Recensione dello spettacolo PASOLINI A VILLA ADA da Giorgio Manacorda – di e con Ivan Festa

AR.MA TEATRO, dal 15 al 17 Marzo 2024 –

Ha il respiro di un dialogo maieutico e il fascino di un colloquio psicoanalitico l’avvincente testo di Giorgio ManacordaPasolini a Villa Ada”.

Un testo che lo vede protagonista, insieme a Renzo Paris, di una vicenda avvenuta nel marzo del 1964.

Mentre, come tutte le mattine, alle ore 7 si trovava a correre a Villa Ada, quel 20 settembre del 2008 lo chiama al telefono il suo amico Renzo per dirgli che su Repubblica è stata pubblicata una lettera del marzo del 1964 dove Pasolini scrivendo a Pietro Nenni parla di Giorgio Manacorda come presenza fondamentale per la lavorazione della pellicola Il Vangelo secondo Matteo.

Enrique Irazoqui e Pier PaoloPasolini sul set de “Il Vangelo secondo Matteo”

Fu infatti Giorgio Manacorda “colui che fece incontrare Cristo a Pasolini” presentandogli  Enrique Irazoqui.

Ma soprattutto nella lettera del ’64 Pasolini parla della loro amicizia, delle “aspettative” che Pier Paolo nutriva in lui, giovane poeta ventenne.

Una notizia che riattiva in Manacorda un evento della bellezza sublime di un trauma: che dovrebbe farlo gioire e invece lo fa piangere. Ma il pianto, si sa, è contiguo al riso.

Giorgio Manacorda – ph Dino Ignani

Il testo “Pasolini a Villa Ada” è quindi il racconto della conversazione telefonica che si apre intorno a questo trauma e che – grazie alle domande e ai dubbi acutamente seminati “senza mollare mai l’osso” da Renzo Paris – induce in Giorgio Manacorda una sorta di travaglio, che finirà per “dare alla luce” una potente consapevolezza.

L’adattamento di Ivan Festa predilige il respiro del racconto a quello del dialogo: all’affanno della corsa e alla sorpresa della notizia – nonché delle conseguenti domande – la pacatezza di chi è riuscito nello sforzo di cercare di mettere insieme tutti gli elementi traumatici dell’evento degli eventi.  

Un racconto, il suo, ricco di intime e raffinate sfumature espressive, dove l’emozione del racconto sembra la risultante di un processo di metabolizzazione precedentemente avvenuto.

Una consapevolezza, la sua, esito dell’ostinato processo di succussione, di scuotimento emotivo ripetuto – proprio di un dialogo intimamente esplorativo – dalla quale scaturisce come per distillazione il monologo propostoci ieri sera, nella suggestiva sala dell’Ar.ma Teatro.

Ecco così allora che la luce sbocciante delle 7 del mattino, che apre il testo di Manacorda, lascia il posto qui a una luce crepuscolare, vagamente gotica, propria del percorso di fioritura finale della giornata.  Propria dello stato della sua psiche.

Ivan Festa

Festa non è in tenuta da runner, come Manacorda.

E’ nudo ai piedi. E nell’animo.

E’ vestito di ombre.

La luce ne disegna profili, ne bagna piccole parti del volto. 

A volte si concede l’ebrezza di calpestare quelle foglie secche che lo proteggono, quasi come un confine. A volte sceglie di venire ad abitare questo confine. Una volta l’oltrepassa, spingendosi tra noi. Per un attimo. Finalmente libero.

Ivan Festa

Inizialmente vive in simbiosi con una panchina del parco di Villa Ada. Un po’ come con il senso di colpa che Giorgio Manacorda si è portato dietro per così tanti anni: quello di aver deluso “le aspettative” di Pasolini, di non essere stato più di suo gusto. Di non essere riuscito ad abnegarsi alla poesia.

Un padre spirituale Pasolini, che contrariamente a ciò che rende tale una figura paterna – l’introduzione di un limite, di una regola che permetta al desiderio di poter zampillare – lo invita all’estremo sacrificio in nome della poesia: all’aprirsi ad una crocefissione in suo nome. Ma così il desiderio – se non degenera in ossessione – si blocca: l’apertura totale non lo stimola.

E Manacorda è risucchiato nel blocco di un lutto, prima ancora che Pasolini muoia. Un lutto che inaspettatamente inizierà ad elaborare  proprio grazie a questa conversazione con Renzo Paris nel Parco di Villa Ada.

“Carta” dipinto di Giorgio Manacorda

Proprio grazie al potere magico del raccontare, del raccontarsi. Finalmente al di là del suo “io non ricordo niente. Io dimentico”.

“… Ma se non ho mai raccontato a nessuno neanche l’episodio di Cristo. Cioè no, non è vero, qualche volta mi sono lasciato andare ad una battutaccia: Cristo a Pasolini gliel’ho presentato io! Poche volte però, e in genere con giovani sconosciuti che mi parlavano di Pier Paolo, e allora per noia ed esibizionismo…

E tornare a ricordare, come il linguaggio psicoanalitico gli aveva già insegnato guarendolo dall’asma, che la paternità autentica è una responsabilità senza pretese di proprietà: che non esige che i figli diventino ciò che “le aspettative” narcisistiche di certi “padri” vorrebbero che fossero.

Ivan Festa rende omaggio a questo appassionato testo di Giorgio Manacorda cesellando un piccolo gioiello: potente e delicato.

Ivan Festa

Recensione dello spettacolo LA CASA NOVA di Carlo Goldoni – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA, dal 14 al 24 Marzo 2024 –

“  Ti piace “  ?

E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede. 

E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.

Il regista Piero Maccarinelli

Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia. 

E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso. 

Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente.  Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto. 

Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi.  Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.

Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere. 

Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui. 

Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.

Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.

E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.

Geniale ed effervescente, in equilibrio tra  tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.

Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.

La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’AmicoLorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea,
Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia
– si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.

Stefano Santospago (zio Cristofolo)

E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”. 

Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo 7 MINUTI di Stefano Massini – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO VITTORIA, dal 12 al 24 Marzo 2024 –

Che cos’è una ristrutturazione?

E’ davvero un “nuovo piano di recupero”?

E in un “recupero” che cosa si porta in salvo del passato? 

Quante posture è possibile tenere davanti al “nuovo” che vuole entrare, davanti a “cravatte” che rischiano di stringere (a poco a poco) il collo a centinaia di risorse umane? 

Chi sono davvero queste 11 lavoratrici elette dal resto delle dipendenti? 

“Gente” o “bestie”? 

Compagne che si dividono il pane, o nemiche che se lo tolgono? 

Donne che “marcano il territorio” o che si lasciano “marchiare” da un logo forte ?

Ispirato ad una storia realmente accaduta nel 2012 in una fabbrica tessile dell’Alta Loira, il provocatorio e quindi fertile testo di Stefano Massini “Sette minuti” mette in scena  undici rappresentati di un Consiglio di fabbrica chiamate a votare “sì o no” all’unica – e apparentemente innocua – richiesta della nuova proprietà a fronte del mantener salvi i posti di lavoro.

Ma mentre la Portavoce delle rappresentanti (una mirabilmente intensa Viviana Toniolo) continua ad essere trattenuta ore e ore in una riunione con la nuova proprietà, tra le 10 rappresentanti in attesa del suo rientro i livelli di ansia diventano così insostenibili e la sensazione di pericolo così appiccicosa da far affiorare in superficie quell’istinto alla sopraffazione, che tutti ci costituisce. Antropologicamente.

Viviana Toniolo (la Portavoce)

Ecco allora che il sospetto del possibile nemico s’insinua perversamente contaminando tutti coloro che sembrano “diversi”, “stranieri” e quindi pericolosi in quanto altro da sé stessi. Sospetti cadono sulla Portavoce – che magari in questa interminabile convocazione sta portando in salvo solo se stessa – ma anche, per i motivi più vari ma sempre riferiti a un pregiudizio legato alla diversità, su ciascuna delle rappresentanti. Ritrovandosi improvvisamente catapultate in una realtà hobbesiana da homo homini lupus.

Perché ciò che davvero si teme possa “chiudersi” è lo stomaco. E se lavorare serve primariamente per poter mangiare, come nel regno animale, pericolosa diventa allora la distanza che intercorre tra lo stomaco e la testa: tra chi pensa e tra chi è pragmatico, tra le operaie e le impiegate, tra chi lavora ai telai, chi alla cardatura e chi alle tinte.  

Ma sarà proprio vero che un’idea è solo “una cosa d’aria” e quindi non vale la pena farsi domande?

Mentre “il tempo fila via”, le risorse umane si rivelano invece preziose anche, anzi soprattutto, se pensano. Perché occorre un raffinato lavoro di cura per mantenere in salvo ciò che ci è caro. Non “dal” nuovo ma “nel” nuovo.  

Stefano Massini, l’autore di “7 minuti”

Stefano Massini, da sempre attento al potere della parola e agli effetti che sprigiona nelle relazioni umane, già qui – e poi nell’altro suo testo del 2016 “Lavoro” – fa veicolare l’ambiguità  racchiusa nel significato etimologico della parola “lavoro”: da un lato il significato di “fatica”, dall’altro quello di “dare alla luce” e quindi “creare”.

E’ la Portavoce a sentire, a qualche livello, che può essere importante seminare fertili dubbi là dove tutto sembra così ovvio. E quindi così sterile. Come essere convinti che rinunciare a 7 minuti di pausa sia ben poca cosa, se in cambio viene accordata la possibilità di non perdere il posto di lavoro.

Insinuare il dubbio solletica il vissuto di ciascuna lavoratrice rendendole inclini a raccontarsi: a tentare di mettere insieme tutte quelle personali esigenze, scaturite da ferite esistenziali, che hanno dato forma ai loro vissuti. 

Perché il raccontarsi – che trova nel Teatro il suo luogo d’eccellenza – dà voce a tutta la nostra splendida e fragile dignità di esseri umani. E ci rende immensi.

Il dubbio demiurgicamente veicolato dall’acuta Viviana Toniolo è espressione di un’attitudine socratica alla maieutica, a quel metodo cioè inaugurato da Socrate che permette all’interlocutore di “partorire” la verità. La “sua” verità. Perché la verità più che unica è molteplice. 

Claudio Boccaccini, il regista

Sebbene infatti sia riconoscibile tra le reazioni delle rappresentanti un tema comune, emergono fecondamente e ferocemente delle variazioni, dei dubbi, che la sagace regia del regista Claudio Boccaccini compone e scompone in un contrappunto di raffinate drammaturgie. Permettendo così allo spettatore sia di spiare dall’esterno la vicenda, che di fondervisi all’interno.

Boccaccini coglie il colore dei ritmi dei diversi respiri esistenziali e li restituisce allo spettatore con una persuasività che arriva al di là della comprensione razionale.  E’ – quello che il regista traduce – un contrappunto emotivo che pungola lo spettatore attraverso una drammaturgia delle ombre che sa legarsi alla giustapposizione cromatica delle vocalità (per affinità o per contrasto); all’iconografia delle posture e  all’elegante ossessività degli interventi musicali (le musiche originali sono d Massimiliano Pace).

Un’efferata sinfonia registica che si nutre di tutta la magnifica drammaticità delle singole individualità che – seppur parti indispensabili e accordabili di una coralità – costituiscono la cruda autenticità dell’umano stare al mondo.

Il cast al completo

Le undici interpreti sulla scena – Viviana Toniolo, Silvia Brogi, Liliana Randi, Chiara Bonome, Chiara David, Francesca Di Meglio, Mariné Galstyan, Ashai Lombardo Arop, Maria Lomurno, Daniela Moccia, Sina Sebastiani trasformano in ritmo il tingere, il tessere, il cardare e il fare di conto del proprio respiro esistenziale, regalando vita ad un affresco antropologico magnificamente barbarico.

Una messinscena capace di comunicare, come nelle intenzioni dell’autore, “l’utero di immagini” all’interno del quale si è generato lo svolgimento testuale.

Proprio come in “un teatro politico di poesia”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GRANDE INGANNO – LA CENA DI VERMEER – di Maria Letizia Compatangelo – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Marzo 2024

Che cos’è il talento ?

Che cosa significa non tradire il proprio talento ?

Un’appassionata risposta emerge dal fertile testo di Maria Letizia Compatangelo (Premio SIAE 2014 – sezione commedia; Premio Vallecorsi 2014; Vincitore della selezione EURODRAM 2016) messo in scena per la regia di Felice Della Corte.

L’autrice Maria Letizia Compatangelo

Infatti se è vero che Han van Meegeren (1889 -1947) è noto come uno dei più abili falsari d’arte del Novecento, merito della drammaturgia e della regia di questo spettacolo è quello di fare luce sulle circostanze che spinsero Han van Meegeren non tanto ad essere un falsario quanto piuttosto a non tradire il proprio talento di artista.

Il regista Felice Della Corte

La soluzione scenica scelta ricorda lo spazio teatrale “plastico“ inaugurato da uno scenografo contemporaneo al periodo storico in cui si svolge la vicenda: Adolphe Fraçois Appia (1862-1928). Uno spazio scenico essenziale, costruito intorno alla tridimensionalità dell’attore che sceglie di rinunciare ai dettagli naturalistici, per articolarsi in moduli che distinguono la scena su più livelli.

Il sipario si apre sui giorni che Han van Meegeren è costretto a vivere in carcere essendo stato accusato di collaborazionismo: vende infatti al generale nazista Hermann Göring “il falso” Vermeer Cristo e l’Adultera. Per questo dipinto il vicecancelliere del Terzo Reich cede al pittore ben centotrentasette quadri.

Han van Meegeren è interpretato con profonda credibilità da Mario Scaletta, che in un’interessante specularità tra arte e vita oltre ad essere attore e regista è restato fedele, proprio come il personaggio che interpreta, al suo istinto pittorico. E’ infatti tra i 100 artisti di Via Margutta a Roma e realizza mostre in tutta Italia, con notevole successo di pubblico e di critica. 

Felice della Corte (Joop Miller) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

In carcere avviene un incontro epifanico: quello tra Han van Meegeren e il capitano Joop Piller (è Felice Della Corte a renderne tutta l’acuta sensibilità).

Tra i due, al di là di una formalità dovuta alle circostanze, si accende una particolare empatia spirituale.  Entrambi hanno un rapporto speciale con la bellezza, di cui l’arte si fa tramite. Il loro è un sentire di “far parte di un racconto” iniziato da qualcun altro, di cui i quadri rappresentano “la selezione di una scena, di un singolo istante della rappresentazione”.

Sarà proprio Piller ad accorgersi del disperato slancio vitale che da sempre colora di sapore l’esistenza di Han. Un giovane di talento che – osteggiato inflessibilmente dal padre e quindi non riconosciuto nel suo sentire – scopre di dare il meglio di sé  esprimendosi creativamente non con un proprio stile ma “proseguendo il sentire” del suo pittore culto: Jan Vermeer (1632-1675). Quello che apparentemente può essere visto come un “baro” in verità è un “gioco” necessario esistenzialmente ad Han e prezioso artisticamente per l’umanità.

Mario Scaletta (Han van Meegeren) e Caterina Gramaglia (Louise, la giornalista)

Perché ciò che conta è non tradire il proprio desiderio, il proprio talento. Non arrendersi, non tradire l’eccitazione per la sublime indeterminatezza della tela bianca ma seguire le forme che il proprio sentire può assumere. E così, cercare continuamente come in “un tormento – confida Han a Piller – finché non è diventato un ritmo interno”.

Perché “la verità di un artista non è la sua identità… a meno che non esista più di una verità”.

Perché se la libertà dell’essere umano è regolata dal “limite”, quella dell’artista è spesso “eccedenza”. 

Tiziana Sensi (Joanna, la moglie di Han) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

A suggellare la bellezza dello spettacolo, di questo “racconto nel racconto”, si inseriscono le splendide “scene” relative alle visite in carcere della moglie di Han, Joanna (interpretata con raffinata complicità da Tiziana Sensi); l’entusiasmo composto di Louise (un’efficace Caterina Gramaglia), la giornalista che sceglie di farsi portavoce dell’autentico e generoso talento di Han e l’arringa del Presidente della Commissione Alleata Belle Arti (un appassionato Paolo Gasparini). 


Uno spettacolo intrigante.

Prezioso per i tanti spunti di riflessione che offre: in particolare il tema del del talento e delle forme che il suo sentire può assumere.

Caterina Gramaglia, Tiziana Sensi, Paolo Gasparini, Felice Della Corte e Mario Scaletta


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA LEZIONE di Eugène Jonesco – regia di Antonio Calenda –

TEATRO BASILICA, dal 6 al 10 Marzo 2024 –

E’ una danza, un rituale di sublime bellezza la messa in scena de “La Lezione” di Eugène Jonesco per la regia di Antonio Calenda, che ieri sera ha debuttato a Roma nella metafisica cornice del Teatro Basilica.

Teatro Basilica

La prossemica ha la grazia di una coreografia; la vocalità veste i toni del canto; i corpi raccontano ciò che le parole non sanno dire.

Quando i principi della logica saltano, a parlare è la lingua dell’inconscio: quella dove eros thanatos amano darsi appuntamento.

Complice la raffinata drammaturgia delle ombre (disegnata da Luigi Della Monica) che, bisbigliando possibili pericoli, lascia scoperti i nervi della platea.

Così anche la scena (di Paola Castrignanò): elegante e altera cela in sé, al di là della solidità apparente, misteriosi vuoti inquietanti.

E poi i costumi (la cura è di Giulia Barcaroli):  impeccabili  “divise di ruolo” borghesi, che proprio per la loro maniacalità realistica insinuano dubbi sulla realtà stessa. 

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Di magrittiana bellezza la scelta registica di far sì che l’entrata in scena del Professore – interpretato da un Nando Paone mirabilmente a suo agio tra realismo e surrealismo – sia anticipata dall’entrata del suo “cappello di rappresentanza” (per mano della Governante : un’efficacissima Valeria Almerighi). Non sarà mai indossato ma resterà sempre in scena, come tributo (ipocrita) alle apparenze borghesi.

Nando Paone (il Professore) , Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Valeria Almerighi (la Governante)

Nonostante l’ossequiante rispetto delle formalità borghesi, lo spettatore è condotto dal regista nell’individuare  l’insinuarsi sulla scena di inaspettate perversioni alla norma. 

Non ultimo, il fatto che la scena si svolga in un (apparente) studio ricavato da una sala da pranzo: luogo deputato alla consumazione del pasto. Ma anche i contenuti di una lezione richiedono di essere ben masticati da un allievo o da un’allieva (qui da una candida e irresistibile Daniela Giovanetti).  Altrimenti sarà cura del Professore impartire un altro tipo di lezione: una lezione esemplare.

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Delicatamente erotico è lo stile che il regista sceglie acutamente di seguire per lasciarci fin da subito assaporare come la comunicazione possa prendere un gusto ambiguo, al di là delle regole costruite dalla logica.

Inclusa la stessa tensione tra professore e allieva: in bilico tra il distacco didattico e l’attrazione alchemica. Ma così è: lo diceva già Platone che s’impara solo per seduzione. E lo stesso professore di Jonesco ne è consapevole: più volte si rimprovera di non aver fatto degli esempi “efficaci” difronte alla mancata comprensione dell’allieva. E allora si lancia in una modalità incantatoria che poi vira al parossismo.

Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Nando Paone (il Professore)

Perché “insegnare” significa etimologicamente lasciare un segno sull’allievo, lasciare delle tracce.  Jonesco stesso definiva questo suo testo un “dramma comico”: un umorismo che mira a confondere e a contraddire quelle che chiamiamo certezze.

Perché in realtà siamo immersi nell’ambiguità del caos delle informazioni.

Le convenzioni della logica ci aiutano ad intenderci sì, ma dimenticano “le diversità” di cui si compone la verità. 

Valeria Almerighi (la Governante) e Nando Paone (il Professore)

Recensione dello spettacolo SALVEREMO IL MONDO PRIMA DELL’ALBA – Carrozzeria Orfeo –

TEATRO VASCELLO, dal 5 al 17 Marzo 2024 –

E’ proprio così invidiabile essere delle “star”? 

Siamo davvero sicuri che essere “stellari” significa “avere qualcosa in più” ?

Questo nuovo spettacolo della ferocemente saggia e divertente Carrozzeria Orfeo sembra invitarci a riconsiderare il pensiero che generalmente nutriamo verso coloro che ci sembrano vivere al “top”. 

Questa volta la sagace drammaturgia di Gabriele Di Luca così ricca di interrogativi esistenziali – la cui consulenza filosofica è stata curata da Andrea Colamedici di TLON – vira lo sguardo dallo stare al mondo degli “ultimi” della nostra società, allo stare al mondo dei “primi”: coloro che svettano in cima alla piramide del censo. 

Gabriele Di Luca

Come mai questo nuovo oggetto d’indagine?

Perché – così sembra emergere dal titolo e dallo spettacolo – nel nostro immediato futuro si profila decisamente urgente che i due estremi sociali imparino a “stringersi in un abbraccio”: a sviluppare quella sensibilità inclusiva – ormai quasi estinta – del portarsi aiuto, dell’aver cura a comprendersi. Perché è solo riscoprendo l’importanza del prendere in considerazione l’Altro che si può tentare di riorganizzare e ridisegnare il nostro attuale assetto sociale. 

E allora perché non veicolare questa necessaria esigenza proprio partendo dai “primi”, così ricchi anche in visibilità? Perché anche “i top” non vivono così divinamente come può sembrare: non sono così ricchi in “entusiasmo”. 

Ecco allora che la regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi li immagina desiderosi di raggiungere una clinica – edificata su di un satellite orbitante nello spazio (la scena e le luci sono curate da Lucio Diana) – per disintossicarsi dalle varie dipendenze da cui sono afflitti. E così tornare ad essere liberi.

Ma allora cosa significa essere liberi?

Ma non significava non avere limiti, divieti, costrizioni, leggi da rispettare? Se sì, come mai avere questo tipo di libertà incondizionata non rende davvero felici? 

Forse perché – come afferma la “star” femminile del gruppo di ospiti della clinica – la libertà “fa incazzare inizialmente”. Se infatti dapprima ti rende ebbro, poi ti fa insorgere un’angoscia tale dal tornare a desiderare non essere più libero e quindi responsabile del tuo operato. Preferendo dipendere: da qualcosa o da qualcuno.

Forse perché per continuare a desiderare essere liberi occorre rispettare dei confini, delle leggi, che proprio nel limitare il nostro arbitrio tutelano lo zampillare di quel desiderare così vitale da includere anche il desiderio degli altri.

Perché desiderare essere liberi – come sostiene Massimo Recalcati in “A pugni chiusi, Psicoanalisi del mondo contemporaneo”– implica un dare valore “all’arretrare”, più che all’affermare sempre e comunque se stessi. Per lasciare spazio anche all’Altro, così da sviluppare un senso di responsabilità senza troppe pretese di proprietà. 

Non a caso forse i personaggi in scena sono, ognuno a suo modo, “star” dell’imprenditoria che si lasciano “riavviare” dai programmi di psicoterapia (individuale e di gruppo) di una particolare Spa, al fine di una “remise en forme” del corpo e quindi dell’anima. 

Coordinatore, uno psicoterapeuta che ama farsi chiamare ‘coach’, che si avvale del potere terapeutico e quindi normativo della parola. Gli ospiti scoprono così che il raccontarsi autenticamente tra loro senza oscurare le proprie fragilità e l’accettare di essere ‘limitati’ da leggi e regole, riescono a regalare una profonda sensazione di quella nuova libertà che si coniuga con il concetto di umanità. 

Una libertà questa, immune dal dictat a “produrre” continuamente per continuamente “farsi comperare”, imposto subdolamente dall’ideologica capitalistica. Una perversione che lega il riacquistare il prodotto di volta in volta più “nuovo” all’illusione di poter essere felici perché al passo con i tempi.

Invece potremo riuscire a “salvare il mondo prima dell’alba” se “useremo le luci per illuminare le ombre”, come suggerisce questa splendida drammaturgia. 

Se faremo del mondo “il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico … se l’intelligenza artigianale resisterà all’intelligenza artificiale” – come invita a considerare il paesologo  Franco Arminio nel suo Manifesto “Il Paese dei Paesi.

Gli attori in scena – (in o.a.) Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti e Ivan Zerbinati – brillano come materiale esplosivo: sanno farci riflettere, ridere e un po’ vergognare. Perché quello che loro eruttano spudoratamente  fuori non è poi così lontano da quello che a volte noi pensiamo e implodiamo.

Uno spettacolo più che mai necessario che ci apre gli occhi e il cuore sul fatto che per natura noi umani siamo costituiti dall’istinto alla sopraffazione. Ma l’amore, il rispetto, la comprensione, la cura, li possiamo e li dobbiamo imparare.

Per poter riuscire a salvare il mondo prima dell’alba.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DONNE SENZA CENSURA scritto, diretto e interpretato da Patrizia Schiavo

TEATRO LO SPAZIO, dall’ 1 al 3 Marzo 2024 –

«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola / che non sia / d’amore / per me / per la mia vita / che è / tutto quello / che io ho / tutto quello / che io ho / e / non è ancora finita»

E’ un gesto d’affetto quello che si dona e ci dona Patrizia Schiavo.

Un modo, il suo spettacolo, per onorare la sacralità del femminile: radice dello spazio teatrale.

Un grido, il suo, che si fa lamento fino a divenire evanescenza di sussurro.

Da un’esplorazione interiore prende vita una rievocazione personale che si traduce in teatro: attraverso lo pseudonimo di Letizia Servo (una sagace scelta di sinonimi) Patrizia Schiavo dà voce a tutte le parti di sé che la abitano, incluse le più oscure. 

Silvia Grassi, Patrizia Schiavo e Sarah Nicolucci

Non ascoltarle e non lasciarle esprimere avrebbe rischiato di formare dannosi blocchi. Fluisce invece un racconto che riesce ad abbattere il muro del silenzio, delle ipocrisie e del perbenismo di una società che vuole le donne solo a determinate condizioni.

Un risultato raggiunto anche grazie agli efficaci interventi a specchio delle due alter ego Silvia Grassi e Sarah Nicolucci che, al di fuori di ogni vittimismo o moralismo, si espongono senza censura oltre quel velatino di scena, che contribuisce a creare la magia di renderle improvvise visualizzazioni dei pensieri. Epifanie della mente di Patrizia Schiavo, alias Letizia Servo.

Perché la bellezza, non tanto quella della forma, richiede una particolare cura per essere tutelata. E l’intensità della vocazione all’autenticità della Schiavo ci porta alla suggestione di ripensare ad Annarella, la Benemerita Soubrette di Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP.

Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea – Prefazione di Marco Belpoliti
con fotografie inedite di Luigi Ghirri – Quodlibet Edizioni

Perché è proprio da un disagio che un’artista coglie l’urgenza della propria ricerca. E la Schiavo da sempre sceglie di fare un teatro “necessario”, propedeutico al raggiungimento di una consapevolezza e quindi di una metamorfosi.

Un teatro come luogo d’incontro, strumento di denuncia e impegno civile contro la violenza. Luogo che attualmente ha preso la forma del Teatrocittà: una realtà artistica di altissimo livello, coraggiosamente insediatasi in una difficile periferia della capitale: Torrespaccata.

Ecco allora che anche la platea diventa “uno spazio di periferia” che necessita di aprirsi e di sperimentare. E infatti con generoso acume la Servo, rompendo la quarta parete, cerca continuamente il contatto e lo scambio con il pubblico, che provoca e insieme ristora. La risposta non tarda ad arrivare. Ed è generosa, complice, creativa.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

E poi, nel corso della rievocazione del suo complesso e fertile percorso a tutela di un’autonomia come donna e come attrice, arriva il momento di svolta: l’incontro con il Maestro e padre spirituale Carmelo Bene.

Ed è qui che la Schiavo ci regala una splendida testimonianza di come l’eredità che più conta è il modo in cui quello che abbiamo ricevuto viene interiorizzato e trasformato. Non si tratta tanto di uno spalmarsi passivo sull’eredità consegnataci ma di un fare proprio ciò che si è “respirato”.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

Consapevoli che nel destino di erede è incluso anche quello di essere orfano, come anche l’etimologia greca della parola erede ci ricorda. Perché un erede non può limitarsi a ricevere ciò che gli è stato lasciato, ma deve, proprio come un orfano, compiere un movimento di riconquista della sua stessa eredità. Perché quello che conta è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, come direbbe Massimo Recalcati.

E infatti la parola chiave di tutta la rievocazione della Schiavo – incentrata sul poter salvifico del raccontare – è “ancora”: la parola che meglio di ogni altra esprime l’essenza del desiderio, dell’entusiasmo, dello slancio vitale.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

Come anche il brano musicale che suggella lo spettacolo rivela con densa e malinconica potenza. Una malinconia che al di là dello stagnante rimpianto, si libera in una straordinaria forma di gratitudine: erede e orfana. E quindi creativa, viva. Ancora.

«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola / che non sia / d’amore / per me / per la mia vita / che è / tutto quello / che io ho / tutto quello / che io ho / e / non è ancora finita». 

Davvero uno spettacolo necessario.

Recensione dello spettacolo ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello – regia di Renato Chiocca –

Con GIADA PRANDI

TEATRO COMETA OFF, dal 27 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

E’ una bambola dal casco d’oro che non ama essere giudicata ma osservata in profondità, l’Anna Cappelli immaginata dalla sensibilità del regista Renato Chiocca e interpretata dall’intensa Giada Prandi

Una donna che pur non avendo potuto dare forma ad una sua identità, si apre fin troppo generosamente alla società in trasformazione del suo tempo (l’Italia degli anni ’60). E non avendo un suo sguardo critico a proteggerla, finisce per girare ossessivamente intorno ad alcuni pensieri fissi – come efficacemente sottolinea anche la drammaturgia musicale di Stefano Switala – fino a rimanerne vittima.

Un modo di essere donna ancora molto attuale.

Giada Prandi (Anna Cappelli) e Renato Chiocca, il regista dello spettacolo

Già in famiglia Anna non si sente riconosciuta nella sua personale identità e inizia ad essere gelosa ed invidiosa. Defraudata delle attenzioni che avrebbero dovuto essere dedicate appositamente a lei, fugge via dalla sua famiglia e dal suo paese. Ma la fuga da sola non risolve nulla, se non è supportata dalla spinta a mettere in campo nuove modalità di sperimentare se stessi.

La sua psiche, a cui allude suggestivamente l’allestimento scenico di Massimo Palumbo, ha confini delineati (dagli altri) ma risulta priva di pareti di spirito critico. E così Anna resta totalmente invasa dai condizionamenti che le arrivano dall’estero e per appagare la sua fame di attenzione – che le regala la sensazione di esistere davvero – tende ad assecondare troppo spesso le richieste degli altri. Il rischio che ne consegue è quello di restarne manipolata: fatta girare come una bambola e poi buttata giù. 

Consapevole delle evidenti difficoltà ad entrare in relazione con gli altri, Anna cerca di compensare la sua fame di appartenenza legandola almeno alle cose: “alla roba”, dalla quale non ci si deve aspettare un essere ricambiati.  Orientandosi così sempre più – figlia anche del tempo nel quale si trova immersa – verso il “possedere” piuttosto che verso “l’essere”.

L’obiettivo diventa a questo punto quello di farsi scegliere, per mettersi nelle mani di qualcuno che già possiede “cose”. Ma Anna, impossibilitata a condividere qualcosa con gli altri, farà in modo – nella sua mente – di epurare “le cose ereditate” dall’odore impuro di chi l’ha preceduta. Così da poter dire che sono “solo sue”.

Ma niente è per sempre. E così quando il Ragionier Tonino, il pollo dalle uova d’oro che lei “crede” di avere nelle sue mani, stanco di farla girare come una bambola la butterà giù, lei entrerà in un corto circuito emozionale che incendierà anche il senso dell’olfatto, nostro cervello ancestrale.  Così quell’accattivante odore per la carne, con il quale acutamente Annibale Ruccello apre questo stupefacente testo, finisce tragicamente per chiuderlo.

Con raffinata perspicacia il regista Chiocca individua nella sagace sensibilità multiforme di Giada Prandi l’interprete cui affidare questo lamento femminile di sublime bellezza. 

Focalizzando la sua attenzione sulle dinamiche mentali che danno forma alla natura umana, in particolare alla splendida complessità dell’animo femminile, Renato Chiocca fa di questo personaggio dalle forti tinte tragiche una creatura della quale non possiamo evitare di sentire la calda vicinanza. Soprattutto in questo periodo storico che stiamo attraversando, in cui il rischio alla sovraesposizione – in questo caso digitale – ci rende facilmente prede.

L’Anna Cappelli di Chiocca ci si dà, si mette nelle nostre mani – anche prossemicamente – per essere ascoltata nel profondo: al di là del giudizio, che impaziente vorrebbe chiudere lo sguardo e condannare. 

La drammaturgia delle luci di Gianluca Cappelletti (che sa come far penetrare fin dall’inizio l’ingresso delle ombre fino a materializzarle con chiara evidenza nella parte finale del dramma) unita all’estro carico di simbolismo che caratterizza la cura dei costumi di Anna Coluccia (che progressivamente spoglia Anna di ogni difesa ) accompagnano ed enfatizzano l’accurata ed avvincente profondità dell’interpretazione della Prandi. 

E’ lei infatti che ci porta con sé al di là del facile e banale perbenismo che ammanta il suo personaggio, permettendoci di intravedere fin da subito negli occhi di Anna guizzi di rabbia o di fosca capricciosità, che arrivano a farla letteralmente “friggere” d’insofferenza verso le forme di condivisione più elementari.

E’ lei che ci fa accedere al ventaglio di manifestazioni passive con cui si esprime il bisogno di Anna di essere accettata. Fino alla splendida restituzione di una solleticante seduttività, che lei crede di agire ma dalla quale in verità è solo agita. E della quale non riesce a tollerare l’incertezza.

E’ lei a veicolarci l’esigenza di Anna a “vincolare” , chiudendolo in un contratto, “l’acquisto” dell’altro per scacciare l’assillante spettro dell’ ”assenza”, del vuoto d’identità. Ecco allora che i suoi pensieri prendono la forma del delirio, dell’allucinazione, del sempre più forte distacco dalla realtà fino a perdersi totalmente una volta messa di fronte all’abbandono. Ancora un abbandono, di cui non si era accorta prima che prendesse forma compiuta.

Allora lo spettro dell’assenza prende corpo e spettrale diventa tutta quella che lei credeva una sua solida costruzione. Ma è una situazione inaccettabile. Occorre portare in salvo ciò che sta per andarsene e “l’unico” modo è trasformare un essere sensiente (che rifiuta di relazionarsi con lei) in “una cosa” . In qualcosa che non può opporsi alle sue aspettative.

Fino a scoprire però che non c’è “gusto”.

E il dubbio di non aver fatto la giusta scelta, la divora.


Annibale Ruccello aveva una particolare cura – che prese la forma di una vera e propria vocazione – verso il disagio antropologico che in ogni epoca accompagna alcuni gruppi della popolazione. 

Sua è l’inclinazione a farsi cantore della sensibilità degli inquieti e dei malinconici, tanto che la sua accoglienza esistenziale lo spinge a fare del teatro il luogo privilegiato dove riuscire a rivelare le ipocrisie, gli odi, le viltà della società nella quale i suoi personaggi si trovano immersi. 

Società la cui prima forma embrionale è la famiglia: luogo dove non sempre è facile trovare una generosa accoglienza. 

Ecco allora che lui amorevolmente restituisce identità, e quindi dignità, allo stare al mondo di questi esseri umani: ”personaggi, che difendono un sogno di purezza, nel buio spaventoso del tempo che li ingoia”, come mirabilmente li ha definiti il Prof. Matteo Palumbo nell’introduzione al volume “Annibale Ruccello e il teatro del secondo Novecento” a cura di Sabbatino Pasquale,  Edizioni Scientifiche italiane.


Annibale Ruccello

Recensione dello spettacolo 456 – scritto e diretto da Mattia Torre

TEATRO VASCELLO, dal 27 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

In principio era il sugo: quello della nonna.

Dal giorno della sua morte, quattro anni or sono, il sugo silenziosamente continua a sobbollire sul fornello, grazie ai continui rabbocchi dei familiari: un rituale ossessivamente rispettato all’interno del quadrato magico di questa trinità etologica.

Tra cura e accanimento, si continua a mantenere in vita questa divinità familiare (che si crede contenere “l’anima della nonna”) nella speranza che prima o poi la cottura alchemica trasformi – e quindi renda digeribile – ciò che ancora risulta indigesto.

Ad esempio il nervosismo carico di dubbi di Genesio (Carlo De Ruggieri), il figlio di Ovidio (il pater Massimo De Lorenzo) e di Maria Guglielma (la mater Cristina Pellegrino), che si rifiuta sommessamente di onorare il rituale familiare.

Cristina Pellegrino (Maria Guglielma, la mater); Carlo De Ruggieri (Genesio, il figlio) e Massimo De Lorenzo (Ovidio, il pater)

ph Alessandro Cecchi

Lui, più dei genitori, è tentato dal solletico del vento: osa sognare evadere. Per tenere sotto controllo la tentazione a desiderare deve fumare, illudendosi così di produrre lui il vento. Oppure deve lasciarsi cadere nell’incantesimo di una ninna nanna, somministrata puntualmente dalla mater nel suo orecchio: un irresistibile racconto sul suo animale totem, il ghiro, tratto da una sorta di bibbia del mondo animale, dove si descrivono tutti i pericoli del sottrarsi da una rassicurante letargia esistenziale.

Ma anche Ovidio, il pater, è particolarmente nervoso a causa del vento: un libeccio che non soffia solo fuori. E lui lo sa. Ma si può domare: nel suo caso risulta efficacemente letargico l’udir il succulento dispiegarsi di un menù – ed è sempre la mater colei che shakespearianamente somministra il farmaco della parola che seduce/manipola nell’orecchio – ideato specificatamente per scongiurare possibili nervosismi da parte di un ospite (Giordano Agrusta) dal quale ci si aspetta una conferma. Misteriosa.

Messo a tacere il nervosismo di Ovidio, ora la famiglia può passare alle prove della messa in scena della cerimonia d’accoglienza dell’ospite: una dimensione meta-teatrale dove il pater si fa director (regista).

Carlo De Ruggieri (Genesio, il figlio), Giordano Agrusta (l’ospite), Cristina Pellegrino (Maria Guglielma, la mater) e Massimo De Lorenzo (Ovidio, il pater)

ph Alessandro Cecchi

E poi c’è Maria Guglielma: lei, oltre ad esser l’unica a detenere il potere di saper insufflare seducenti farmaci, è abitata da un vento di mancata giustizia che nessuno dei due uomini sa domare efficacemente, se non attraverso botte e sputi. Ma i venti delle donne sono diversi: richiedono una cura speciale per essere calmati. E intanto lei sa aspettare.

ph Alessandro Cecchi

Il loro è un microcosmo familiare ancestralmente lontano eppur vicino a noi: dalla prossemica etologica sì, ma nella quale non fatichiamo a riconoscerci. Perché l’odio viene prima dell’amore; perché l’istinto di sopraffazione ci costituisce come esseri umani e l’amore invece va imparato.

Anche di questo ci parlano la drammaturgia e la lingua – cesellata ad hoc per questo spettacolo – di Mattia Torre, che osano spingersi sul confine tra umano e animale.  Ma non sul confine che separa i due mondi; piuttosto sulla frontiera intesa come luogo d’incontro dei due mondi, solo apparentemente opposti. Perché anche il bene è contiguo al male, così come il riso è contiguo al pianto. E spingersi proprio lì dove i due opposti sono così vicini produce uno stato di grazia: feroce e giocosa. Elegantemente irriverente.

Mattia Torre

Perché la catarsi che si produce è una presa di consapevolezza profonda che non spinge il pubblico a rimanere frustrato. Ma a rilanciare. Sempre.

Perché se è vero che siamo stati gettati al mondo in questa crudele precarietà di sopraffazione, dove la famiglia è anche la prima esperienza di crudeltà protettiva e l’imprinting della difficoltà di tessere sane relazioni, è vero anche che esiste una miniera di possibilità a cui attingere e a cui credere sempre. Subito. A cosa nello specifico? “A questo poi ci pensiamo”.

– ph Alessandro Cecchi –

Gli attori in scena – Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino e Giordano Agresta – sono la stupefacente materializzazione della babele linguistica che riesce ad essere contenuta in questo nuovo idioma, che esprime con esplosiva efficacia una scrittura drammaturgica così materica da risultare quasi metafisica. Dove anche gli oggetti di scena rispondono ad una loro prossemica simbolica. Dove tutto recita. Dove tutto ci è necessario.

Uno spettacolo che riesce a farci morire dalla voglia di vedere come siamo in realtà: al di là delle convenzioni, del quieto vivere, del politically correct. 

Uno spettacolo che ci fa desiderare conoscere la nostra scandalosità: lo scandalo dello stare al mondo. Lo vediamo e insieme ci detestiamo e ci commuoviamo.

Uno spettacolo che ci apre gli occhi sul peggio di noi e in qualche modo ci permette di accettarlo. Non per crogiolarci, tutt’altro.

Per rilanciare. Sempre.

Recensione di Sonia Remoli


LEGGI la recensione del libro

Recensione dello spettacolo LA ROSA NON CI AMA di Roberto Russo – regia di Gianni De Feo

TEATRO LO SPAZIO, dal 22 al 25 Febbraio 2024 –

Vivere è un gran rompicapo: un pò come c’insegnava il cubo di Rubik

Si nasce composti, ordinati e poi la vita ci scompone, ci spettina. Spesso sono venticelli calunniosi a farci perdere il senno, che come i petali di una rosa profumano eppur celano spine. 

Ma il gusto del gioco forse è proprio quello di dedicarsi a ricomporre l’ordine. Continuamente. Perché la vita continuamente ricomincia, come amava ripetere Hannah Arendt.

Cloris Brosca e Gianni De Feo

Non ci sono vincitori né vinti quando una storia d’amore finisce. E lo stesso vale anche per quella tra Carlo Gesualdo (1566- 1613) – noto compositore e Principe di Venosa – e Maria D’Avalos.

Sebbene la storia abbia chiuso la vicenda che ha visto il Principe uccidere “legittimamente” Maria e il suo amante, la drammaturgia di Roberto Russo va oltre. E immagina qualcosa di diverso, di più vitale ed estremamente lirico.

ph Manuela Giusto

Ecco allora che legando sinergicamente il suo testo, all’intensa interpretazione attoriale di Cloris Brosca e di Gianni De Feo – che ne cura anche la regia – prende vita uno spettacolo che onora con grande efficacia lo sperimentalismo dello stile musicale di Carlo Gesualdo, dando prova di saper accordare l’audacia ritmica, l’intrepidità armonica e l’estremo cromatismo musicale del madrigalista di Venosa al testo poetico.

Complice l’estro musicale di Alessandro Panatteri che compone per l’occasione musiche originali sui testi di Torquato Tasso e la cura della drammaturgia musicale da parte di Gianni De Feo.

A coronamento, la costruzione solenne e magica dell’impianto scenografico – che può leggersi anche come spazio della mente – di Roberto Rinaldi. Davvero suggestiva l’installazione che allude al misterioso intrico di emozioni di cui si compone la vita (e che si ritrova poeticamente anche nell’acconciatura di Maria D’ Avalos) ma che può trovare composizione affidandosi alla potenza dell’amore e alle ali del perdono. Di Roberto Rinaldi è anche la cura molto efficace dei costumi dei due interpreti. Grande potenza iconografica quella sprigionata dai movimenti scenici.

ph Sabrina Cirillo

Ed è impossibile a tutti noi del pubblico non godere della musicalità linguistica del Cinquecento che si sprigiona nell’aria. Dove la lingua napoletana trova la maniera di legarsi e poi duellare fino a ricomporsi con lo spagnolo. Senza ostacolare incursioni di latino.

ph Sabrina Cirillo

La lirica creatività di Roberto Russo immagina che la vita di Carlo Gesualdo e di Maria D’Avolos non termini con la morte storica. Così fa in modo che i due si ritrovino oltre la morte: un pò come lo Jago e l’Otello del Pasolini di “Uccellacci e uccellini” catapultati tra l’immondizia di un “non posto”. 

Una morte quindi, quella che per loro immagina il drammaturgo Russo, che non separa definitivamente ma che è un confine sul quale ci si può incontrare. Ancora. Provando a ricomporre il caos nel quale – solo temporaneamente – si era conclusa la loro relazione. Proprio come si faceva, appassionandosi, con il cubo di Rubik.

ph Sabrina Cirillo

Prende avvio allora una rievocazione che torna a saggiare le informazioni spesso manomesse dai pettegolezzi – che tanto fanno godere chi ha una vita povera di stimoli – i quali sembrano profumare così intensamente di verità quando invece nascondono l’aridità pungente propria delle spine di una rosa. E qualcosa succederà.

ph Sabrina Cirillo

La Maria D’Avalos di Cloris Brosca si dona in una magnifica articolazione vocale che le permette di essere matematica e lirica. Sempre credibile e dalla multiforme espressività, dona carattere anche alle altre partiture che le sono affidate in scena.

Gianni De Feo – che oltre a dare anima a Carlo Gesualdo si moltiplica in una varietà stupefacente di partiture, brilla d’intensa poliedricità. Brucia in tensione creativa. Con straordinaria efficacia e repentinità esce da una psiche per lasciarsi abitare da un’altra. E poi un’altra ancora.

E’ incanto.

ph Manuela Giusto