ossessionata dal tormento di non aver intuito l’intento omicida di suo marito Agamennone, nei confronti dell’adorata figlia Ifigenia.

Roberto Andò

Proprio lei, così ricca in dimestichezza con l’odore del sangue, si è lasciata sedurre dal riporre fiducia in Agamennone. “Ti ho creduto”: un imperdonabile errore.

Colm Toíbín

La partecipe commozione di Andò per lo sguardo sui fatti della Clitennestra di Toíbín fa sì che immagini la regina di Micene nell’atto di rievocare, con follia lucida e opalescente, i fatti che precedettero e seguirono la morte di Ifigenia.

Lo spazio scenico è la rappresentazione di un disvelamento della mente della donna, generalmente considerata tra le più spietatate del mito. Andò, come Toíbín, non è interessato a processarla per condannarla, quanto piuttosto a prendersi cura di svelarne le dinamiche relazionali e psicologiche. Come una donna estrapolata dal mito e immersa nelle incertezze della quotidianità. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Cosa succede allora nella mente di una donna, di una madre e di una moglie tradita dalla fiducia riposta nel marito che, pur di proseguire con successo la guerra è disposto a sacrificare la vita di una figlia ? E pretende subdolamente la complicità della moglie, facendole credere che è un matrimonio quello a cui lei sta preparando la figlia ? Un marito che anche successivamente giustifica il suo atto come il male minore ? Meglio la morte di una persona, piuttosto che la morte di un esercito di persone.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Nell’opalescenza della sua psiche, conseguenza di un inarginabile dolore, la Clitennestra di Andò cerca un varco. Può farlo solo procedendo con l’aiuto delle mani, come cieca: accecata dal dolore. Trova il varco: ci trova. 

Le sue palpebre, sipari scenici, faticano a sostenere il peso della luce. Vince la tentazione a chiuderle: così si affida alla voce, al racconto, a quello che resta del suo rievocare. Allucinato e ossessivo. Sono ombre che si allungano, l’odore della morte che permane, gradito come la visita di un grande amico. Lui sì, compagno fedele. Le palpebre riescono a risollevarsi: rivelano scenari di vuoto squallore, come dopo aver ripulito una mattanza. 

Una lacerata e lacerante Isabella Ragonese tormentata dalle viscere e preda dell’incanto del dolore subìto e oramai ingovernabile – “sarò lasciata così, per gli anni che mi saranno riservati. Non di più ” – si dona a noi padri, madri. E figli: perche la condizione di figli tutti ci accomuna. E lei si danna per aver ricevuto un dna, un’eredità genetica, così luttuoso. Non se la prende con gli dei, o con il dio di Abramo ed Isacco. Qui, dallo scenario esistenziale, gli dei dono assenti. È la natura umana ad essere indagata in purezza da Toíbín, e quindi da Andò. 

I personaggi in scena (Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Bacheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini e il coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini e Antonio Turco) non sono quelli della tragedia greca: sono uomini e donne del primo Novecento, attraversati dalle guerre mondiali e immersi in una sorta di nichilismo nietzschiano. Sono gli anni della diffusione della psicoanalisi, di una nuova attenzione per la malattia mentale. Abita la scena – e i costumi di Elettra e di Ifigenia – un’atmosfera anche da ospedale psichiatrico.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Il coro perde la solennità della postura: è seduto, spesso a terra, come se la forza gravitazionale diventasse più difficile da sfidare. È il richiamo della terra a dominare, degli instinti alla sopraffazione: così connaturati in noi. Innati. Non è solo il dna di Clitennestra ad essere luttuoso.

I meandri della natura umana sono misteriosi. A volte irriducibili. E ci accomunano tutti. Sempre. Non solo nel mondo greco del V secolo a.C.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

La regia di Roberto Andò porta in scena una condizione esistenziale così credibile da essere di una bellezza agghiacciante. Ha l’audacia di proporre un diverso punto di vista su questa donna, madre e moglie, che ci è vicina più di quanto immaginiamo.

Così vicina da risultare quasi irresistibile correre sul palco a donarle solidarietà: quando la Ragonese si apre in quel filamento di urlo metallico, che fatica, come un cigolio, a farsi suono nella gola. 

Arianna Bacheroni (Ifigenia) e Ivan Alovisio (Agamennone)

in “Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Così come strazia, fino a lasciarci quasi in brandelli, la dolcezza disarmata di Ifigenia: figlia che si scopre asciutta di lacrime e senza la persuasione necessaria per convincere il padre a non ucciderla. A preferirla alla guerra. Tanto risulta innaturale chiederlo. Tanto ci si aspetterebbe fosse innato, scontato. E invece no. Siamo anche così. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Accattivante la coralità tragica e seduttiva della danza degli intrighi, delle ambiguità e delle macchinazioni proprie della psiche umana. In un crescendo parossistico. E disperato.

Umano.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LETIZIA VA ALLA GUERRA: la suora, la sposa e la puttana – di Agnese Fallongo – regia di Adriano Evangelisti

TEATRO BASILICA, dal 9 al 14 Gennaio 2024 –

Spesso la vita ci chiude in una cornice, bloccando la nostra progettualità. O forse no: forse la vita, proprio mettendo un limite, ci ingegna a portare a compimento i nostri desideri per altre vie. Per altre vite.

Agnese Fallongo

L’estrosa circolarità di questa brillante e commovente trilogia drammaturgica di Agnese Fallongo regala un’apparente indipendenza alle tre storie raccontate. In verità, viste nel loro insieme, le storie mostrano numerose connessioni fra loro in quanto elementi di un’opera pensata nel suo complesso, dove ogni progettualità va letta in rapporto con le altre.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Le tre protagoniste delle tre storie ad una prima lettura sono legate tra loro dall’aver ricevuto lo stesso nome “Letizia” e dall’essere state “castrate” dallo scenario nel quale si ritrovano immerse. Poi si scoprirà altro. Ma la cosa più preziosa che la drammaturgia e la stessa regia di Adriano Evangelisti sembrano suggerire è che queste donne, al di là degli impedimenti esistenziali, vengono “salvate” e quindi riconusciute nel loro valore, proprio perché le loro storie sono state “raccontate”. Perchè abbiamo dedicato loro la nostra attenzione. Le abbiamo amate.

Etimologicamente “Letizia” è un nome proprio che ci parla di colei che, essendo fertile, crea e dona frutti. Nome omen: un nome, un destino. Le tre figure femminili infatti sanno fare, di quello che gli altri hanno fatto di loro, qualcosa di fertile e di donativo. Nonostante i condizionamenti del microcosmo familiare e del macrocosmo storico-sociale le tre femminilità, simbolo di un’intima trilogia a fondamento della psicologia della donna, proprio nel lasciasi spazio a vicenda, riescono a dare sostanza a progettualità. 

Tiziano Caputo

Mirabile la resa dello spazio scenico, la drammaturgia delle luci ma soprattutto quella affidata ai canti dei due protagonisti in scena (Agnese Fallongo e Tiziano Caputo), dove la malinconia drammatica sa legarsi ad una tenace propositività. Efficacissima la scelta di rendere alcuni canti (accompagnati dal vivo dalla chitarra di Tiziano Caputo) e piccoli monologhi indecifrabili. Ma solo se attraversati dai principi della logica: eloquentissimi invece per la nostra logica “arcaica”. Dei veri gioielli di elegante espressività.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

Le cornici vuote che abitano la scena, regalando poliedriche prospettive, vengono utilizzate con acutezza (il coordinamento creativo è curato da Raffaele Latagliata) per rendere i vari sottovesti del concetto di “limite”: come elemento che sancisce una separazione; come luogo d’incontro e come confine da oltrepassare.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

La regia e l’interpretazione dei due attori Agnese Fallongo e Tiziano Caputo regalano una magistrale resa, quasi cinematografica, dei passaggi narrativi (fluidi o a schiaffo), dei primi piani e degli a parte. 

Molto belle anche le scelte comunicative rese dalla prossemica e in generale il duttile e quindi generoso lasciarsi attraversare da parte degli interpreti dalle “anime” dei diversi personaggi.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Lo spettacolo resterà in scena al Teatro Basilica fino al 14 gennaio 2024.


Recensione di Sonia Remoli