Recensione dello spettacolo L’ UOMO CHE VOLO’ OLTRE SE STESSO di e con Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini

TEATROSOPHIA, dal 17 al 19 Maggio 2024


Quanto bisogno abbiamo – per natura – di essere visti e letti dagli altri, commentati e quindi oggetto di un loro racconto?  

Quanto bisogno abbiamo di essere ricordati per qualcosa di unico e quindi deviante dalla normalità?

Quanto ci fa sentire davvero vivi tutto questo?

E cosa succede invece quando si verifica un deficit di vitalità e quindi di visibilità, preda di quell’ “autunno del nostro scontento” che ad esempio da anni affligge l’indolente e fedele Wakefield e la sua silenziosissima moglie, che sceglie di abdicare anche ai piaceri insiti nel dialogare per rinchiudersi in una muta e fedele osservazione del marito?

Succede che ci s’impoverisce sempre più del nostro potere erotico-immaginativo, finendo per non trovare più le parole per poter definire ciò che davvero desideriamo comunicare, o che sospettiamo danneggiarci. “La sua mente – dice la moglie di Wakefield nel racconto che, del fatto di cronaca, ne fa Nathaniel Hawthorne – s’intratteneva in lunghe e oziose meditazioni che non tendevano a nessun fine o non avevano forza sufficiente per raggiungerlo, i suoi pensieri erano di rado abbastanza risoluti da trovare espressione nelle parole”. E’ quello che succede quando ci si uniforma al sistema dei sistemi, rinunciando a perdere la nostra singolare individualità, le nostre aspirazioni, in cambio dell’essere riconosciuti in una massa di “normalità omologata” .

E il vero danno è che non trovare le parole per dire ciò che ci interessa davvero comunicare – ovvero non ascoltare il nostro demone creativo – fa smettere di esistere i desideri. Perché questo è il potere della parola e quindi della scrittura: far esistere le cose. Se non si hanno le parole per dirle, le cose che pensiamo non trovano realizzazione.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Per questo lo spettacolo che Giuseppe Manfridi costruisce come un gustosissimo gioco per intarsi dinamici, che sanno incastrarsi e insieme lasciarsi liberi di saltare oltre se stessi, risulta prezioso. Anche politicamente, in quanto veicola e rende fruibilissimo il concetto di “comunità”. Che al di là di una perversa vocazione all’omologazione, sa invece accogliere quei preziosi salti, quelle devianze dalla dritta via, che regalano gusto e nutrimento al nostro stare al mondo.

Ce ne parla Wakefield con quella sua “disposizione all’inganno che di rado aveva prodotto effetti maggiori di qualche piccolo segreto che teneva celato” ma che un venerdì di ottobre il suo demone persuade a far si che prenda la forma di un vero e proprio salto lungo 20 anni.

Ce ne parla Bob Beamon con il suo “chi lo sa! “: carma, dalla magnifica apertura ad uno sterminato salto dì possibilità, sussurratogli dal suo demone (racconta Manfridi) e da lui ripetuto come in trance prima di confezionare in 7 secondi un salto lungo 8 metri e 90 centimetri.

Ce ne parlano i piedi scalzi e il pugno in guanto nero di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri piani ai Giochi Olimpici del 1968. Salti (ovvero coraggiosi gesti simbolici contro il razzismo) lunghi il tempo della squalificazione dalle gare successive. 

Ce ne parla, facendo un salto di pochi giorni e di pochi metri dal villaggio olimpico del 1968, la mattanza di Tlatelolco nella quale furono massacrati migliaglia di studenti con le loro famiglie per aver osato chiedere pacificamente il rispetto dei loro diritti.

E ce ne parlano ancora altri interessantissimi personaggi della letteratura, che la magia di Giuseppe Manfridi andrà a contattare.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Questo racconto dei racconti intessuto da Giuseppe Manfridi  ed interpretato – sotto il cesellante sguardo registico di Claudio Boccaccini – con una complicità fascinosamente dotta, predispone il pubblico a gustare la succulenza dell’enunciazione del ricamo di storie, che si dispiegano richiamandosi incredibilmente tra loro, in un intendersi di analogie.

La speciale sinergia artistica che si sprigiona tra Claudio Boccaccini, Giuseppe Manfridi e Antonella Rebecchini – estrosa autrice delle immaginifiche installazioni sceniche – è tale da riuscire a far “volare oltre se stesso” questo fantastico spettacolo.

Claudio Boccaccini

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo QUESTO E’ IL TEMPO IN CUI ATTENDO LA GRAZIA – da Pier Paolo Pasolini – regia di Fabio Condemi

TEATRO VASCELLO, dal 14 al 19 Maggio 2024

Gabriele Portoghese

E’ il nostalgico rammarico di un paradiso perduto: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.

Condizione esistenziale che – osservando la poetica installazione scenografica sul palco del Teatro Vascello – potrebbe essere tradotta anche così:  “ Perché realizzare una nascita (all’esterno) quando è così bello restare dentro la propria madre e sognare, da lì, la vita che si potrebbe realizzare (all’esterno)?

E infatti dentro un utero di terra, sulla cui sommità spuntano lunghi ciuffi d’erba profumata, si rotola beato il feto di Pier Paolo Pasolini (reso con santa e realistica plasticità da Gabriele Portoghese).

E sotto un caldo cielo notturno, un coro di grilli annuncia la sua imminente venuta al mondo.

Un sole di provincia e il pianto dei salici gli danno il benvenuto, una volta avvenuta la separazione dal corpo materno. 

Gabriele Genovese

E come in un gioco con la palla, il neo-nato passa di mano in mano, di braccia in braccia. Finché non arrivano “quelle” braccia: inconfondibili. Come il bianco seno che custodiscono e che si slaccia per offrirsi alla sua piccola bocca. E proprio da lì, epifanicamente, “lo sguardo” del neonato incrocia quello di sua madre. Anche il coro di cicale ne resta folgorato. E tace. 

Passano gli anni e in una sera di profonda estate – sulle note di una canzone di Claudio Villa – il piccolo si ritrova a “incollare il suo sguardo” sui suoi genitori, ”alleati in un abbraccio”  danzante.  Sotto un cielo di fuochi d’artificio premonitori di traumi, il piccolo continua a seguire con lo sguardo i suoi che ora s’infuocano in un abbraccio “senza pudore e senza malizia”.

Slacciatosi infine dalla moglie, il padre sente improvvisa la premura di andare, ora lui, “a guardare” il figlio. E lo invade un moto incontrollabile di stizza: quello che si può nutrire verso un edipico rivale in amore. 

Ma cosa significa “vedere” ? Cosa si cela dietro al desiderio di vedere? E che cosa può succedere quando prende il sopravvento il desiderio di non voler vedere ?  Quale croce e quale delizia si annidano nei nostro occhi, nel nostro sguardo ? Quanto ad esempio l’odore (ovvero gli occhi dell’olfatto) di questo edipico prato verde  torna ad abitare e a chiudere la vita e le opere di Pasolini ? Quanto lo sguardo di chi ci getta al mondo genera anche il nostro destino ?  

“… In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio.
E, se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra:
o silenzio o odore di erba o fresco di acque dolci.
Eh sì: tutto è santo! Ma la santità è insieme una maledizione.
Gli Dei che amano in un tempo stesso odiano…”.

Gabriele Portoghese

La narrazione poetica ricostruita da Fabio Condemi é carica di quella quotidiana ignara bellezza che sola può esprimere il sacro della realtà. E procede attraversando una selezione di sceneggiature del corpus pasoliniano – necessarie allegorie per la comprensione della realtà – capace di regalare vita ad un’insolita ed affascinante “biografia poetica” sul poeta friulano.  

Una lettura del corpus scenografico che viene analizzato – proprio com’era nello stile del folgorante insegnamento dello storico dell’arte Roberto Longhi – attraverso un accurato “sguardo sui particolari” dell’opera stessa. 

Longhi era solito avvalersi di diapositive per inquadrare – non solo visivamente – quei dettagli, quei frammenti così preziosi per cogliere il valore di un’opera.  Qui Condemi – che per la drammaturgia delle immagini ama avvalersi del sapiente estro di Fabio Cherstich – traduce l’eredità delle diapositive con delle brevi “proiezioni-apparizioni” che orientano lo spettatore nell’indirizzare lo sguardo su quei particolari della narrazione drammaturgica capaci di rivelarne la cifra dell’originalità. 

Gabriele Portoghese

Gabriele Portoghese è un incantatore: la sua meravigliosa e feroce capacità istrionica costruita su calibratissimi dettagli riesce a mettere a servizio del testo il corpo e la voce con una disponibilità, direttamente proporzionale al potere calamitante che esercita su chi lo ascolta. Che si lascia stringere in una morsa d’attrazione, fino alla fine dello spettacolo.


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo 1 PERSONA – scritto e diretto da Matteo Pantani

ARTEMIA CENTRO CULTURALE , dall’11 al 13 Maggio 2024

Eccomi qua
Sono venuto a vedere
Lo strano effetto che fa
La mia faccia nei vostri occhi
…”

Cosa c’è dentro la “valigia dell’attore” ?

Più precisamente, cosa tende a sfuggirci quando la valigia si apre ?

Cos’è cioè quel qualcosa che resta un po’ al buio, poco illuminato, tanto che può risultare utile una  piccola torcia per  inquadrarlo ?

Insomma, cosa fa sì che valga la pena fare l’attore ? Essere “1 persona”: perché così veniva chiamato dai latini l’attore. Che poi equivale a dire: cosa dà un sapore irresistibile alla nostra vita rendendoci unici, irripetibili, speciali ?

Elena Biagetti

Che cosa ci rapisce, ci seduce, fino a renderci prigionieri di un autentico desiderio? Che cosa sentiamo che ci manca così tanto da diventare un’esigenza vitale ? Perché questo è un autentico desiderio, non quelli che ci vengono spacciati come bisogni dalle strategie di marketing dei social o dei media.

Che cosa ci affascina dell’Arte intesa in tutte le sue espressioni – in particolare nell’arte teatrale – se non la stupefacente sensazione di farci sentire liberi ? E quindi vivi, realizzati? Al di là dei soldi.

Questo accattivante spettacolo scritto e diretto da Matteo Pantani e interpretato dalla caleidoscopica Elena Biagetti  è una sagace applicazione del metodo socratico della maieutica. Una forma di comunicazione  –  nello specifico un dialogo – che ci porta ad essere consapevoli delle nostre capacità, così da indirizzarle verso la nostra “vocazione” di vita. Sentendo il piacere di dedicare il tempo che ci è concesso a conoscere davvero noi stessi. Conoscenza che ci rende liberi. Una sensazione dall’effetto stupefacente: l’unica dipendenza che ci rende longevi.

Elena Biagetti

Lo spettacolo si apre infatti con un momento di  profonda insicurezza da  parte dell’attrice sulle sue capacità di riuscire ad interpretare efficacemente il testo tagliato su misura su di lei come un abito – anzi come una seconda pelle – dal suo autore e regista.

Dubbi, quelli dell’attrice – ma in generale quelli che capita di vivere per i più svariati motivi a ciascuno di noi in alcuni momenti della nostra vita – da non mettere a tacere perché in realtà preziosissimi per conoscere noi stessi  e vivere con il piacere di sentirci davvero realizzati. 

Interrogandoci, appunto, e verificando se quello che abbiamo il dubbio di fare è una direzione che non ci appartiene ma che subiamo perché condizionata da altri o invece è solo un timore che vela un grande desiderio tutto da scoprire. Un desiderio così solleticante, così vivo e vibrante da averne quasi paura.

Perché l’attore ha il dono di riuscire a vestirsi e a svestirsi della pelle di volta in volta diversa di ciascun personaggio. Come la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto è sempre disposto a mettersi a nudo di se stesso per poter indossare tutti i vestiti (stracci) dei vari personaggi che gli si chiederà di far propri, per un periodo. E che scoprirà non essere mai così lontani da se stesso.

Elena Biagetti

E anche tutti noi ogni giorno, senza esserne consapevoli come un attore, mettiamo sulla scena della nostra vita tutti i vari personaggi (identità) che danno forma alla nostra personalità.

Nel corso dello spettacolo sarà l’autore-regista  a far “partorire” nell’attrice la consapevolezza di aver scelto – e di continuare ancora a voler scegliere – la voglia di desiderare: quel senso di vuoto, propedeutico alla ricerca di qualcosa che può colmarlo, almeno in parte.

Uno spettacolo accuratissimo in ogni dettaglio: dal testo, alla direzione attoriale, al sapiente uso delle luci e delle ombre, ai sottotesti scenografici. 

Uno spettacolo che rende divertente per lo spettatore muoversi tra i vari significati che rendono la nostra vita così complessa ma anche così maledettamente viva. Interessante. Libera.

Una vera opera d’arte.

Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto

“…E allora eccoci, siamo qua
Siamo venuti per poco
Perché per poco si va
E c’inchiniamo ripetutamente
E ringraziamo infinitamente
…”


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello studio ANDROMEDA (o della memoria ritrovata) – scritto e diretto da Francesco d’Alfonso –

SPAZIO DIAMANTE, 10 Maggio 2024 – Festival inDivenire

Come ci affascina l’essere ricordati !

E come può essere affascinante anche “farsi memoria”: ricercare i frammenti sparsi di storie e tentare di riunirli attraverso il racconto ! 

Come erano soliti fare gli aedi greci o i cuntisti siciliani. E come ha fatto anche Francesco d’Alfonso in questo studio, di cui è drammaturgo e regista. Sua cura e sua passione sono state quelle di tentare di dare una possibile forma all’ Andromeda: la tragedia di Euripide andata persa, di cui si conservano non più di quaranta piccoli frammenti.

Francesco d’Alfonso immagina allora che, in una sorta di rituale magico-cosmologico che si avvale del potere demiurgico della parola, il racconto di un cuntista – del quale si ode la voce fuori campo (quella di Gabriele Cicirello) – riesca a scongiurare il rischio che si perda la memoria del mito di Andromeda.

E’ sarà così allora che la tormentata chiusura con la quale si apre la scena, che così tanto allude alla sublime bellezza del blocco marmoreo dell’ “Andromeda” di Auguste Rodin per rendere lo stato di dimenticanza in cui attualmente si trova il mito, potrà sbocciare nella mirabile completezza del ricordo.  

Andromeda” di Auguste Rodin

Il potere vivificante del racconto dona movimento alle acque del mare così come alle costellazioni del cielo, in un mondo “dove la terra confina col cielo, e il cielo col mare“. Ne nasce una danza che disegna onde e cinge gruppi di stelle generando una spuma che si materializza sulla scena attraverso voluttuosi drappi (i costumi sono curati da Elina Maria Vaakanainen),  materia sulla quale prende vita una suggestiva coreografia di movimenti scenici, le cui interpreti sono Giada Primiano, Federica Bisceglia, Sofia Russotto.

Il mito racconta che la madre di Andromeda, Cassiopea, si fosse macchiata del peggiore dei peccati di cui si potevano macchiare gli umani: quello di hibrys (ovvero superbia, tracotanza). Dichiarò infatti che sua figlia Andromeda era più bella delle stesse Nereidi, le quali, offese, riferirono il fatto a Poseidone, che per punirla fece invadere le acque del territorio etiope da una creatura mostruosa. Consultato l’oracolo Ammone per trovare una possibile espiazione al peccato della moglie, a Cefeo fu detto di sacrificare la propria figlia in pasto al mostro. E così si fece. 

Ecco allora che la scena lascia intravedere la tormentata Andromeda incatenata ad uno scoglio, in attesa di essere divorata dal mostro.  Di lei al di là della sublime bellezza della sua postura non possiamo non notare la modernità del ragionare: così libero e così angosciato. Che non conosce rassegnazione. “Chi sono io ?” – osa chiedersi – “perché sono così infelice?… la giustizia mi ha abbandonato”. 

Francesco d’Alfonso rende con efficacia in questa sua drammaturgia le dinamiche psicologiche che abitano i personaggi di Euripide,  espressione di un’umanità così inquietamente moderna, rispetto ai personaggi delle tragedie di Eschilo e di Sofocle, rassegnati alla volontà divina.  

Davvero espressiva Eny Cassia Corvo, interprete di Andromeda: nonostante il corpo preda delle catene. Dilaniante la sua lucidità nel definire l’atteggiamento passivo dei suoi genitori, rassegnati a “condurla viva al sepolcro”. Una madre che le fa dono e danno di una straordinaria bellezza. Un padre, da lei amato sopra ogni creatura, che non fa nulla per sottrarla alla morte. E la consegna al supplizio di una non meglio definita attesa.

Ma all’improvviso, di ritorno dall’impresa vittoriosa contro Medusa, arriva lui: Perseo, “colui che osa andare per l’aria del cielo”. E subito ne resta rapito dalla bellezza, pur così imprigionata nei movimenti; pur così stravolta dalle lacrime. Ne è preso a tal misura che “per poco non dimenticò di battere nell’aria le ali”. 

La regia di Francesco D’Alfonso sceglie di non far risaltare la pesante immobilità in cui si trova costretta Andromeda rispetto alla leggerezza di cui è dotato Perseo, che Euripide faceva arrivare come un deus ex machina.   Chiede e ottiene che il Perseo di Giorgio Sales la convogli tutta nella mobilità degli occhi, nella vibrazione degli sguardi, nella vaporosità dei colori della sua voce. Anche nel ballo di intenzioni e di promesse che si scambiano, la potenza incandescente della loro tensione è tale che non serve che si tocchino. La regia di Francesco d’Alfonso lavora in sottrazione e coglie nel segno.

L’amore tra Andromeda e Perseo fu tale che durò oltre la morte: dalla terra al cielo. Perché l’ardire del loro vivere fece sì che Atena li consegnò al mondo delle stelle. 

E se è vero che la costellazione di Andromeda è facilmente individuabile nel cielo boreale soprattutto tra settembre e gennaio, è parimente vero che alimentare il ricordo, ovvero riportare al cuore le storie che rischiano di andare perse, è la cifra della nostra umanità. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ULTIMI CREPUSCOLI SULLA TERRA – liberamente ispirato all’opera letteraria di Roberto Bõlano – regia e drammaturgia di Fabio Condemi

Quanto ci piace “vederci chiaro” nelle esperienze della vita?

Quanto è importante raggiungere questa condizione per poter alimentare in noi la sensazione di tenere tutto sotto controllo? 

Fabio Condemi

Lo sguardo registico di Fabio Condemi intorno alla poetica di Roberto Bõlano sembra venirci incontro su questa esigenza esistenziale, che più o meno tutti ci accumuna. 

E con la complicità artistica di Fabio Cherstich – che ne cura le scene, la drammaturgia delle immagini e i costumi – ci immerge fin da subito in un habitat minimalista, frammentato e iper controllato che si avvale della sinergia delle temperature offerte dalle tecniche cinematografiche. 

Infatti, non solo in proscenio campeggia una macchina per la ripresa, ma la rappresentazione che si dà sulla scena viene riprodotta in diretta su un maxi schermo. Così da avere la possibilità di “leggere” la narrazione attraverso (almeno) altri due diversi sguardi: uno in primo piano e l’altro in campo medio-lungo. E laddove necessario anche in soggettiva, per entrare ancora di più nel punto di vista del personaggio. E perché “leggere è sempre più importante che scrivere”.

Rigorosamente “a vista” sono i contributi della drammaturgia delle luci e delle ombre. Affascinanti, calibratissimi effetti sanno rendere efficacemente il movimento emotivo, così come il muoversi nello spazio e nel tempo.

Ma, al di là di ogni lettura, il mistero connaturato alla vita resta, resiste. Sfugge all’umano controllo. E si dà in tutte le sue contraddizioni.

Ecco allora che da questo impianto dalla lucidità vivisezionante Condemi lascia emergere quello sguardo insieme feroce e lirico proprio del corpus poetico di Bõlano. E lo fa intrecciando quattro testi: Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce; 2666; Puttane assassine e Chiamate telefoniche. Dove – con acuto taglio registico – svela e cela il labirintico darsi di quelle che sono le ossessioni e i temi ricorrenti del grande autore cileno: la letteratura, la violenza, l’amore e il sesso.

Dove il bene e il male, la legge e la sua evasione, il deforme e il quotidiano, la storia e la letteratura, la realtà e la finzione, il comico e il tragico, il gioco e l’agonia si mescolano, si sovrappongono, si nascondono, per poi riemergere. Mostrando così ogni sfaccettatura, ogni possibilità: senza remore, senza paura, mettendo al centro di ogni cosa il linguaggio, la fantasia. 

Perché così è la vita.

“La violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta, noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende”.

E’ questo tipo di mistero che interessa molto Bõlano. E la verità che rincorre è quella che prende forma dalla costruzione del suono delle frasi. A lui interessa l’inafferrabile, il punto in cui l’onirico incrocia il reale, l’attimo in cui la vita è attraversata dall’incubo e subito dopo raggiunta da un attimo di dolcezza.

Gli attori sulla scena –  Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Federico Fiocchetti, Vincenzo Grassi, Sofia Panizzi, Eros Pascale  – sanno rendere con vibrante espressività e generosa accoglienza i personaggi di Bõlano, così complessi e insieme così necessariamente incompleti, per riuscire ad essere pronti a dare forma ad altre possibilità. E’ la violenza delle cose inespresse, delle realtà eventuali.

Uno spettacolo potentemente crepuscolare che ci permette di addentrarci nella mente pirotecnica di uno dei più grandi autori del Novecento, che ci rivela che proprio nel mistero, nel non sapere, nel non comprendere, c’è tutto quello che occorre per andare avanti.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CANTO ALLE VITE INFINITE – Progetto Terra mater matrigna – di e con Elena Bucci

TEATRO BASILICA, dal 3 al 5 Maggio 2024 –

E’ un moto di ricerca che nasce da una sensazione di esilio.

E’ il grato rammarico di aver tradito le proprie origini e l’eroica malinconia che accompagna un tornare. Solo ora capace di cogliere, recuperare e quindi tradurre ciò che prima risultava inassimilabile.

E’ un processo alchemico di separazione, di cottura e quindi di purificazione.

E’ il raggiungimento di quel “libero uso del proprio” – che passa per l’attraversamento degli opposti – di cui parla Friedrich Hölderlin.

E’ poesia di greca e di dantesca memoria: un nostos e un itinerarium mentis ad matrem novercam.

Elena Bucci

Ma per accedere al cancelletto – ricoperto di fedele edera – a custodia dei sottilissimi confini tra presente e passato, tra vita e morte,

occorre vestirsi di buio. E farsi buio.

Occorre girare su sé stessi fino a rischiare di perdere l’equilibrio.

Occorre rendersi flessibili e quindi disponibili ad accogliere tutto come “canne al vento”.

Allora ci si ritrova trasformati in creature volatili capaci di alzarsi da terra e di tornare ad ancorarsi, questa volta con la prensilitá di artigli. Fino a riuscire a giocare a stare su una zampa sola. 

Così ci si dà Elena Bucci, stregata e poi complice della Luna, parlando la magia del canto. Resiliente ad una luce satinata che cela il troppo per poter aprile lo spettro cromatico (la cura delle luci è affidata a Loredana Oddone). Il suo corpo ora sa usare le ginocchia per sostenere il peso del passato, i piedi per aderire alla terra e da lì potersi librare. Le sue braccia sanno prendere la forma più adatta a reggere il peso della tradizione per poterlo lanciare in una trasformazione.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

E la sua voce: gracchiante e insieme così modulante; graffio e balsamo. Contrappuntata dalle musiche originali di Christian Ravaglioli al pianoforte e alla fisarmonica. E dalla drammaturgia del suono di Raffaele Bassetti.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

Solo così le è permesso sfogliare la sua storia e la storia della sua Terra come fossero pagine di un libro. Solo così le è permesso dialogare e riconciliarsi con i fantasmi delle vite infinite che hanno dato forme diverse alla sua esistenza.

E fare la pace, perdonare, accogliere avendo misericordia. 

Perché lei ora sa di aver fatto e di continuare a far del bene con il Teatro.

Perché il suo teatro affronta argomenti che l’informazione giornalistica stenta ad affrontare.

Perché quella della Bucci e della sua compagnia Le Belle bandiere é la vocazione a portare in salvo quella molteplicità di specie umane, artistiche e linguistiche a rischio di estinzione. O di divisione.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

Perché “la bellezza è nella molteplicità: lì il suo mistero”.

Un diluvio di applausi cade su questo mirifico viaggio. Che lo accoglie pienamente.

Elena Bucci


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CHI COME ME di Roy Chen – regia di Andrée Ruth Shammah

TEATRO FRANCO PARENTI, dal 5 Aprile al 5 Maggio 2024

Andrée Ruth Shammah ci invita a salire a bordo della sua nave – la nuova sala A2A – e un po’ come il Prospero shakespeariano fa scoppiare una tempesta. 

Che non colpisce solo gli interpreti in scena. No, coinvolge anche noi del pubblico. Perché siamo tutti nella stessa barca: qui si parla della vita e di come possa essere desiderabile anche la morte.

E’ naturale – come ama ricordare Roy  Chen autore di questo appassionante e commovente testo – che la vita sia abitata da conflitti, da tempeste. Ma tutti noi sappiamo che possiamo contare sul “dialogo”: quel movimento che fa sì che due (o più) persone si lascino attraversare dal potere della parola. 

Roy Chen

Quel movimento che fa “incontrare” due (o più) singolarità che scoprono di preferire alle proprie ragioni rigidamente individuali quelle che nascono dall’incontro con le ragioni dell’altro. Perché il dialogo è il linguaggio della “relazione” e renderla possibile è lo scopo della nostra esistenza, qui in questo mondo. Perché solo attraverso la relazione ci riveliamo “creatori” e quindi artisti del vivere quotidiano. 

Misurare il nostro spazio vitale, definirlo rigidamente, ci regala l’illusione di sentirci sicuri e quindi forti. Ma in realtà ci rende “poveri”, sterili, proprio perché “separare” non genera vita, non fa nascere alla realtà cose nuove. 

Sala A2A

Di questo ci parla la postura con la quale ci accoglie questa sala: la A2A il cui nome è un omaggio allo sponsor che ha permesso l’ultima trance dei lavori.

Una postura che ci commuove: regala una scossa ai nostri individualismi e li fa crollare. Questa sala è così bella – una vera “figata” – perché così può essere la vita, se ci ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca e che “insieme” si ottiene molto di più che custodendo “da soli”, sterilmente, i nostri confini esistenziali. 

Non si poteva trovare modalità migliore, forse, per ricordarci “chi siamo”. E che per scoprirlo abbiamo bisogno di stare “insieme” agli altri, così diversi da noi e proprio per questo così preziosi per noi. 

Perché “la libertà non si definisce, si testimonia”, sosteneva Vitaliano Trevisan

Vitaliano Trevisan

Qui siamo nel libro di Roy Chen. 

Qui siamo nel libro della vita. 

Questa è la prossemica che possiamo tenere per essere “ricchi”, per essere “forti”: la prossemica del mescolarci, dell’incuriosirci compassionevolmente dell’altro. La cui diversità ci parla anche di noi e ci permette di amarci. E di avvicinarci al miracolo del “perdono”: ciò che resta di una “tempesta”, non solo shakespeariana.  Ciò che resta di un conflitto. 

La diversità è tra noi: non a caso il reparto di igiene mentale nello sguardo registico ed esistenziale della Shammah non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea. E ci contamina fertilmente. L’allestimento scenico é curato da Polina Adamov.

La sala A2A

La diversità è in noi: ciò che notiamo nell’altro, in qualche forma, è anche in noi. E’ quello che consideriamo il nostro peggio e con il quale ci guardiamo bene di venire in contatto, mantenendo accuratamente le distanze, rinforzando i confini. Indossando maschere.

Invece è lì, in quella stranezza, in quel “difetto” provocato in noi da “una ferita” che ci ha segnati, che si nasconde qualcosa capace di generare cose meravigliose di noi. 

Sa parlarne con sapiente fascino la nuova edizione di “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” di Massimo Recalcati (Castelvecchi). 

Più forte però è la tentazione a vergognarci dei nostri “difetti”: allora rinforziamo i nostri confini per delimitare la stranezza, per non farla uscire da lì. Addirittura riusciamo a dimenticarla. Convincendoci – e impegnando tutte le nostre energie a convincere anche gli altri – del contrario. 

Ecco allora l’importanza di allenare invece quell’ abilità – che tutti noi possediamo – del chiederci e del chiedere “Chi come me”.

Abilità al cui “sboccio” partecipiamo attraverso questa stupefacente rappresentazione teatrale. Che in verità è la semplice ed autentica riproposizione di qualcosa che è realmente accaduto all’autore del testo Roy Chen nel 2019: quando fu invitato a partecipare ad una lezione di teatro nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv. 


In scena – anzi tra noi – 5 splendidi adolescenti “diversi” con la freschezza e la grazia del loro essere ragazzi e con la pesantezza di essere diventati precocemente adulti. Sono interpretati da intensissimi attori esordienti (dai 14 ai 21 anni): Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani.

Sono ragazzi che hanno la fortuna di essere guardati con meravigliosa attenzione dallo psichiatra direttore del reparto ( un appassionato Paolo Briguglia) che ogni mattina prima di svegliarli si prende un attimo: “ode” i loro respiri quando dormono e li trova la più ammaliante delle sinfonie. 

Paolo Briguglia e Federico De Giacomo

Desidera essere inserito – e quindi incluso, accettato – nei loro respiri: non tanto nelle loro menti. Perché il respiro è qualcosa di più profondo: regge la vita alla base. E più in alto, regge anche architetture senza le quali stenteremmo a pensare.

E parla di loro all’insegnante di teatro, la signorina Dorit (una commovente Elena Lietti), con l’incanto di “chi sa che sono come noi”. Ma con un contrappunto di Seriquel, Helydol, Prisma e Ritalin.

Sarà l’azione sinergica della cura dello sguardo e dell’ascolto poetico dello psichiatra mescolati all’erotica della didattica teatrale della signorina Dorit a produrre rigogliosi frutti nei 5 ragazzi, nonostante le non sempre favorevoli “condizioni atmosferiche”.

Elena Lietti

Perché efficaci nel lasciare il proprio segno sono quegli insegnanti che con il loro stile hanno la “capacità di immedesimarsi” rendendo possibile l’esistenza immaginifica di nuovi mondi. Riattivando così quel desiderio capace di accendere la vita e di allargarne l’orizzonte. Solo in questo modo ad ogni diversità sarà restituita la propria singolare bellezza.

Perché se è vero, come è vero, che l’empatia è importante, lo è ancor di più che non diventi un pretesto per imporre il proprio sguardo. Errore nel quale possiamo avere la tentazione di cadere noi genitori. Che infatti non possiamo non trovare qualcosa di nostro nella varietà degli atteggiamenti dei genitori di questi ragazzi, tutti interpretati con viva maestria da Sara Bertelà e Pietro Micci.  Perché i legami che durano nel tempo sono quelli che si fondano sul riuscire ad amare l’altro proprio in quanto diverso da noi.

Pietro Micci e Sara Bertelá

E intanto, superata la tempesta, qualcosa è successo.

Perché scendendo dalla nave (la nuova sala A2A) si ha una strana voglia: quella di non voler essere poi così normali. 

Il teatro contagia, per fortuna. E cura le nostre preziose fragilità.

E finché ci saranno urgenze che prenderanno forma attraverso regie di così profonda testimonianza, avrà ancora “sapore” il nostro stare al mondo.

Grazie Andrée Ruth Shammah: “randagia dello spirito”.

………………………….

CHI COME ME

di Roy Chen

adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah
traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann

con in o.a. Sara BertelàPaolo BrigugliaElena LiettiPietro Micci
e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani

allestimento scenico Polina Adamov
luci Oscar Frosio
musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini

assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro
consulenza vocale Francesca Della Monica
direttore dell’allestimento Alberto Accalai
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Domenico Ferrari
fonico Marco Introini
sarta Marta Merico
scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti
gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4
Si ringrazia Bianca Ambrosio per averci fatto conoscere Roy Chen

produzione Teatro Franco Parenti

rassegna La Grande Età, insieme

Partner culturale

Fondazione Ravasi Garzanti

In collaborazione con

RINASCENTE

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello STUDIO PER UNA DANZA DEI SETTE VELI – Filippo Timi

SPAZIO DIAMANTE, dal 29 Aprile al 12 Maggio 2024

E’ un esotico eden crepuscolare, lussuriosamente informe, abitato da un firmamento di esuberanti sonorità.

E’ lo STUDIO PER UNA DANZA DEI SETTE VELI presentato ieri alla serata inaugurale del Festival inDivenire  allo Spazio Diamante dal collettivo artistico composto da Filippo Timi con Lorenzo Chiuchiù, Carlotta Gamba, Mattia Chiarelli, Vittorio Allegra, Alessandro Apostoli, Leonardo Carducci, Tiziana Di Tella, Andrea Memoli, Claudio Totino, Teresa Azzaro, Paola Balzarro, Stefania De Santis nel ruolo di Erodiade.

E’ un non-luogo che offre ospitalità a creature meravigliosamente ibride, che hanno mantenuto una forte aderenza al mondo ancestrale. Sa pulsare di sfinente carnalità e insieme di decadenti atmosfere metafisiche.

Gettato sotto un cielo di ombre, è “un illimitato” fuori dai principi della logica e oltre i principi della morale: ogni contrario scivola fluidamente nel suo opposto e viceversa. Si dà così come un paradiso perduto e di perdizione.

Qui il Tempo assume le sembianze di un clown dal lungo crine, che con familiarità epifanica si palesa muto. 

Demiurgo del libero arbitrio è la grande madre Erodiade (una dolce mefistofelica Stefania De Santis) dal gesto e dall’espressività così sonori, da andare ben oltre la capacità comunicativa della parola. 

Lo stesso Erode le riconosce il potere di donare moto alle acque. E’ lei il motore delle azioni e delle intenzioni: sua l’energia cinetica applicata agli elementi della natura, inclusa quella umana. 

La manipolazione sulla figlia è tale da non attribuirle un autentico nome proprio, quindi neppure un’autentica identità. Non a caso, con raffinata psicologia, l’Erode Timi gioca sulla plurisemanticità del suo presunto nome: Salomè – Solo me – Salume. 

Su Erode però la figlia di Erodiade ha un suo inscalfibile potere femminile, di natura ancestrale. E con indomita tenerezza sensuale rivendica solo e soltanto “la testa” del Battista. E alla fine la ottiene. Interessante qui come l’Erode di Timi si apra ad una sensibilità “ondivaga”,  propria della psiche femminile, provando a barattare la testa con altre parti del corpo del Battista. Ma il desiderio della ragazza è ossessivo: incanalabile.

Al personaggio di Erode Filippo Timi affida il tentativo e lo sforzo di tenere insieme ciò che tende a restare separato, potere insito in ogni “raccontare”. E laddove il potere della parola si rivela insufficiente e ambiguo, ricorre al sacro potere atavico della musica strumentale. Senza escludere quella melodica, attraversando trasversalmente le note di malinconica sensualità del fado fino all’esplorazione sensoriale dell’amore “…La parola non ha/Né sapore, né idea/Ma due occhi invadenti/Petali d’orchidea/Se non hai/Anima, ah/Ti sento/La musica si muove appena/Ma è un mondo che mi scoppia dentro/Ti sento/Un brivido lungo la schiena/Un colpo che fa pieno centro/Mi ami o no?…”.

E’ un’espressione di  mascolinità davvero molto interessante quella che ci propone Timi, che sa di narcisismo e di accoglienza. E poi ci sono i colori della sua voce: irresistibilmente contagiosi. Nonostante gli occhiali a specchio. Anzi tali proprio perché conservano quei sacri germi della vocalità di Carmelo Bene sommati a quelli di Demetrio Stratos. Un Erode, il suo, inquieto, istrionico, intrepido, straripante.

Delicate e maledettamente accattivanti le due figure femminili di Erodiade e di Salomè. Profili femminili “astrali”, nella loro carnalità. Stelle, che anche quando cadono continuano a produrre luce.

Intrigante e profondo questo studio su “La danza dei sette veli” incentrato attorno ad una trinità ancestrale (e contemporanea) che si avvale di un lavoro collettivo di promettente intensità.

Il direttore artistico Giampiero Cicciò e l’ideatore del Festival inDivenire Alessandro Longobardi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo POETICA – poesie di Franco Arminio – testi e regia Tindaro Granata

TEATRO VASCELLO, dal 26 al 28 Aprile 2024

Chissà cosa siamo disposti a fare dei Paesi che abbiamo abbandonato. E che ci hanno abbandonato. Quelli fuori e quelli dentro di noi.

Ad indurci questo fertile dubbio è Tindaro Granata: autore, regista ed attore pluripremiato per la sua capacità di innovazione drammaturgia e per il suo impegno sociale e civile. 

Tindaro Granata

E attraverso questo spettacolo – in cui la drammaturgia scopre di potersi intessere al corpus poetico del poeta paesologo Franco Arminio – Granata ci invita a intraprendere un viaggio di ritorno, un nostos: quel tipo di viaggio animato da un nostalgico moto di ricerca. 

Caterina Carpio

Un viaggio al centro della terra (ovvero al centro delle aree interne dell’Italia) e al centro di noi stessi, alla volta di quei luoghi dove qualcosa si è spezzato, o a cui abbiamo scelto di dare un taglio. E se è pur vero che amare significa anche apportare dei tagli, per riuscire a star bene nei propri luoghi risulta utile rievocare – e quindi tenere bene a memoria – quello che lì ci è successo.

E farne un “racconto”, grazie al quale dare forma al nostro tentativo di tenere insieme ciò che tende a restare irrimediabilmente separato. E a fare le valigie. Perchè “bisogna saperci fare coi luoghi – sostiene il paesologo Arminio – Non può essere solo una faccenda di urbanisti o di sociologi. Non è una scienza, ma un vento che viene da sottoE’ un modo di usare la paura”.

Emiliano Masala

Ecco allora che a venirci in soccorso – sembrano confidarci Tindaro Granata e Franco Arminio – è quella comunicazione particolarmente efficace e naturale che è la Poesia. La sua musicalità, i suoi ritmi, la sua facoltà evocatrice collegano la nostra componente “divina” al “sacro” della natura e quindi anche dei nostri Paesi.

Eroiche si rivelano allora “le gesta”, e quindi le scelte quotidianamente epiche, di donne e di uomini: universo di identità individuali e collettive con un’inclinazione alla socialità e alla politica.

Perpetuarne la memoria attraverso l’oralità è utile in quanto sollecita la riflessione sulla nostra storia e sui nostri valori. Fino a dare vita ad un sapere condiviso, dove donne e uomini incarnano speranze, lotte, vittorie e sconfitte dell’esistenza umana.

Tindaro Granata

E’ l‘eredità del cunto siciliano a lasciare traccia nella nuova elaborazione del “racconto poetico” di Tindaro Granata. Ma è anche l’adesione al “Manifesto dell’Italia dei Paesi” di Franco Arminio, dove la rivalutazione delle aree interne dell’ Italia, meglio dette “intense”, rappresenta una forma di “resistenza dell’intelligenza artigianale all’intelligenza artificiale, il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo”.

Mariangela Granelli

L’autore e regista Tindaro Granata immagina allora che cinque interpreti (tra cui lui stesso) – qui coinvolti anche nella tessitura drammaturgica dello spettacolo: Caterina Carpio, Federica Dominoni, Emiliano Masala, Francesca Porrini – rappresentino quelle donne e quegli uomini che, una volta abbandonato il loro piccolo Paese dell’Italia interna, sentano l’urgenza, un giorno, di ritornare.

E nel constatare lo stato d’abbandono del proprio Paese succede che arrivino a ricontattare anche il loro essersi sentiti abbandonati dal Paese e dalla sua mentalità.

Con ironia e con commozione, allora, il racconto dei singoli s’intreccia a quello della comunità. E sono di incantevole bellezza quei momenti in cui l’eredità del “cunto” si fa più’ evidente, come durante l’originalissima recita del rosario, o in alcune rivelazioni personali. Ma anche nei momenti di allineato gossip in piazza.

Emiliano Masala, Caterina Carpio, Francesca Porrini, Federica Dominoni, Tindaro Granata

Propri dei cuntisti sono i loro cambi di volume, di tono e di ritmo. E ancora: le pause, l’andamento cantilenato che arriva ad una declamazione concitata ma che altre volte sa mutare d’improvviso in discorso familiare e rapido. Mentre il battito del piede rafforza gli accenti.

Efficacissimo poi il saper cogliere la relazione tra le varie fasi narrativo-poetiche e il ritmo che meglio loro si addice, così da conferire solennità ai momenti di maggiore pathos, trasmettere la concitazione e poi rallentare. E il pubblico ne resta avvinto.

Tindaro Granata, Francesca Porrini, Emiliano Masala, Caterina Carpio

Lo spettacolo costituisce una magnifica occasione per allenarsi a diventare custodi consapevoli di un antico sapere umano di cui è necessario farsi lievito. Ed è un po’ – e Granata ama ricordarlo in alcuni suoi laboratori – come un diventare testimoni di quell’antico sapere creativo del donare vita al pane. Un rito antico dove si ha la possibilità di fare un’esperienza profonda di creazione, durante la quale si diventa protagonisti del tempo dell’impasto, “lievitando” parole buone come il pane. 

E così, ricontattando il sapere sacro che ci lega ai nostri Paesi, scopriamo di aver resistito alla tentazione di rinunciare ad andare a ritrovare la nostra geografia più interna, solo perché bisognava fare tanta strada. Perché – come canta Franco Arminio – non è vero che un Paese è solo un aggregato di case. Un Paese è un corpo, che ti accoglie e che desidera essere accolto. 

E “Poetica” – questa tela intessuta da una comunità di interpreti e di persone, di drammaturghi e di poeti – è un incantevole affresco di geografia umana, dove si scopre che per poter stare bene insieme nel futuro occorre sapere da dove veniamo. Da quale vento siamo abitati. 

Ascoltami, c’è voluto
mezzo secolo di vento
per mettere insieme
quello che ti sto
dicendo

(Franco Arminio)

Franco Arminio


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA LOCANDIERA di Carlo Goldoni – regia di Antonio Latella

TEATRO ARGENTINA, dal 17 al 28 Aprile 2024

Che cos’è che ci rende “differenti”? Cioè speciali, unici ?  

Che cos’è “quel qualcosa in più” che alcune persone hanno, ma che è così difficile definire? 

Può essere una facile disponibilità economica, come quella di cui si avvale il Conte D’Albafiorita? Forse i titoli onorifici del Marchese di Forlipopoli ? Oppure l’essere immuni dal fascino femminile, di cui tanto si vanta il Cavaliere di Ripafratta? 

Insomma cosa “vale” davvero nella vita di un uomo, così come nella vita di una donna ?  

Ciò di cui ci parla Goldoni – proponendoci un’analisi della sua epoca – non è distante da quello che accade anche oggi. Ma tra noi si sta diffondendo un pericoloso atteggiamento: stiamo perdendo interesse ad “essere differenti”, preferendo essere il più possibile gli uni simili agli altri.

  Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Valentino Villa (Fabrizio)

E che tipo di “differenza” è quella che rende così unica la Locandiera? 

Il suo “valore” pare essere quello di disporre di un’arte che non è finzione; di una capacità di muoversi tra educazione e provocazione. Di una consapevolezza a saper distinguere tra desiderare e possedere; tra donare e comprare. Un saper distinguere, il suo, tra questioni d’affari e questioni d’amore; tra amore e manipolazione. Un personaggio modernissimo, già nel  ‘700: una donna curiosa, dal carattere complesso e intrigante. 

E cosa succede quando uomini di diversa estrazione sociale – e dal diverso vissuto – incontrano una donna così consapevole delle proprie esigenze, così come di quelle maschili? 

Succede che di fronte alla complessità dell’animo femminile gli uomini perdono l’orientamento, come succede al conte e al marchese. Oppure fuggono, come fa il cavaliere. 

Lo diceva già Socrate nel Simposio di Platone che le uniche a sapere di “ta erotika”, ovvero delle cose dell’amore, sono le donne. Gli uomini possono apprenderle da loro, perché le donne per natura, costituzionalmente, sono dotate di una particolare dimestichezza con la dimensione del “due”, cioè della relazione. 

Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta) e Sonia Bergamasco (la Locandiera)

La psiche maschile invece per natura, costituzionalmente, tende a restare ferma nella dimensione solipsistica dell’ “uno”. Non a caso i tre ospiti della locanda s’interrogano su “quel qualcosa in piú” della Locandiera: che “incatena” e che “incanta”. Lei sa far uso di un diverso potere della parola.

Una commedia questa – annuncia Goldoni – “la più morale, la più utile e la più istruttiva”: una commedia che osa parlare di cosa significa “amare”, davvero. Disponibilità umana ben più complessa di quella dello sposarsi. 

Una disponibilità che lascia disarmata anche la Locandiera, quando il gioco che credeva di condurre la sorprende ad essere condotta. E perde i sensi. 

Un incantesimo di cui il regista Antonio Latella ci fa arrivare pervasivamente il sentore attraverso la seduzione sprigionata dalla complice sinergia tra la drammaturgia delle luci (affidata a Simone De Angelis), la drammaturgia acustica (curata dall’alchimista Franco Visioli) e quella della prossemica. 

Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta) e Sonia Bergamasco (la Locandiera)

E’ l’elogio della potenza erotica del disarmarsi: inizia il cavaliere ma la locandiera lo segue, lei che ora davvero arriva a perdere i sensi spingendosi ben al di là di una sterile strategia seduttiva.

E’ l’atto d’amore di un amante che, proprio come descritto da Platone, ha cura di far riemergere la sua donna dalla follia in cui si sono calati. Metafora mirabilmente visualizzata attraverso la cura che il cavaliere ha nel sollevarla da terra per appoggiarla su un piano superiore, il tavolo. Per poi lasciare che il rimanente percorso di risalita dal sacro della follia amorosa lo porti a termine la musica: la sua musica, quella da lui interpretata con l’armonica a bocca. Complici gli ombrosi accordi al basso di un cupido a loro servizio (un polimorfo Gabriele Pestilli). Una scena di mirifica bellezza. 

  Gabriele Pestilli (il servitore), Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta)

Acuta è stata la sensibilità di Antonio Latella nel riproporre pressochè fedelmente questo testo, declinandolo in una variazione registica più vicina ai nostri tempi (di Linda Dalisi il contributo di dramaturg). 

Uno sguardo registico gravitante intorno al tema dei “costumi”: intesi non tanto come abiti e ambientazioni ma soprattutto come “habiti” ovvero inclinazioni, capaci di accogliere e valorizzare o meno “le differenze” che ci caratterizzano.   

Antonio Latella, il regista

Campeggia sulla scena, alludendo alle pareti della locanda, un fondale in legno: una materia viva, in continuo movimento (le scene sono di Annelisa Zaccheria).

A decorarlo sembrano dei rilievi simili a cornici che, a ben guardare, ricordano più i percorsi di un labirinto. Indicazioni raffinate e visivamente efficaci che ci parlano dell’avventurosa disponibilità che si richiede al nostro stare al mondo. Di cui la locanda è un microcosmo. 

Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli), Francesco Manetti ( il Conte D’Albafiorita), Marta Pizzigallo (Dejanira) e Marta Cortellazzo Weil (Ortensia)

E’ infatti il luogo dove varie possono essere le forme di risposta agli incontri, che la locanda si rende disponibile ad ospitare.

E’ il significato racchiuso nel gioco dello shangai, di cui con sagacia Latella si serve per parlarci di cosa sta avvenendo dentro alcuni personaggi. Perché quello che forse “vale” davvero  – e quindi fa la differenza – é la nostra disponibilità ad entrare in relazione con l’altro, al di là di facili forme di manipolazione. “Vale”, fare la propria mossa senza arrecare danno: quell’avvicinarsi all’altro con rispetto, mantenendo sane distanze. 

Non a caso Latella veste la sua locandiera con un abito che non è una divisa omologante bensì la femminile espressione della sua particolare scelta di impostare creativamente il lavoro ( i costumi sono curati da Graziella Pepe).

Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli)

Delle decorazioni onorarie tanto amate dal Marchese di Forlipopoli (un efficace Giovanni Franzoni) qui restano quelle della decorazione a jacquard del suo maglione “iper protettivo”. Dal quale però, con il procedere degli eventi, risulterà disponibile a separarsi, optando per la fresca leggerezza di un tailleur in lino.

Il Conte D’Albafiorita (un insinuante Francesco Manetti), ebbro del recente essersi arricchito, si veste qui sfoggiando un outfit griffato. Anche lui “muterà pelle” poi, indirizzandosi verso un tailleur: l’importante è che non passi inosservato.

Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli), Francesco Manetti ( il Conte D’Albafiorita), Marta Pizzigallo (Dejanira) e Marta Cortellazzo Weil (Ortensia)

E poi il Cavaliere di Ripafratta (un irresistibile Ludovico Fededegni) che si vanta del suo saper rinunciare al femminile calore, qui evita di rimanere stretto tra i lacci di confortevoli calzature. Ma non riesce a fare a meno di recuperare quel calore disperso attraverso un coprente paltò. Di cui poi, una volta preda delle fiamme dell’amore, saprà alleggerirsi.

Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta)

Fabrizio il cameriere della locanda (uno stoico Valentino Villa) e’ un po’ il motore immobile della situazione: tutti sanno che c’è e che ha un suo potere, quello di saper aspettare. Forte del fatto che sa di incarnare il ruolo del pretendente predestinato dal padre a futuro marito di sua figlia.

Marta Cortellazzo Weil (Ortensia) e Marta Pizzigallo (Dejanira)

Le due ospiti femminili della locanda, Ortensia (un’esuberante Marta Cortellazzo Wiel) e Dejanira (una Marta Pizzigallo incantevolmente subdola ), nonostante il loro presentarsi vestite di abiti “da finzione nella finzione” si nutriranno delle fertili dinamiche offerte dalla locanda, trovando così il coraggio di essere se stesse.       

Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta), Sonia Bergamasco (La locandiera) e Valentino Villa (Fabrizio)

Sonia Bergamasco é la Locandiera esatta per lo sguardo registico di Antonio Latella: incarna  – al di là del suo aspetto angelico – tutta la magnifica complessità della psiche femminile. E la restituisce con un dosato equilibrio, che sa includere un folle e fragile disequilibrio. E’ epifanica e dannatamente femmina, come solo chi non sa di esserlo, é. E si dà rompendo continuamente i piani e facendo parlare, senza filtri, ora le viscere, ora la mente. Ma poi le si accende anche il cuore. E l’inaspettato rifiuta la logica linguistica. Solo alcuni gesti involontari possono venire in soccorso della comunicazione.  Ed è stupefacente vedere come il suo corpo agisca anarchicamente rispetto alle parole della logica, confidandoci quanto sia irrinunciabile per lei separarsi dal cavaliere. Ed è straziante constatare quale e quanta disperata tattile carnalità lei riesca ad esprimere attraverso la “terza pelle” di lui: il suo paltò. 

Sonia Bergamasco (la Locandiera)

Uno spettacolo dalla potenza alchemica, che ci invita a scoprire e a valorizzare  quella “differenza” che parla di “chi siamo”.  E che può emergere da “un processo di cottura” dei nostri pregiudizi, che rendono indigeribile la nostra identitá.

Perché questo significa “realizzarsi”, avere un valore. Il proprio e insostituibile.

Un valore da difendere, nel rispetto di quello dell’altro. 


Recensione di Sonia Remoli