Recensione dello spettacolo CLITENNESTRA regia di Roberto Andò

da “La casa dei nomi” di Colm Toíbín

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 21 Gennaio 2024 –

Il suo sguardo è prigioniero di una visibilità opalescente. La Clitennestra di Colm Toíbín, a cui si ispira il regista Roberto Andò, è ossessionata dal tormento di non aver intuito l’intento omicida di suo marito Agamennone, nei confronti dell’adorata figlia Ifigenia.

Roberto Andò

Proprio lei, così ricca in dimestichezza con l’odore del sangue, si è lasciata sedurre dal riporre fiducia in Agamennone. “Ti ho creduto”: un imperdonabile errore.

Colm Toíbín

La partecipe commozione di Andò per lo sguardo sui fatti della Clitennestra di Toíbín fa sì che immagini la regina di Micene nell’atto di rievocare, con follia lucida e opalescente, i fatti che precedettero e seguirono la morte di Ifigenia.

Lo spazio scenico è la rappresentazione di un disvelamento della mente della donna, generalmente considerata tra le più spietatate del mito. Andò, come Toíbín, non è interessato a processarla per condannarla, quanto piuttosto a prendersi cura di svelarne le dinamiche relazionali e psicologiche. Come una donna estrapolata dal mito e immersa nelle incertezze della quotidianità. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Cosa succede allora nella mente di una donna, di una madre e di una moglie tradita dalla fiducia riposta nel marito che, pur di proseguire con successo la guerra è disposto a sacrificare la vita di una figlia ? E pretende subdolamente la complicità della moglie, facendole credere che è un matrimonio quello a cui lei sta preparando la figlia ? Un marito che anche successivamente giustifica il suo atto come il male minore ? Meglio la morte di una persona, piuttosto che la morte di un esercito di persone.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Nell’opalescenza della sua psiche, conseguenza di un inarginabile dolore, la Clitennestra di Andò cerca un varco. Può farlo solo procedendo con l’aiuto delle mani, come cieca: accecata dal dolore. Trova il varco: ci trova. 

Le sue palpebre, sipari scenici, faticano a sostenere il peso della luce. Vince la tentazione a chiuderle: così si affida alla voce, al racconto, a quello che resta del suo rievocare. Allucinato e ossessivo. Sono ombre che si allungano, l’odore della morte che permane, gradito come la visita di un grande amico. Lui sì, compagno fedele. Le palpebre riescono a risollevarsi: rivelano scenari di vuoto squallore, come dopo aver ripulito una mattanza. 

Una lacerata e lacerante Isabella Ragonese tormentata dalle viscere e preda dell’incanto del dolore subìto e oramai ingovernabile – “sarò lasciata così, per gli anni che mi saranno riservati. Non di più ” – si dona a noi padri, madri. E figli: perche la condizione di figli tutti ci accomuna. E lei si danna per aver ricevuto un dna, un’eredità genetica, così luttuoso. Non se la prende con gli dei, o con il dio di Abramo ed Isacco. Qui, dallo scenario esistenziale, gli dei dono assenti. È la natura umana ad essere indagata in purezza da Toíbín, e quindi da Andò. 

I personaggi in scena (Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Bacheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini e il coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini e Antonio Turco) non sono quelli della tragedia greca: sono uomini e donne del primo Novecento, attraversati dalle guerre mondiali e immersi in una sorta di nichilismo nietzschiano. Sono gli anni della diffusione della psicoanalisi, di una nuova attenzione per la malattia mentale. Abita la scena – e i costumi di Elettra e di Ifigenia – un’atmosfera anche da ospedale psichiatrico.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Il coro perde la solennità della postura: è seduto, spesso a terra, come se la forza gravitazionale diventasse più difficile da sfidare. È il richiamo della terra a dominare, degli instinti alla sopraffazione: così connaturati in noi. Innati. Non è solo il dna di Clitennestra ad essere luttuoso.

I meandri della natura umana sono misteriosi. A volte irriducibili. E ci accomunano tutti. Sempre. Non solo nel mondo greco del V secolo a.C.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

La regia di Roberto Andò porta in scena una condizione esistenziale così credibile da essere di una bellezza agghiacciante. Ha l’audacia di proporre un diverso punto di vista su questa donna, madre e moglie, che ci è vicina più di quanto immaginiamo.

Così vicina da risultare quasi irresistibile correre sul palco a donarle solidarietà: quando la Ragonese si apre in quel filamento di urlo metallico, che fatica, come un cigolio, a farsi suono nella gola. 

Arianna Bacheroni (Ifigenia) e Ivan Alovisio (Agamennone)

in “Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Così come strazia, fino a lasciarci quasi in brandelli, la dolcezza disarmata di Ifigenia: figlia che si scopre asciutta di lacrime e senza la persuasione necessaria per convincere il padre a non ucciderla. A preferirla alla guerra. Tanto risulta innaturale chiederlo. Tanto ci si aspetterebbe fosse innato, scontato. E invece no. Siamo anche così. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Accattivante la coralità tragica e seduttiva della danza degli intrighi, delle ambiguità e delle macchinazioni proprie della psiche umana. In un crescendo parossistico. E disperato.

Umano.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI di Sigmund Freud – di e con Stefano Massini

TEATRO ARGENTINA, dal 5 al 21 Dicembre 2023

Conoscere se stessi è da sempre un’esigenza che tende a prendere le sembianze di un desiderio segreto: fatica ad esprimersi manifestamente, tanto è “proibito” il contenuto del desiderare. 

Acutamente allora Stefano Massini, che con questo spettacolo sceglie di mettere in scena le dinamiche oniriche della nostra psiche, fa aprire la rappresentazione proprio a lui: il Desiderio.

Eccolo: sbuca da un lato del palco/psiche e attraversa con passo sinuoso il proscenio, per poi appostarsi in un altro lato. E’ un’affascinante donna. Veste un abito dalle nuove linee fluide proprie dello stile Liberty. Ed è  tinto di mistero e di passione (i costumi e le maschere sono curati da Elena Bianchini).

Ci irretisce: ci porta dalla sua parte, ci seduce.  Complice la sua voce insinuosa, solleticante, pungente e ossessiva: quella che ci sta traducendo il suo violino (Rachele Innocenti sulle note di Enrico Fink). E che risuonerà ancora, serpeggiando, lungo la messinscena.

Tutto si mescola, tutto si trasforma, all’interno delle nostre emozioni, delle nostre pulsioni, della nostra memoria: oltre ad avvertirlo, lo vediamo rappresentato sulla scena. Il caos che abita i sogni è visualizzato anche da una proiezione tridimensionale sul fondale: fondo del nostro sguardo interiore (le scene, curate da Marco Rossi, riproducono opere pittoriche di Walter Sardonini).

Uno sguardo spesso in bilico tra la nostra tentazione a tarparlo e quella a guardare, solleticati proprio dalla sua enigmaticità. Qui visualizzata da fiotti di fumo intrisi di ambigui richiami, musicati dal trombone e dalle tastiere di Saverio Zacchei e dalle chitarre di Damiano Terzoni . Sempre sulle note di Enrico Fink.

ph Filippo Manzini

“C’è qualcosa di terribile e al tempo stesso splendido nell’attimo in cui decidiamo di guardarci dentro”: con queste parole  Stefano Massini commenta l’entrata in scena del Desiderio e le sensazioni da esso provocate.

Quando riusciamo ad avvicinarci alla “geografia” più autentica di noi stessi, così tumultuosa e disordinata, così accattivante e lacerante, qualcosa ci tenta però ad allontanarcene. Un dubbio ci attanaglia: “ma poi gli altri cosa diranno di me?”.

E così, troppo spesso, si torna ad indossare la nostra rassicurante (ma insoddisfacente) maschera sociale. Lo dice il “progresso”: se lo si segue, si è inseriti, accettati, protetti. Ma nonostante la nostra tensione a uniformarci, poi però pretendiamo costantemente l’attenzione degli altri.

ph Filippo Manzini

Urla quindi, e i morsi si fanno sentire,  la fame a dare nutrimento alle parti più  vere di noi: un ascolto che “noi” possiamo darci. Accettando l’invito del desiderio e quindi appassionandoci in una ricerca nelle buie profondità  di noi stessi. Perché – come la drammaturgia delle luci di Alfredo Piras sa sottolineare – solo dal buio può nascere e liberarsi l’emozione.

Quest’ invito rivoluzionario di Freud, viene raccolto da Massini che sceglie di farci dono - proprio attraverso il potere immaginifico e catartico della parola e del gesto attoriale – della consapevolezza di come la messinscena del sogno celi una messinscena sociale.

A testimoniare come la psicologia sia strettamente connessa alla socialità – e quindi come lo psicoanalista guardando nell’interiorità dei pazienti abbia restituito indietro anche il sentore dei mutamenti  sociali – è l’esigenza che si è  sentita, proprio a fine Ottocento, di coniare il termine “onirico”: l’irreale del surrealismo, della libera associazione, della visione ermetica che suggestiona e richiede interpretazione.

ph Filippo Manzini

Recentemente l’attenzione al ruolo “antropologico” dello psicoanalista è stata riaccesa anche dal testo di Massimo RecalcatiA pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo“. Se quindi il ruolo dello psicoanalista non è confinato solo tra le pareti intime di una stanza e può e deve scendere in strada, anche il Teatro può farsi portavoce di questa missione sociale.

Vincente risulta la scelta di Stefano Massini di far incontrare il teatro di narrazione sul confine con la restituzione attoriale, mandando in scena le dinamiche oniriche della psiche umana attraverso il processo di osservazione interno ed esterno del neurologo e psicoanalista Sigmund Freud.

ph Filippo Manzini

Lo spettatore è coinvolto in un’immersione “a tutto tondo” nella quale accetta di viaggiare fuori e dentro di sé. Con disponibilità, senza necessariamente inquadrare nei principi della logica cosa stia avvenendo. È un incantesimo dove la parola, l’immagine e la musica sono le muse che ci guidano in questa avventura multiforme e multisensoriale. E finalmente riconosciamo attenzione a tutto ciò che ci rende unici. Irripetibili.

Ecco allora che Stefano Massini, a coronamento di un processo osmotico di attenzione tra interno ed esterno, a fine spettacolo sente l’esigenza di ringraziare – evocandoli con il loro nome e il loro cognome – tutti coloro che, parti necessarie di un tutto, hanno contribuito a dare forma a questo stupefacente viaggio.

Sulla Scena della Vita.

ph Marco Borrelli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CAVALIERE INESISTENTE di Italo Calvino – regia di Tommaso Capodanno

TEATRO INDIA, dal 4 al 17 Dicembre 2023 –

Troppo spesso “dorme sepolto in un campo di grano”, sopraffatto dall’istinto a dominarci l’uno sull’altro, fino a farci guerra. È quel tendere verso il desiderare, che sa fare di un certo senso di mancanza, proprio di noi umani, l’arte di individuare e quindi di poter esprimere la nostra unicità, il nostro talento. Regalandoci la “prova”, il senso, della nostra esistenza.

In una sorta di proemio, questa tensione vitale a desiderare prende forma attraverso un motivo musicale: un canto primordiale ricco in mancanze. Quasi una lallazione. Solo successivamente il motivo musicale, declinato in “variazioni”, torna in alcune situazioni chiave della storia prendendo la forma di parole dotate di quell’univocità propria dei principi della logica.

Francesca Astrei, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane e Maria Chiara Bisceglia

In un geniale procedere per cerchi concentrici, le quattro interpreti del canto del proemio sono anche i personaggi stessi del romanzo – a loro affidati attraverso una triplice partitura per ognuna – abitati diversamente dalla presenza-assenza della tensione a desiderare. Ma non solo: a loro è affidata anche la voce narrante della storia, resa attraverso degli a-parte con lo spettatore. Una struttura decisamente convincente.

Nell’allontanarsi o nel sopprimere la tensione a desiderare, i personaggi di questo romanzo sentono di “non esistere” e ognuno a suo modo compensa questa “mancanza” con qualcosa di diverso.

Agilulfo con lo zelo “fascista” e con l’ordine maniacale. Che però non riesce a salvarlo quando in lui si insinua la mancanza di autostima, dono sociale. Socialità dalla quale lui dipende meccanicamente, attenendosi strettamente alle disposizioni. E se le disposizioni vengono meno è la fine, non avendo mai educato un suo spirito critico. Commovente, in questa scena, la capacità dell’interprete Evelina Rosselli a trasferire anche all’armatura il diverso respiro che abita Agilulfo, preda del terrifico dubbio sulla sua “etichetta” da cavaliere. Lui sa solo nozionisticamente che vivere significa “lasciare un’impronta particolare” sul mondo. E inoltre giustifica il suo “aver venduto” il proprio corpo e il proprio giudizio critico ad altri, con il fatto che chi un corpo e quindi “una capacità di sentire” ce l’ha non la utilizza.

Rambaldo preferisce l’ansia di vivere alla pace di chi è morto ma non sa gestirla. Compensa con la vendetta ma resta inerme – almeno inizialmente – di fronte alla follia più  grande, quella dell’amore.

Bradamante oscilla tra una compulsività nell’amare e una ricerca di rigore assoluto, che prima sublimerà – attraverso l’identità di Suor Teodora – con la scrittura, per poi imparare che vera bellezza è entrare “in relazione” con l’altro.

Gurdulù “è uno che c’è, ma che non sa d’esserci”: risponde meccanicamente all’istinto, quasi come un animale, confondendo se stesso con le cose che lo circondano .”Tutto è zuppa”: bellissima, in questa scena, l’espressività delle mani di Francesca Astrei.

“Un po’ è un macello, un po’ è un tran tran” – dice Bradamante – e chi “vince” ci riesce “per caso”, non per la capacità di “riuscire a riuscire”. Poi c’è l’armatura “a reggerli tutti dritti”.

Ma “imparare ad essere, si può… e la paura ha senso, se dietro c’è la vita che spinge !”.

Tommaso Capodanno

Molto fluida e fertile la sinergia con la quale l’interessante taglio registico di Tommaso Capodanno si lega all’adattamento di Matilde D’Accardi, alla resa interpretativa delle attrici in scena – Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane – e alla cura delle scene di Alessandra Solimene. Complice anche una drammaturgia delle luci che rende con efficacia poetica luci, ombre – e luci delle ombre – di ciascun personaggio. Molto suggestivo, soprattutto in alcuni momenti dello spettacolo, quel sapore proprio della drammaturgia del Teatro Povero di Monticchiello.

La coralità eterofonica delle interpreti brilla nel rendere le variazioni della “follia” delle parole e del ritmo del testo di Calvino. Guizzi, laddove emergono, sono accolti e messi a servizio, come chiede lo stile di un “ensemble”. Che trova la sua forza nel riuscire a rendere ciascuno, insostituibile parte di un tutto.

E il pubblico lo percepisce.

Perché così può essere il Teatro. Perché così può essere la Vita.

Soprattutto in questa nostra epoca così “miope”, in cui siamo tentati a lasciare in custodia altrui il porta occhiali con il nostro “sguardo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni – uno spettacolo lacasadargilla –

TEATRO ARGENTINA

dal 23 Novembre al 3 Dicembre 2023 –

“Only you” : così recita l’insegna del locale dove si svolge una delle scene finali dello spettacolo. Quasi a voler fare di un “problema” antropologico, una moda. E quindi una nicchia di mercato, che poi tanto nicchia non è. Un locale per persone sole, che soffrono di solitudine. 

E pensare, che un altro possibile sottotesto dell’insegna potrebbe alludere anche al suo opposto: alla “soluzione” per vivere bene. Infatti essere riconosciuti per la nostra unicità (“only you”) è ciò che ci soddisfa sopra ogni cosa. Esserne consapevoli (e questo è ancora un altro sottotesto che ammicca al “conosci te stesso” scolpito sul tempio dell’oracolo di Delfi) – e incontrare qualcuno che riesca a cogliere la nostra unicità – è ciò che ci fa sentire autenticamente realizzati come persone. 

Ma come si fa?

Beh, serve che accada un vero incontro: di quelli imprevisti però, che dirompono nella routine della quotidianità. Così rassicurante ma stantia. Anche se frenetica. Perché la nostra vita è il risultato degli incontri che abbiamo fatto: quelli che ci hanno attraversato e ai quali abbiamo permesso di metterci in discussione. Sperimentando i continui nuovi inizi della vita.

Ma oltre ad auspicare che si manifesti epifanicamente “un incontro”, occorre essere disposti a mettersi in gioco. Perché entrare in relazione con l’Altro/a è complesso. È impegnativo. È l’arte di vivere.

Sul palco del Teatro Argentina la geniale sensibilità registica di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni porta in scena proprio questa nostra difficoltà ad entrare in relazione con gli altri – e prima ancora con noi stessi. Senza sconti, senza edulcorazioni. L’effetto sullo spettatore è decisamente catartico. Si prova fastidio, imbarazzo ma anche compassione, a vedersi così spudoratamente rappresentati allo specchio. E qualcosa, dentro al travaglio, scatta. O scatterà. Perché questa è la natura e la vocazione del Teatro.

Foto di Claudia Pajewski

Al centro della scena, indiscusso protagonista, un elegante totem contemporaneo : un dispenser dei “vorrei ma non posso”, contenitore cioè di quegli oggetti con i quali ci illudiamo di dare vita ad una nostra personalità “altra”. E come fondale, la facciata stilizzata di un insolito Ministero: quello della Solitudine. Un’accecante e oscura normalizzazione istituzionale di un problema sociale, che in fondo così grave non è. Dà lavoro ad altre persone – apparentemente immuni da questo “contagio” – e garantisce un “servizio” sociale. Di cui è stato causa, forse, ma che poi così grave non è. Anzi, contribuisce a mantenere un’ottima stabilità. Presi singolarmente, così chiusi nelle nostre solitudini, che male possiamo fare ? 

Foto di Claudia Pajewski

Cinque le storie di solitudine raccontate e ambientate sotto un gravoso cielo d’attesa: un’attesa impotente, da teatro dell’assurdo. Storie immerse in uno stato di allarme perenne: una continua ansia che però non stimola nulla di fertile. A nessuno dei personaggi in scena manca qualche bene primario, eppure dentro ciascuno di loro urla un desiderio diverso.

Per Primo è il desiderio di essere guardato, anzi notato (essere il primo, appunto): incontrare qualcuno che sappia riconoscerlo così da poter finalmente riuscire, per la prima volta forse, a provare delle emozioni. Imparando a sporcarsi e a tollerare lo sporco.

Foto di Claudia Pajewski

Per Alma è il desiderio di non aver paura dei cambiamenti ma di imparare a nutrirsene. Tuffandosi nel mare della vita, piuttosto che rifugiandosi nel sonno e nel sogno.

Per F. è il desiderio di smettere di essere ossessionato dal timore dell’estinzione. Che poi è il timore di non essere ricordarti: il suo nome proprio, che lo dovrebbe identificare, è già prossimo all’estinzione.

Foto di Claudia Pajewski

Per Simone, simbolo della nomenclatura, dell’ordine e del rigore nonché dell’obbligo alla cortesia e al buon umore ma soprattutto simbolo dell’ascolto, è il desiderio di trasgredire nel feeling Blue.

Foto di Claudia Pajewski

Per Teresa è il desiderio di uscire dagli stereotipi della mamma o della scrittrice, accogliendo la sua anima selvaggia.

Foto di Claudia Pajewski

Gli attori in scena – Giulia Mazzarino (Alma), Emiliano Masala (Primo), Francesco Villano (F.), Tania Garribba (Simone), Caterina Carpio (Teresa) – complice una scrittura drammaturgica visionariamente neorealistica, sono così credibili da fare male.

Particolarmente, la scrittura drammaturgica di Fabrizio Sinisi è efficacissima nel rendere epidermicamente il senso di quanto sia difficile la gestione della libertà, anche se si sta da soli. Anche se non ci si deve avvicinare sul confine dell’altro. 

I paesaggi sonori di Alessandro Ferroni sono una parallela drammaturgia che, seppur sembri liberare respiri più lievi nello spettatore, in verità cela crepe e traumi esistenziali. Dei personaggi e non solo.

La casadargilla ci fa dono di uno spettacolo terapeuticamente scomodo. Quindi necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CIRCE di Luciano Violante – regia di Giuseppe Dipasquale

……………………………..

Spettacolo pluripremiato il 30 Agosto al Teatro Cortesi di Sirolo in occasione del Festival e Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile

Premio a Luciano Violante (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Nuova Drammaturgia) –   perché «la sua versione dei fatti é la versione di una donna imprigionata dal volere altrui che cerca di liberarsi dai vincoli patriarcali». 

Premio a Viola Graziosi (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior Attrice)

Premio a  Giuseppe Dipasquale (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Regia e Scenografia). Il nuovo direttore di Marche Teatro -Teatro di rilevante interesse culturale- offre «uno sguardo caleidoscopico che ci rimanda ad un linguaggio cinematografico, all’immagine inconscia e metafisica. Circe è parte di un mondo fluido, Circe tra mito e realtà; prigioniera del suo abito crisalide e del suo stesso incantamento che le impedisce la piena libertà: ricca di rimandi iconografici da Bottazzi a Waterhouse in una sinergia tra mitologia e lirismo, il percorso di una donna alla ricerca dell’essenza dell’essere».

………………………………..

TEATRO INDIA, dal 15 al 26 Novembre 2023

Che cosa significa “raccontare” ?

Il racconto è qualcosa di affidabile? 

Il racconto è  lo sforzo, il tentativo, di chi vuole comunicare qualcosa. Con una determinata intenzione.

Cosa sappiamo di Circe?

Il racconto più diffuso fa di lei una maga ingannatrice e malvagia. Ma è solo un punto di vista, un tentativo di comunicare qualcosa. Ci sarà  dell’altro? 

Luciano Violante

Da qui probabilmente nasce il desiderio di Luciano Violante, ex magistrato e  politico italiano, di approfondire il fatto. Il mito, in questo caso. Ne scaturisce un testo davvero convincente che l’originalissima regia di Giuseppe Dipasquale e l’istrionica interpretazione di Viola Graziosi  rendono irresistibile.

Giuseppe Dipasquale

Questo di Luciano Violante è il racconto su Circe, di Circe: la sua versione dei fatti. Il suo personale e consapevole entrare nell’habitus costruito per lei dagli altri. L’altra faccia della medaglia. La parte mancante, ad ora. Quella che era rimasta ingabbiata in una struttura rigida, mortifera. Che le toglieva respiro.

Viola Graziosi

È la sua voce a farsi corpo. Ma a differenza di un corpo, non è parte determinata di una materia. E’ tutta la materia, tanto è variegata – l’espressività vocale e mimica di Viola Graziosi è stupefacente, al di là degli accattivanti effetti sonori ad essa applicati.

E poi è essenza. Una voce caleidoscopica, dilatata, con echi. Una voce che si specchia e produce un rimando. Una voce epica: fisica e metafisica. Un canto: una melodia sì,  ma anche un punto di vista: quell’angolo dell’occhio che produce quella particolare curvatura. Quel particolare sguardo. Ed è incanto.

Scenograficamente questo suo caleidoscopico sguardo è riprodotto quasi fosse una proiezione cinematografica. Una proiezione lisergica, inconscia, metafisica all’interno di un grande occhio che le fa da fondale. Lei così disponibile a farsi parte di un mondo fluido, marino e non solo. Lei così poliedrica, seppur incarcerata in un racconto che le tarpa il corpo.

L’appassionata regia di Giuseppe Dipasquale visualizza molto efficacemente questa prigionia: non ci sono quasi mai movimenti scenici in Viola Graziosi se non quei piccoli, flessuosamente ondulati, liquidi movimenti delle sue mani. Unitamente alla restituita possibilità di entrare e di uscire dal rigido habitus, confezionato sul precedente racconto intessuto su di lei.

Il magnifico apparato scenografico cita con originalità celebri opere iconografiche dedicate al mito di Circe : partendo dal dipinto del poliedrico pittore romano Umberto Bottazzi (1865 – 1932) per arrivare al britannico preraffaellita John William Waterhouse (1849 -1917). Ma è l’insieme degli sguardi della drammaturgia luminosa a vivificare – in sinergia al lirismo del testo di Luciano Violante – questo nuovo racconto restitutivo.

Eccolo. Fu il padre di Circe a scegliere per lei: le ordinò di rinunciare a tutti i privilegi di essere una divinità, anche se minore, per scendere tra i mortali. Una descensus che solo apparentemente ha il sapore di un esilio: in verità è una missione, una vocazione terapeutica. Un viaggio che lei solo percorrendolo dentro di sé può restituire a coloro che riescono ad avvertirne l’esigenza. Perché – le disse suo padre – “serve uno sguardo diverso sul mondo: serve lo sguardo di una donna”. 

Nella sua discesa interiore – metaforico viaggio fino all’isola di Eea – a lei si uniranno dei mortali ingiustamente condannati a causa di racconti ingannevoli . Proprio come è  successo a lei. Perché “per gli umani sovente la verità è piena di spine, mentre l’inganno di miele”.

L’isola di Eea diverrà così, nel nuovo racconto portato alla luce da Violante, un luogo di purificazione: dove, chi ne avvertirà  l’esigenza, potrà fermarsi per purificarsi, per redimersi.  Un luogo gestito solo da donne e dal loro sguardo sul mondo.

Viola Graziosi e Graziano Piazza (Ulisse)

Vi si fermeranno in molti: non ultimi gli uomini di Ulisse. Uomini affamati di cibo e di donne, di cui si considerano padroni. Allo specchiante sguardo di Circe non passa inosservato questa brama di sopraffazione, di illecito potere: nel suo sguardo ciascun membro della ciurma di Ulisse vede riflessa l’autentica natura ferina che cela.

Ma, essendo ancora incapaci di avvertire l’esigenza di un viaggio interiore purificatorio, è  opportuno che vivano consapevolmente questa momentanea trasformazione propedeutica.

Poi arriverà Ulisse: colui che consapevolmente confeziona racconti mendaci. Lei lo disarma immediatamente. Ma lui oppone resistenza: “Io sono quello che sono”. E non si può mutare il cuore di un uomo, se l’uomo non vuole.

“Io voglio non aver catene, questa è la mia tragica libertà” – continua l’Ulisse di Violante.

Serve infatti un coraggio di donna, per affrontare se stessi.

Serve la capacità e la vocazione a desiderare di entrare in relazione con l’altro.

Relazione, non sopraffazione. 

Preziosissimo questo progetto “DONNE! Trilogia sulle donne dal mito ai social” voluto dal Teatro di Roma.

Perché è importante raccontare, denunciare, far conoscere, rivelare nuovi sguardi su ciò che ci accade.

Perché è importante che i vari racconti entrino in relazione e si faccia chiarezza. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UN CURIOSO ACCIDENTE di Carlo Goldoni – regia di Gabriele Lavia

TEATRO ARGENTINA, dal 31 Ottobre al 19 Novembre 2023 –

Cosa c’è di più stimolante e di più vitale di un curioso accidente ?

Di uno, cioè, di quegli incontri ( perché questo è quello che Goldoni chiama un “accidente” ) che all’improvviso ci scombinano l’abituale e noiosamente confortevole tran tran delle nostre giornate.

Un “accidente” che si origina con la complicità della tensione più fertile di cui disponiamo: la “curiosità”. Colei, cioè, che ci spinge a prenderci cura di ciò che ci accade. Lei, così sollecita nell’investigare, è il piacere di conoscere e di accrescersi nel sapere. E quindi, ciò che più autenticamente ci permette di dare continue svolte alla nostra vita.

E forse anche per questo motivo, acutamente il Lavia-regista sceglie di aprire lo spettacolo con un inno al Teatro, quale luogo dei continui nuovi inizi. Sia per gli interpreti, che per gli spettatori.

E ancora, è sempre per sensibilizzare il pubblico a questo concetto di Teatro, che Lavia in collaborazione con il Teatro Argentina decide di lanciare, prima della messa in scena della programmazione dello spettacolo qui a Roma, un contest sui social network – #curiosoaccidente – premiando coloro che avrebbero meglio tradotto in una “storia di Instagram” il proprio curioso accidente più significativo. Una poltrona sul palco il premio: sì, poter sedere insieme a una trentina di altre persone all’interno di una mini platea, allestita proprio su un lato del palco. Una geniale forma di teatro nel teatro: un nuovo inizio, appunto. Un nuovo inizio dentro continui nuovi inizi.

E i nuovi inizi infatti non finiscono qui: c’è anche un Lavia-narratore esterno, infatti, che desidera mettere gli spettatori a parte di quei significati reconditi, celati nel “a chi legge” di questa commedia. E così scopriamo che il Caffè della Sultana, il luogo in cui si narra si fosse raccontato di questo curioso accidente della commedia come fatto realmente accaduto, in realtà non è un luogo. Piuttosto è un particolare modo di fare il caffè: un rituale di ospitalità, di apertura alla vita e ai suoi nuovi inizi. E la Sultana- ci confida Lavia- è una misteriosa e affascinante donna tutta da scoprire. Lui, infatti, non va oltre e rimanda a noi la curiosità di esplorare e sciogliere il mistero.

Lo stesso Goldoni proprio con questa commedia “inizia” a distaccarsi dalle stereotipate maschere della commedia dell’Arte dando vita a personaggi multi sfaccettati, proprio perché sottoposti alla casualità assurda della vita reale.

La scena riproduce con magnifica essenzialità la rete delle casualità tessuta dalla vita. E da noi stessi. Tutto è a vista eppure tutto cela nuove sorprese. A partire dai bauli, per arrivare al sipario, posto dove meno ce lo saremmo aspettato: dietro la platea sul palco. Passando, poi, per il camerino a vista di Lavia: luogo di meravigliosi nuovi inizi. Il tutto collegato da un’obliqua struttura lignea: cielo di possibili congiunture.

Gabriele Lavia (Monsieur Filiberto)

“Nudi” anche i personaggi: entrano vestiti in un casual total black contemporaneo e solo successivamente vestono una seconda pelle: quella del robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento. E a colorarsi di volta in volta di un’emozione diversa. Nessun robone è infatti di un colore unico ma è costellato da una miriade di colori. Da “accendere” di volta in volta, a seconda del sentimento chiamato in causa.

Simone Toni (Monsieur de la Cotterie) e Federica Di Martino (Madamigella Giannina)

L’amore, ad esempio, è il “curioso accidente” per eccellenza: accende, acceca e fa delirare. E così “apre”, causa quell’imbarazzo che ci provoca, ad una serie di congiunture diversamente assurde. L’imbarazzo è un rimanere “allacciati”, cioè impacciati, nel disagio e nell’incertezza e proprio questo senso di costrizione, o ci paralizza o ci “slaccia” verso tentativi di compensazione emotiva.

Un momento dello spettacolo “Un curioso accidente” di e con Gabriele Lavia

Questa leggiadra commedia, infatti, è tutta costruita su una rete di equivoci, che permettono allo spettatore di “compatire” i personaggi, per la spontanea immedesimazione che ne scaturisce. E insieme di prendersene gioco, e quindi di divertirsi, non appena l’immedesimazione si alleggerisce del senso di vergogna.

Federica Di Martino e Gabriele Lavia

La regia di Lavia rende limpido allo spettatore il lavoro del cercare nuovi inizi emotivi da parte di ciascun personaggio, anche i più sicuri e quindi ancorati al rassicurante ménage dei costumi etici del passato. Lo percepiamo dai toni della lingua, dai gesti, dalle posture: tutti in bilico tra un prima e un dopo. Come avviene per ogni “inizio”.

E questi “passaggi” suscitano ilarità nel pubblico: anche la risata, infatti, è un modo per liberarsi, slacciarsi, dall’imbarazzo di un nuovo aprirsi. Lasciandosi attraversare. Splendido in poesia questo “cercare poetico” degli attori, che rende credibilissimo ogni loro sentire. Emergono Federica Di Martino e Simone Toni ma anche Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe e Leonardo Nicolini. Brilla e si libra – anche in un atletico ripetuto rotolare a terra – Gabriele Lavia.

Federica Di Martino

In questa capacità di sperimentarsi e quindi di aprirsi agli accidenti della vita risultano più audaci le donne. E’ la natura che le predispone: la loro psiche è più aperta all’entrare in relazione, al mettersi in gioco, al rischiare. Gli uomini invece tendono ad essere molto cauti e quindi a sottrarsi al rischio. Insomma, non decidendosi a rompere le uova, non arrivano facilmente a “fare la frittata”. Ma “la vita comincia ogni giorno” e forse anche più volte al giorno.

Perché “la felicità è pura follia”. 

Uno spettacolo avvincente e propiziatorio. 

Uno spettacolo che nell’invitarci a “slacciarci” alla vita, ci salva. 

Ci salva cioè dalle rigidità di pensiero e dall’esasperato individualismo che avvelenano la nostra quotidianità. E che, in un crescendo, portano agli orribili scenari di guerra che stiamo attraversando. Scenari che si sono trovati a vivere anche i personaggi di questa commedia, ambientata durante la Guerra dei sette anni (1756-1763): la prima guerra mondiale della storia.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STORIA AL CONTRARIO di e con Elena Arvigo –

TEATRO INDIA, 7 e 8 Novembre 2023 –

La sua non è solo una narrazione: è un canto. La sua voce non si limita a far conoscere, a testimoniare. La sua voce è colma di suoni: di una varietà ricchissima. Modulati con regola e misura eppure così complici, così vicini. Intimi. A tratti, prossimi ad un dolce lamento. In altri momenti, simili ad una preghiera. Come quando Elena Arvigo, ovvero colei che “canta” la storia e quindi le gesta di Francesca De Sanctis – autrice dell’omonimo libro del quale lo spettacolo è una riduzione – legge e ripete passi della Lettera di Gramsci a suo fratello (Lettere dal carcere, 12 Settembre 1927). Non per mandarli a memoria, quanto piuttosto per scriverli nella sua carne. Perché ogni storia è la storia di un corpo.

La narrazione della Arvigo oltre ad essere un canto è infatti anche una danza. È ritmo: vocale e fisico, mimico e simbolico, dove unità e differenza riescono a convivere. E così la storia diventa una grande coreografia, che aspira alla leggerezza proprio mentre resta attratta dalla forza di gravità. 

Oltre che canto e danza la narrazione è una giostra: una struttura girevole nella quale occupare un posto. Accanto agli altri. Un intrattenimento, uno spettacolo vitale carico di confusione turbinante, dove non è semplice trovare di volta in volta equilibri sempre nuovi. In bilico tra sogni e precarietà; tra l’entusiasmo del colore rosso e la chiusura del colore nero, che assorbe luce anziché rifletterla. Colori che danno forma alla scena, metafora dei diversi “habiti” della psiche della protagonista. Spesso “frullati” dal vortice alimentato da sfere girevoli ai piedi di elementi apparentemente stabili. 

Elena Arvigo in una scena dello spettacolo “Una storia al contrario”

Ma soprattutto la narrazione è una sacra testimonianza, un atto di impegno civile ed esistenziale.

È la storia di come il microcosmo professionale ed esistenziale della giornalista Francesca De Sanctis si dilati attraversando gli estremi del fondersi e del distaccarsi dal macrocosmo del settore giornalistico, per arrivare a conquistare progressivamente “il suo libero uso del proprio”, come amava sostenere Friedrich Holderling.

È la storia di una donna che sente urgente l’esigenza di testimoniarci quanto sia complesso – ma non impossibile – imparare a relazionarsi con l’Altro da noi: la famiglia, il mondo del lavoro, i colleghi, il concetto di giustizia e quello di meritocrazia.

È la storia dell’odissea di una ghiandola, il timo, che regola la nostra capacità di difenderci dagli altri, dall’esterno. Come un angelo custode o uno spirito guida, il timo ha la potenza di accompagnarci nel dosare la giusta quantità di difesa da mettere in campo, costruendo confini vitali che ci proteggano senza isolarci. E senza lasciarci invadere.

È la storia dei ” nonostante tutto”, delle avversità cioè che possono diventare preziose per conoscerci meglio. Per realizzarci, non solo e non tanto nel lavoro ma nell’arte di vivere.

È la storia dei traumi che sconvolgono la vita di ciascuno di noi – le varie “storie al contrario” – che ci trovano senza le adeguate risorse per fronteggiarli. Ma solo sul momento: un sano desiderio di ricominciare, di trovare nuovi inizi in ogni fine, ci salva sempre.

Perché noi esseri umani, anche se dobbiamo morire, non siamo fatti – come sosteneva Hannah Arendt – per morire ma per continui nuovi inizi. E come lo stesso fondatore del giornale l’ “Unità”, Antonio Gramsci, non si stancava di ripetere: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio (Lettere dal carcere,12 Settembre 1927).

È la storia delle “pagine bianche”: quelle della sana protesta dei giornalisti dell’ “Unità” ma anche quelle della vita. Perché il vuoto, come era solito dire Furio Colombo, a volte è la condizione necessaria per poter sprigionare il desiderio creativo di scrivere una nuova storia. Un nuovo inizio.

La giornalista Francesca De Sanctis

Una sacra testimonianza civile ed esistenziale – quella della giornalista De Sanctis – la cui voce cerca luce, visibilità. Come le scene -luoghi della sua mente- non mancano di sottolineare: una luce che “grida” il bisogno di essere vista e ascoltata. Perché ciò che è accaduto a lei, giovane e solerte donna, non è successo solo a lei.

Ecco allora che il Teatro – e in particolare il centro di drammaturgia del Teatro delle Donne, con la sua speciale vocazione ad essere spirito critico a tutela della condizione femminile – si rivela il luogo che riesce a soddisfare l’urgenza del dare adeguato spazio al testimoniare. E quindi anche al volo di una farfalla: una donna “rapita” in una scatola rossa che ora, dopo un percorso di autoconoscenza, torna rigenerata a volare. Nuovamente. Di un volo consapevolmente libero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FAHRENHEIT 451 – a cura de La casa d’argilla – regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni –

Spettacolo musicale / melologo sci-fi

“Era un piacere bruciare tutto ” .

Sì, può essere estremamente eccitante tenere tutto e tutti sotto controllo, sentendo pulsare nelle vene quell’esaltante sensazione di dominio, di potere assoluto, di sopraffazione. Senza permettere a nessun’altra emozione di influenzarci. Di invaderci. Tutti chiusi dentro questo confine rigido. Impermeabile.

Così entra in scena il fulgente Guy Montag di lacasadargilla, ensemble che ieri sera al Teatro India ha dato vita ad una infiammata ed infiammante messa in scena dell’omonimo spettacolo musicale/ melologo sci-fi tratto dal romanzo “Fahrenheit 451“.

Scritto da Ray Bradbury nel 1953 e ambientato in un imprecisato futuro, narra ( forse predicendo ) di una società distopica dove leggere o possedere libri è considerato un reato. Per contrastare questo pericolo viene istituito un particolare corpo di vigili del fuoco con l’insolita missione a bruciare ogni tipo di volume. 

“Bruciare sempre, bruciare tutto. Il fuoco splende e il fuoco pulisce”. 

Una brama ad essere “vigili” perversa: a cui qualcuno ha dato un altro verso, un altro valore. Un altro significato: non più quello di spegnere il fuoco per salvare, per donare aiuto. Bensì quello di appiccare il fuoco per distruggere chi ama leggere. Chi brucia di desiderio di sapere.

Perché leggere rivela i vari significati che si possono dare alle parole. E i significati che si danno alle parole sono importanti. Capirli risulta fatalmente pericoloso per chi è invaso dall’obiettivo di sopraffare gli altri. E subdolamente lusinga e fa credere di aver cura dell’Altro solo per indurlo a fare qualcosa che torni, in realtà, a vantaggio solo di se stesso. 

Guy Montag, zelante vigile del fuoco inconsapevole dell’inganno che il sistema sta propagandando, non è però immune dal percepire che successivamente all’eccitazione derivante dall’appiccare il fuoco con zelo e brama, si senta poi mortalmente svuotato. E non fuggendo da questa malinconica sensazione, riesce a percepire, una sera durante una passeggiata, l’ombrosa presenza di qualcuno che inspiegabilmente lo sta desiderando: qualcuno che sta aspettando il suo ritorno, sotto le stelle.

Clarissa, una giovane donna che osa, insieme alla sua famiglia, opporsi al regime dedicandosi alla lettura e preferendo vivere in natura piuttosto che di fronte a obnubilanti schermi televisivi. E Guy sperimenta con lei, per la prima volta, una sensazione insospettabilmente appagante. Finalmente la potente magia di un vero incontro: scoprire di amare dialogare con qualcuno a cui interessa ascoltarti. Per conoscersi, per scoprirsi. Per dare e per darsi: aprendo i propri confini all’osmosi, come membrane permeabili. Generosamente. La vera ricchezza di un’invasione. Come l’amore sa fare. 

lacasadargilla: Alice Palazzi, Maddalena Parise, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

La messa in scena di questo snodo cruciale della narrazione viene reso e valorizzato da lacasadargilla con la grazia di un incanto. Lei, Clarissa, arriva come anticipata da un refolo e emanando un canto favoloso, muovendosi e parlando con elegante leggiadria, quasi fosse una “Primavera” botticelliana.

Alla partitura del corpo e della voce, si legano sinergicamente una drammaturgia delle luci e una drammaturgia musicale particolarmente evocative. Liriche proiezioni floreali e sonorità eseguite dal vivo completano l’epifania, conferendo all’attimo la solennità di una conversione.

“Lei è felice ?” – chiede Clarissa a Guy. Una domanda proibita. Che insinua il dubbio sulla bontà del sistema. Un atteggiamento critico estremamente pericoloso perché induce a pensare. Saranno poi proprio i libri ad aiutare Guy a rispondere a questa domanda. Prova a parlarne lui anche con sua moglie Mildred, per condividere con lei il nuovo orizzonte esistenziale. Ma lei è totalmente assuefatta alla propaganda da non riuscire a cogliere la nuova carica emotiva del marito, se non come un tradimento al sistema. E di fronte al suo citare una poesia – la meravigliosa “Dover beach” di Matthew Arnold  – in risposta alle frivole argomentazioni delle sue amiche, Mildred lo denuncerà al sistema.

Siamo fatti così, noi essere umani: abbiamo un’anima che può aprirsi a diverse direzioni. Può sentire di essere spinta verso la libertà, verso lo spazio aperto della conoscenza, verso l’altruismo, verso la relazione, così da raggiungere un’autentica consapevolezza ma anche, ed è la nostra tendenza più originaria, essere pronta a barattare l’eccitante incertezza della libertà e della felicità per un’illusione di sicurezza, di calma protezione. Che ci vuole chiusi. Insensibili.

E poi, c’è sempre qualcuno che sceglie di approfittarsene. Perché un’indirizzo tutto umano è anche quello alla sopraffazione. Perché una donna e un uomo che abdicano alla libertà di pensiero e di espressione sono facilmente manipolabili. Allevabili, addomesticabili. E quindi innocui. Non pericolosi.

Perché rinunciano al libero arbitrio e quindi a sentire e a pensare e a esprimere qualcosa di diverso, di proprio. Preferendo scegliere di non scegliere e quindi lasciando scegliere l’Altro da sé. Apparentemente consapevoli ma quasi sempre vittime di subdole manipolazioni.

Saccheggiati, non a caso, di ciò che abbiamo di più prezioso: quel libero, creativo e quindi fertile arbitrio che ci rende unici, speciali. Consapevoli. Brillanti. Esplosivi.

L’urgenza preziosa e necessaria di lacasadargilla di dedicare così tanta attenzione al tema dell’ “invasione” nasce, oltre che dall’essere un tema sempre affascinante, anche dall’esigenza di riproporre e ricordare, attraverso la potenza rivoluzionaria dei libri, tutte le declinazioni che il concetto di “invasione” può assumere nei vari ambiti della nostra esistenza. 

Uno spettacolo infiammato e infiammante: come il teatro può e deve essere.

——–

sabato 2  domenica 3 settembre (ore 21:15)

SPETTACOLMULTIMEDIAL/ MELOLOGO SCI-FI

FAHRENHEIT 451

a cura di lacasadargilla regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
adattamenti Roberto Scarpetti

drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri 
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè 

drammaturgia delle luci Omar Scala disegno sonoro Pasquale Citera
con Arianna GaudioSilvio ImpegnosoFortunato Leccese, Anna MallamaciEmiliano MasalaGiulia Mazzarino, Alice Palazzi, Stefano Scialanga


percussioni Gianluca Ruggeri pianoforte Ivano Guagnelli, percussioni /el. devices Gianfranco Vozza, percussioniCarol Di Vito 

aiuto regia e coordinamento Matteo FinamoreMartina MassaroCaterina Piotti e Francesco Cecchi Aglietti


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA – un progetto di Lacasadargilla – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

TEATRO INDIA, Festival IF/INVASIONI(dal) FUTURO_Dark Ages*2023, 31 Agosto e 1 Settembre

Che cos’ è davvero un’invasione? Questo moto tanto violento quanto pacifico, lento o improvviso, momentaneo o perdurante ? Ma soprattutto qual è la sua cifra, la sua essenza ? Siamo davvero, noi umani, la specie superiore ? Siamo davvero noi i più intelligenti ?

Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023- aspettando l’inizio del melologo scifi “Consigli per sopravvivere in natura”, al Teatro India di Roma

In questi giorni, più precisamente dal 28 agosto al 3 settembre p.v., il Teatro India si lascia invadere e contaminare da realtà diverse, rendendosi permeabile all’osmosi con forme artistiche di disparata natura: narrazioni miste e atipiche di matrice antropologica, scientifica o storica e poi mondi alieni e alterati, con qualcosa di inquietantemente prossimo al reale.

Un dispositivo misto che alterna, nei diversi orari della giornata, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, laboratori, un’istallazione/performance musicale, una video istallazione multimediale, una conferenza di filosofia, un inedito progetto biennale, una biblioteca condivisa, una libreria e un palinsesto radiofonico quotidiano sulla piattaforma spreaker.

Questa è la decima edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023. 

Al Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023 l’installazione multimediale EU_PH0_R1A. A Shining Darkness di Alessandro Ferroni e Maddalena Parise – Teatro India di Roma –

Un progetto promosso da Roma Capitale -Assessorato alla Cultura- e curato da lacasadargilla: una realtà che riunisce intorno a Lisa Ferlazzo Natoli (autrice e regista), Alessandro Ferroni (regista e disegnatore del suono), Alice Palazzi (attrice e coordinatrice dei progetti) e Maddalena Parise (ricercatrice e artista visiva), “un gruppo mobile” di attori, musicisti, drammaturghi e artisti visivi.

Un ensemble allargato, il loro: un’unione di parti, ovvero una realtà che sceglie di essere una complessità, dove la personalità di ciascuno degli artisti in qualche modo “perde spicco” affinché risulti più completa l’armonia d’insieme.

Una realtà, quella della casadargilla, che fa quindi della fertilità dell’ invasione la sua filosofia. Il suo modo di essere e di stare al mondo. Non a caso la loro peculiare vocazione artistica è la realizzazione di progetti speciali “allargati” alle diverse arti. Un’invasione che impreziosisce il dialogo tra le diverse discipline artistiche. Alla base della loro ricerca, il vasto tema dell’estinzione di quei sistemi delicati e complessi che reggono relazioni, immaginazioni, antropologie ed ecosistemi.

Alice Palazzi, Maddalena Parise, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

Da questa ricerca di una fertile osmosi che, sola, permette la sopravvivenza di tali sistemi prende vita anche il primo dei loro due spettacoli musicali/melologhi sci-fi presenti a questa nuova edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023: “Consigli per sopravvivere in natura”.

L’afflato di tutto l’ensemble coinvolto in questo progetto ha offerto al pubblico, copiosissimo in sala, la magnifica possibilità di elaborare la narrazione dei racconti in scena (una selezione di racconti introvabili di quattro autrici di distopie estreme che sfiorano un orrore tutto umano: Lo psicologo che non voleva far male ai topini di Alice Bradley Sheldon; Figlio di sangue di Octavia Butler; Più vasto degli imperi e più lento di Ursula Le Guin e Palla di pelo di Margaret Atwood) come “un movimento” immaginifico e riflessivo.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

In uno spazio scenico aperto e quindi disponibile ad essere invaso, velate membrane protettive disegnano ambienti fluidi dove attori e i musicisti sempre in scena (tutti efficacissimi nelle loro partiture di corpo e voce) sostano, si muovono, assaporano le zone di confine e se ne inebriano.

Una sapiente drammaturgia delle luci crea ambienti umani dalla raffinata solitudine hopperiana, sottoposti alla tentazione a sfumare in nuovi ecosistemi: è l’ebrezza della clorofilla. E non solo. Complici i fascinosi ed enigmatici ambienti visivi e l’ossessionante e seducente disegno del suono capace di contribuire a rendere plastica la suggestione che la paura sia solo l’altra faccia del desiderio.

Un momento del melologosci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

La cura dei costumi si esprime attraverso la scelta di vestire gli attori in eleganti abiti in tessuti rigorosamente osmotici, quali il lino e il cotone.

Perché noi esseri umani, pur essendo dotati di un cervello, non siamo le creature più intelligenti sul pianeta. Essendo esseri animati siamo solo le creature più veloci a trovare soluzioni per adattarci ai mutamenti dell’ambiente. Ma la nostra organizzazione verticistica ( che per di più abbiamo replicato a livello sociale, governativo, aziendale, ecc. ) ci rende fragili nella durata.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

A differenza delle piante, che invece non si muovono e di conseguenza sono organizzate in maniera tale da essere estremamente sensibili e recettive ai mutamenti dell’ambiente ( molto più di noi esseri umani) per poter resistere a lungo. Prova ne è anche il fatto che la loro presenza sul pianeta è pari 87% mentre quella degli animali (tra cui l’uomo) è solo dello 0,3%.

La salvaguardia del rispetto delle varie specie viventi è necessario ed urgente ma contemporaneamente risulta una tensione contro natura. L’ “amore per il prossimo”, cioè per l’altro, per il diverso da noi, è un obiettivo da costruire pazientemente e costantemente, arginando l’originaria tensione umana alla sopraffazione.

Ecco perché il lavoro di ricerca de lacasadargilla, teso alla salvaguardia dell’estinzione di tutti quei delicati e complessi sistemi che sono alla base delle “relazioni” tra ecosistemi naturali, antropologici e immaginativi, è fortemente prezioso. Oltre che di una caratura poetica speciale.


giovedì 31 agosto – venerdì 1° settembre (ore 21:15)

SPETTACOLO MULTIMEDIALE / MELOLOGO SCI-FI

CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA

a cura di lacasadargilla regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
adattamenti Roberto Scarpetti

drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè 

drammaturgia delle luci Omar Scala disegno sonoro Pasquale Citera
con Lorenzo Frediani, Arianna GaudioFortunato Leccese, Anna MallamaciPaolo Minnielli, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Roberta Zanardo
chitarra elettrica Fabio Perciballi, el. devices Alessandro Ferroni 

aiuto regia e coordinamento Matteo FinamoreMartina MassaroCaterina Piotti e Francesco Cecchi Aglietti


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo L’ODORE

TEATRO INDIA, 27 e 28 Maggio 2023

Cosa può un odore? Soprattutto quando l’odore è quello della persona amata? 

Cosa può succedere se un uomo recluso in cella continua a fiutare l’odore della sua donna fino ad esserne ossessionato, non potendola vedere se non raramente?

Monica Rogledi, l’interprete di Maria

Certe passioni particolarmente intense hanno il potere di far ribollire mente e corpo. Ed è quello che accade al protagonista di questo spettacolo, Anton (un appassionato ed enigmatico Blas Roca-Rey) condannato pubblicamente a quattro ergastoli e privatamente condannato a rimanere prigioniero del legame che lo unisce alla sua donna: Maria (una Monica Rogledi, ricca in raffinata passionalità).

Blas Roca-Rey, interprete di Anton

A nulla servirà il potere del racconto e della parola per sublimare la sconvolgente passione rievocata dall’odore di lei. Anton infatti si confiderà totalmente con il suo giovane compagno di cella, Andrea (il tempestoso messaggero Andrea Pittorino) ma le sue giornate, e ancor di più le sue notti, continueranno ad essere letteralmente invase dal carnale fantasma di Maria.

Andrea Pittorino (Andrea) e Blas Roca-Rey (Anton)

Non riuscendo più a tollerare la propria impotenza verso la condanna penale unita all’impotenza di poter indirizzare e quindi dare concretezza al suo fiuto erotizzante, Anton crederà di poter trovare un modo per dominare la situazione orchestrando un piano che farà del suo compagno di cella – promosso a un progetto rieducativo esterno – un insolito messaggero. E quindi, in qualche modo, un ponte tra lui e Maria. Ma per una eterogenesi dei fini la situazione sfuggirà ancora una volta dal controllo di Anton.

Una scena dello spettacolo “L’odore”, tratto dal testo di Rocco Familiari per la regia di Krzysztof Zanussi

Gli interpreti Blas Roca-Rey, Monica Rogledi, Andrea Pittorino e Gabriele Sisci (lo scrupoloso secondino del carcere) hanno saputo trovare, ognuno nell’universo microcosmico del proprio personaggio, una particolare lettura per poter rendere l’insolita poesia racchiusa in una passione di origine olfattiva, insieme ancestrale e metafisica. 

L’avvincente testo di Rocco Familiari unito all’intensa regia di Krzysztof Zanussi – che brilla per il raffinato utilizzo della tecnica cinematografica a teatro – danno vita, in questa versione ampliata dal contributo registico di Blas Roca-Rey, ad uno spettacolo intensamente evocativo dell’urgenza, tutta umana, di una relazione costante con i propri affetti. Pena il rischio di percorsi mentali ed emotivi deraglianti, lesivi della dignità umana di uomini e donne che per un periodo della loro vita si trovano a riabilitarsi in carcere per errori precedentemente commessi.

Lo spettacolo, risultato vincitore del Premio Flaiano 2022 per la miglior regia teatrale, costituisce l’occasione per portare al centro dell’attenzione pubblica ed istituzionale il drammatico tema della separazione affettiva dei reclusi dall’amore e la loro esclusione da affetti e famiglie, nucleo centrale della salute psicologica durante il soggiorno in carcere.

Il 26 Maggio scorso, in occasione della Giornata della legalità, il Teatro India ha anticipato la messa in scena di questo spettacolo con un Convegno pubblico sul tema della Sostenibilità come alternativa alla corruzione e sul Diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Il Convegno ha visto la partecipazione del Sindaco di Roma Roberto Gualtieri, Il Presidente della Regione Francesco Rocca e il Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati on.le Federico Mollicone.


L’odore

di Rocco Familiari
regia Krzysztof Zanussi
con Blas Roca-Rey, Monica Rogledi, Andrea Pittorino, Gabriele Sisci 
regista assistente Blas Roca-Rey


Recensione di Sonia Remoli