E’ un esotico eden crepuscolare, lussuriosamente informe, abitato da un firmamento di esuberanti sonorità.
E’ lo STUDIO PER UNA DANZA DEI SETTE VELI presentato ieri alla serata inaugurale del Festival inDivenire allo Spazio Diamante dal collettivo artistico composto da Filippo Timi con Lorenzo Chiuchiù, Carlotta Gamba, Mattia Chiarelli, Vittorio Allegra, Alessandro Apostoli, Leonardo Carducci, Tiziana Di Tella, Andrea Memoli, Claudio Totino, Teresa Azzaro, Paola Balzarro, Stefania De Santis nel ruolo di Erodiade.
E’ un non-luogo che offre ospitalità a creature meravigliosamente ibride, che hanno mantenuto una forte aderenza al mondo ancestrale. Sa pulsare di sfinente carnalità e insieme di decadenti atmosfere metafisiche.
Gettato sotto un cielo di ombre, è “un illimitato” fuori dai principi della logica e oltre i principi della morale: ogni contrario scivola fluidamente nel suo opposto e viceversa. Si dà così come un paradiso perduto e di perdizione.
Qui il Tempo assume le sembianze di un clown dal lungo crine, che con familiarità epifanica si palesa muto.
Demiurgo del libero arbitrio è la grande madre Erodiade (una dolce mefistofelica Stefania De Santis) dal gesto e dall’espressività così sonori, da andare ben oltre la capacità comunicativa della parola.
Lo stesso Erode le riconosce il potere di donare moto alle acque. E’ lei il motore delle azioni e delle intenzioni: sua l’energia cinetica applicata agli elementi della natura, inclusa quella umana.
La manipolazione sulla figlia è tale da non attribuirle un autentico nome proprio, quindi neppure un’autentica identità. Non a caso, con raffinata psicologia, l’Erode Timi gioca sulla plurisemanticità del suo presunto nome: Salomè – Solo me – Salume.
Su Erode però la figlia di Erodiade ha un suo inscalfibile potere femminile, di natura ancestrale. E con indomita tenerezza sensuale rivendica solo e soltanto “la testa” del Battista. E alla fine la ottiene. Interessante qui come l’Erode di Timi si apra ad una sensibilità “ondivaga”, propria della psiche femminile, provando a barattare la testa con altre parti del corpo del Battista. Ma il desiderio della ragazza è ossessivo: incanalabile.
Al personaggio di Erode Filippo Timi affida il tentativo e lo sforzo di tenere insieme ciò che tende a restare separato, potere insito in ogni “raccontare”. E laddove il potere della parola si rivela insufficiente e ambiguo, ricorre al sacro potere atavico della musica strumentale. Senza escludere quella melodica, attraversando trasversalmente le note di malinconica sensualità del fado fino all’esplorazione sensoriale dell’amore “…La parola non ha/Né sapore, né idea/Ma due occhi invadenti/Petali d’orchidea/Se non hai/Anima, ah/Ti sento/La musica si muove appena/Ma è un mondo che mi scoppia dentro/Ti sento/Un brivido lungo la schiena/Un colpo che fa pieno centro/Mi ami o no?…”.
E’ un’espressione di mascolinità davvero molto interessante quella che ci propone Timi, che sa di narcisismo e di accoglienza. E poi ci sono i colori della sua voce: irresistibilmente contagiosi. Nonostante gli occhiali a specchio. Anzi tali proprio perché conservano quei sacri germi della vocalità di Carmelo Bene sommati a quelli di Demetrio Stratos. Un Erode, il suo, inquieto, istrionico, intrepido, straripante.
Delicate e maledettamente accattivanti le due figure femminili di Erodiade e di Salomè. Profili femminili “astrali”, nella loro carnalità. Stelle, che anche quando cadono continuano a produrre luce.
Intrigante e profondo questo studio su “La danza dei sette veli” incentrato attorno ad una trinità ancestrale (e contemporanea) che si avvale di un lavoro collettivo di promettente intensità.
Chissà cosa siamo disposti a fare dei Paesi che abbiamo abbandonato. E che ci hanno abbandonato. Quelli fuori e quelli dentro di noi.
Ad indurci questo fertile dubbio è Tindaro Granata: autore, regista ed attore pluripremiato per la sua capacità di innovazione drammaturgia e per il suo impegno sociale e civile.
Tindaro Granata
E attraverso questo spettacolo – in cui la drammaturgia scopre di potersi intessere al corpus poetico del poeta paesologo Franco Arminio – Granata ci invita a intraprendere un viaggio di ritorno, un nostos: quel tipo di viaggio animato da un nostalgico moto di ricerca.
Caterina Carpio
Un viaggio al centro della terra (ovvero al centro delle aree interne dell’Italia) e al centro di noi stessi, alla volta di quei luoghi dove qualcosa si è spezzato, o a cui abbiamo scelto di dare un taglio. E se è pur vero che amare significa anche apportare dei tagli, per riuscire a star bene nei propri luoghi risulta utile rievocare – e quindi tenere bene a memoria – quello che lì ci è successo.
E farne un “racconto”, grazie al quale dare forma al nostro tentativo di tenere insieme ciò che tende a restare irrimediabilmente separato. E a fare le valigie. Perchè “bisogna saperci fare coi luoghi – sostiene il paesologo Arminio – Non può essere solo una faccenda di urbanisti o di sociologi. Non è una scienza, ma un vento che viene da sotto. E’ un modo di usare la paura”.
Emiliano Masala
Ecco allora che a venirci in soccorso – sembrano confidarci Tindaro Granata e Franco Arminio – è quella comunicazione particolarmente efficace e naturale che è la Poesia. La sua musicalità, i suoi ritmi, la sua facoltà evocatrice collegano la nostra componente “divina” al “sacro” della natura e quindi anche dei nostri Paesi.
Eroiche si rivelano allora “le gesta”, e quindi le scelte quotidianamente epiche, di donne e di uomini: universo di identità individuali e collettive con un’inclinazione alla socialità e alla politica.
Perpetuarne la memoria attraverso l’oralità è utile in quanto sollecita la riflessione sulla nostra storia e sui nostri valori. Fino a dare vita ad un sapere condiviso, dove donne e uomini incarnanosperanze, lotte, vittorie e sconfitte dell’esistenza umana.
Tindaro Granata
E’ l‘eredità del cunto siciliano a lasciare traccia nella nuova elaborazione del “racconto poetico” di Tindaro Granata. Ma è anche l’adesione al “Manifesto dell’Italia dei Paesi” di Franco Arminio, dove la rivalutazione delle aree interne dell’ Italia, meglio dette “intense”, rappresenta una forma di “resistenza dell’intelligenza artigianale all’intelligenza artificiale, il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo”.
Mariangela Granelli
L’autore e regista Tindaro Granata immagina allora che cinque interpreti (tra cui lui stesso) – qui coinvolti anche nella tessitura drammaturgica dello spettacolo: Caterina Carpio, Federica Dominoni, Emiliano Masala, Francesca Porrini – rappresentino quelle donne e quegli uomini che, una volta abbandonato il loro piccolo Paese dell’Italia interna, sentano l’urgenza, un giorno, di ritornare.
E nel constatare lo stato d’abbandono del proprio Paese succede che arrivino a ricontattare anche il loro essersi sentiti abbandonati dal Paese e dalla sua mentalità.
Con ironia e con commozione, allora, il racconto dei singoli s’intreccia a quello della comunità. E sono di incantevole bellezza quei momenti in cui l’eredità del “cunto” si fa più’ evidente, come durante l’originalissima recita del rosario, o in alcune rivelazioni personali. Ma anche nei momenti di allineato gossip in piazza.
Propri dei cuntisti sono i loro cambi di volume, di tono e di ritmo. E ancora: le pause, l’andamento cantilenato che arriva ad una declamazione concitata ma che altre volte sa mutare d’improvviso in discorso familiare e rapido. Mentre il battito del piede rafforza gli accenti.
Efficacissimo poi il saper cogliere la relazione tra le varie fasi narrativo-poetiche e il ritmo che meglio loro si addice, così da conferire solennità ai momenti di maggiore pathos, trasmettere la concitazione e poi rallentare. E il pubblico ne resta avvinto.
Lo spettacolo costituisce una magnifica occasione per allenarsi a diventare custodi consapevoli di un antico sapere umano di cui è necessario farsi lievito. Ed è un po’ – e Granata ama ricordarlo in alcuni suoi laboratori – come un diventare testimoni di quell’antico sapere creativo del donare vita al pane. Un rito antico dove si ha la possibilità di fare un’esperienza profonda di creazione, durante la quale si diventa protagonisti del tempo dell’impasto, “lievitando” parole buone come il pane.
E così, ricontattando il sapere sacro che ci lega ai nostri Paesi, scopriamo di aver resistito alla tentazione di rinunciare ad andare a ritrovare la nostra geografia più interna, solo perché bisognava fare tanta strada. Perché – come canta Franco Arminio – non è vero che un Paese è solo un aggregato di case. Un Paese è un corpo, che ti accoglie e che desidera essere accolto.
E “Poetica” – questa tela intessuta da una comunità di interpreti e di persone, di drammaturghi e di poeti – è un incantevole affresco di geografia umana, dove si scopre che per poter stare bene insieme nel futuro occorre sapere da dove veniamo. Da quale vento siamo abitati.
Ascoltami, c’è voluto mezzo secolo di vento per mettere insieme quello che ti sto dicendo
Che cos’è che ci rende “differenti”? Cioè speciali, unici ?
Che cos’è “quel qualcosa in più” che alcune persone hanno, ma che è così difficile definire?
Può essere una facile disponibilità economica, come quella di cui si avvale il Conte D’Albafiorita? Forse i titoli onorifici del Marchese di Forlipopoli ? Oppure l’essere immuni dal fascino femminile, di cui tanto si vanta il Cavaliere di Ripafratta?
Insomma cosa “vale” davvero nella vita di un uomo, così come nella vita di una donna ?
Ciò di cui ci parla Goldoni – proponendoci un’analisi della sua epoca – non è distante da quello che accade anche oggi. Ma tra noi si sta diffondendo un pericoloso atteggiamento: stiamo perdendo interesse ad “essere differenti”, preferendo essere il più possibile gli uni simili agli altri.
Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Valentino Villa (Fabrizio)
E che tipo di “differenza” è quella che rende così unica la Locandiera?
Il suo “valore” pare essere quello di disporre di un’arte che non è finzione; di una capacità di muoversi tra educazione e provocazione. Di una consapevolezza a saper distinguere tra desiderare e possedere; tra donare e comprare. Un saper distinguere, il suo, tra questioni d’affari e questioni d’amore; tra amore e manipolazione. Un personaggio modernissimo, già nel ‘700: una donna curiosa, dal carattere complesso e intrigante.
E cosa succede quando uomini di diversa estrazione sociale – e dal diverso vissuto – incontrano una donna così consapevole delle proprie esigenze, così come di quelle maschili?
Succede che di fronte alla complessità dell’animo femminile gli uomini perdono l’orientamento, come succede al conte e al marchese. Oppure fuggono, come fa il cavaliere.
Lo diceva già Socrate nel Simposio di Platone che le uniche a sapere di “ta erotika”, ovvero delle cose dell’amore, sono le donne. Gli uomini possono apprenderle da loro, perché le donne per natura, costituzionalmente, sono dotate di una particolare dimestichezza con la dimensione del “due”, cioè della relazione.
Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta) e Sonia Bergamasco (la Locandiera)
La psiche maschile invece per natura, costituzionalmente, tende a restare ferma nella dimensione solipsistica dell’ “uno”. Non a caso i tre ospiti della locanda s’interrogano su “quel qualcosa in piú” della Locandiera: che “incatena” e che “incanta”. Lei sa far uso di un diverso potere della parola.
Una commedia questa – annuncia Goldoni – “la più morale, la più utile e la più istruttiva”: una commedia che osa parlare di cosa significa “amare”, davvero. Disponibilità umana ben più complessa di quella dello sposarsi.
Una disponibilità che lascia disarmata anche la Locandiera, quando il gioco che credeva di condurre la sorprende ad essere condotta. E perde i sensi.
Un incantesimo di cui il regista Antonio Latella ci fa arrivare pervasivamente il sentore attraverso la seduzione sprigionata dalla complice sinergia tra la drammaturgia delle luci (affidata a Simone De Angelis), la drammaturgia acustica (curata dall’alchimista Franco Visioli) e quella della prossemica.
Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta) e Sonia Bergamasco (la Locandiera)
E’ l’elogio della potenza erotica del disarmarsi: inizia il cavaliere ma la locandiera lo segue, lei che ora davvero arriva a perdere i sensi spingendosi ben al di là di una sterile strategia seduttiva.
E’ l’atto d’amore di un amante che, proprio come descritto da Platone, ha cura di far riemergere la sua donna dalla follia in cui si sono calati. Metafora mirabilmente visualizzata attraverso la cura che il cavaliere ha nel sollevarla da terra per appoggiarla su un piano superiore, il tavolo. Per poi lasciare che il rimanente percorso di risalita dal sacro della follia amorosa lo porti a termine la musica: la sua musica, quella da lui interpretata con l’armonica a bocca. Complici gli ombrosi accordi al basso di un cupido a loro servizio (un polimorfo Gabriele Pestilli). Una scena di mirifica bellezza.
Gabriele Pestilli (il servitore), Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta)
Acuta è stata la sensibilità di Antonio Latella nel riproporre pressochè fedelmente questo testo, declinandolo in una variazione registica più vicina ai nostri tempi (di Linda Dalisi il contributo di dramaturg).
Uno sguardo registico gravitante intorno al tema dei “costumi”: intesi non tanto come abiti e ambientazioni ma soprattutto come “habiti” ovvero inclinazioni, capaci di accogliere e valorizzare o meno “le differenze” che ci caratterizzano.
Antonio Latella, il regista
Campeggia sulla scena, alludendo alle pareti della locanda, un fondale in legno: una materia viva, in continuo movimento (le scene sono di Annelisa Zaccheria).
A decorarlo sembrano dei rilievi simili a cornici che, a ben guardare, ricordano più i percorsi di un labirinto. Indicazioni raffinate e visivamente efficaci che ci parlano dell’avventurosa disponibilità che si richiede al nostro stare al mondo. Di cui la locanda è un microcosmo.
Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli),Francesco Manetti ( il Conte D’Albafiorita), Marta Pizzigallo (Dejanira) e Marta Cortellazzo Weil (Ortensia)
E’ infatti il luogo dove varie possono essere le forme di risposta agli incontri, che la locanda si rende disponibile ad ospitare.
E’ il significato racchiuso nel gioco dello shangai, di cui con sagacia Latella si serve per parlarci di cosa sta avvenendo dentro alcuni personaggi. Perché quello che forse “vale” davvero – e quindi fa la differenza – é la nostra disponibilità ad entrare in relazione con l’altro, al di là di facili forme di manipolazione. “Vale”, fare la propria mossa senza arrecare danno: quell’avvicinarsi all’altro con rispetto, mantenendo sane distanze.
Non a caso Latella veste la sua locandiera con un abito che non è una divisa omologante bensì la femminile espressione della sua particolare scelta di impostare creativamente il lavoro ( i costumi sono curati da Graziella Pepe).
Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli)
Delle decorazioni onorarie tanto amate dal Marchese di Forlipopoli (un efficace Giovanni Franzoni) qui restano quelle della decorazione a jacquard del suo maglione “iper protettivo”. Dal quale però, con il procedere degli eventi, risulterà disponibile a separarsi, optando per la fresca leggerezza di un tailleur in lino.
Il Conte D’Albafiorita (un insinuante Francesco Manetti), ebbro del recente essersi arricchito, si veste qui sfoggiando un outfit griffato. Anche lui “muterà pelle” poi, indirizzandosi verso un tailleur: l’importante è che non passi inosservato.
Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli),Francesco Manetti ( il Conte D’Albafiorita), Marta Pizzigallo (Dejanira) e Marta Cortellazzo Weil (Ortensia)
E poi il Cavaliere di Ripafratta (un irresistibile Ludovico Fededegni) che si vanta del suo saper rinunciare al femminile calore, qui evita di rimanere stretto tra i lacci di confortevoli calzature. Ma non riesce a fare a meno di recuperare quel calore disperso attraverso un coprente paltò. Di cui poi, una volta preda delle fiamme dell’amore, saprà alleggerirsi.
Sonia Bergamasco (la Locandiera) e Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta)
Fabrizio il cameriere della locanda (uno stoico Valentino Villa) e’ un po’ il motore immobile della situazione: tutti sanno che c’è e che ha un suo potere, quello di saper aspettare. Forte del fatto che sa di incarnare il ruolo del pretendente predestinato dal padre a futuro marito di sua figlia.
Marta Cortellazzo Weil (Ortensia) e Marta Pizzigallo (Dejanira)
Le due ospiti femminili della locanda, Ortensia (un’esuberante Marta Cortellazzo Wiel) e Dejanira (una Marta Pizzigallo incantevolmente subdola ), nonostante il loro presentarsi vestite di abiti “da finzione nella finzione” si nutriranno delle fertili dinamiche offerte dalla locanda, trovando così il coraggio di essere se stesse.
Ludovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta), Sonia Bergamasco (La locandiera) e Valentino Villa (Fabrizio)
Sonia Bergamasco é la Locandiera esatta per lo sguardo registico di Antonio Latella: incarna – al di là del suo aspetto angelico – tutta la magnifica complessità della psiche femminile. E la restituisce con un dosato equilibrio, che sa includere un folle e fragile disequilibrio. E’ epifanica e dannatamente femmina, come solo chi non sa di esserlo, é. E si dà rompendo continuamente i piani e facendo parlare, senza filtri, ora le viscere, ora la mente. Ma poi le si accende anche il cuore. E l’inaspettato rifiuta la logica linguistica. Solo alcuni gesti involontari possono venire in soccorso della comunicazione. Ed è stupefacente vedere come il suo corpo agisca anarchicamente rispetto alle parole della logica, confidandoci quanto sia irrinunciabile per lei separarsi dal cavaliere. Ed è straziante constatare quale e quanta disperata tattile carnalità lei riesca ad esprimere attraverso la “terza pelle” di lui: il suo paltò.
Sonia Bergamasco (la Locandiera)
Uno spettacolo dalla potenza alchemica, che ci invita a scoprire e a valorizzare quella “differenza” che parla di “chi siamo”. E che può emergere da “un processo di cottura” dei nostri pregiudizi, che rendono indigeribile la nostra identitá.
Perché questo significa “realizzarsi”, avere un valore. Il proprio e insostituibile.
Un valore da difendere, nel rispetto di quello dell’altro.
E come può essere sensuale intrattenersi con la morte! Se ci facciamo caso capita spesso, ogni giorno, d’incontrarla. Mica solo quando siamo lì lì per morire !
E come ci risultano familiari questi personaggi in maschera! E’ strano, ma sembra di averli già incontrati. E’ come se nei loro volti si riconoscesse una mostruosità familiare. Ma più autentica.
Ed è proprio la loro autenticità a sfidarci: si mascherano per spogliarsi, per mettersi a nudo. Per essere “scandalosi” ma anche teneri, accoglienti. E sono pronti a prenderci per mano. Come fa anche la morte. Quindi non esageriamo: anche la morte ci assomiglia.
Ideatore e regista dello spettacolo è Riccardo Pippa: un autentico appassionato di drammaturgia che, tra le altre cose, ha scritto la prima biografia artistica di Renata Molinari, alla quale è legato il più fertile filone di riflessione sulla natura, il ruolo e la funzione del dramaturg.
In questo spettacolo parlare non serve: la parola è sempre così ambigua. E poi non c’è niente da “capire”. Molto meglio ascoltare il corpo degli interpreti in scena. In fondo, cosa c’è di più potente di mettere gli attori di fronte a degli spettatori?
Le maschere utilizzate per questo spettacolo nascono dall’estro della costumista e scenografa Ilaria Ariemme e si ispirano all’estetica della “Nuova oggettività” di Otto Dix (1891-1969) che prediligeva il ricorso alla caricatura, alla deformazione e quindi alla metafora morale per esprimere un forte dissenso.
Queste maschere infatti inquietano perché presagiscono qualcosa di prossimo: ci raccontano, anzi ci fotografano, la vita mista alla morte. La riconosciamo nella predilezione ad esprimersi attraverso la linea contorta e tormentata e attraverso un cromatismo acceso fino a divenir violento. Perché la morte ci fa, ci costituisce: tesse la nostra esistenza assieme alla vita. E poi quando la vita s’arresta o si esaurisce, la morte ci porta di là.
Non avendo però ancora appreso le buone maniere, la morte tende a muoversi maldestramente – come canta la poesia di Wislawa Szymborska“Sulla morte senza esagerare” (da La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Milano, Adelphi, 2009) di cui questo spettacolo vuole essere un omaggio. Ma non lo fa apposta. Anzi, di suo la morte è gentile: aspetta che ci arrivi davvero il desiderio di morire e di percorrere il nostro ultimo red carpet: la premiazione di una vita e insieme l’inaugurazione di un nuovo inizio.
Ma finché non siamo pronti lei è lì, sulla sua panchina. E non forza la situazione: ci lascia liberi. Permettendoci di vivere ancora un po’, se davvero ne abbiamo voglia.
Il Teatro dei Gordi é una compagnia indipendente formata da un collettivo di 11 soci. Un gruppo di attori, ex allievi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano: da qui il nome “gordi” che significa proprio “grassi”, “succulenti”.
Nomen omen: questi ragazzi sono una proposta teatrale davvero piena di succo, molto gustosa.
Bello il teatro “apollineo” di alto concetto sì, ma quello che parla di noi, del nostro corpo, delle nostre reazioni, è impareggiabile.
Questo Teatro dei Gordi è ricco in freschezza – e quindi di succo – e regala un appagamento che sa durare, che si dà senza fretta.
Perché anche la vita è un gioco di succhi, cui fa eco la reazione succulenta della nostra bocca. Anche per questo non è indispensabile passare attraverso le parole per arrivare a contattare l’esperienza della succosità, che resta inscritta nella nostra mente in maniera attraente.
Ed è così che si riesce ad apprezzare l’originalità della loro drammaturgia, il loro coraggio e la loro attenzione meticolosa. Ad esempio nella cura dei dettagli della comunicazione affidata ai corpi: dove il gesto si cura di non essere mai “verbale” ma di trovare di volta in volta quella precisione capace di portare avanti l’azione scenica. Una cura meticolosa sì: perché descrive quel sentimento di irresolutezza di chi agisce temendo di sbagliare e che proprio per questo mette nel lavoro una cura di livello superiore, dettata dai minimi scrupoli, dai più attenti riguardi. Da un buon uso della paura.
Un po’ lo stesso uso che noi potremmo imparare a fare della paura della morte.
E forse è proprio questo il succo più persistente che ci portiamo a casa, una volta terminata la loro rappresentazione.
Andrée Ruth Shammah
E così – anche grazie alla feconda visionarietà delladirettrice artistica del Teatro Franco ParentiAndrée Ruth Shammah che vedendo il primo studio dello spettacolo ha deciso di co-produrre il progetto successivo – noi possiamo dire di aver assistito, citando A. Artaud, ad “una trascendente esperienza vitale”.
Uno spettacolo disorientante e fertile. Come il Teatro e la Vita insegnano. Insieme alla Morte. Senza esagerare.
Forse, serve lasciarsi attraversare dal dolore. Non proteggersi troppo, non trattenere il dolore nascondendolo. Non far sì che si limiti al ritorno ossessivo e allucinato solo di un’immagine. Farlo scendere piuttosto, fino a contattare la tridimensionalità del cuore. Delle viscere.
Tra i flutti di una tempesta esistenziale e familiare, una giovane donna “naufraga” su un divano. Il suo corpo cresce insieme agli anni ma i suoi occhi continuano a vedere sempre e solo le stesse cose: quelle che l’hanno ferita fino a paralizzarla emotivamente. E che per una vita si è ostinata a lasciare che riapparissero solo come visioni: “Tante cose della vita non si possono pensare, per poterle sopportare”.
Giordana Faggiano e Pamela Villoresi: ragazza e donna sul divano
Lo spazio scenico immaginato da Valerio Binasco è il luogo della mente della protagonista, ormai invecchiata (una Pamela Villoresi dalla stupefacente bellezza interpretativa) dove convivono – senza delimitazioni – tutti quei luoghi e quei personaggi testimoni delle sue emozioni più dolorose.
A differenza della scrittura di Jon Fosse, la narrazione registica di Binasco sceglie di sublimare quella magnifica e nauseante sensazione di “dondolio”, alla quale l’autore Premio Nobel per la Letteratura 2023 dona una forma quasi poetica.
E’ il dondolio esistenziale in cui siamo gettati noi umani, quasi quello di una nave – metafora qui anche della figura paterna – “incantata” in un continuo retrocedere ed avanzare.
Nel riadattamento del testo (la cui traduzione è di Graziella Perin) Binasco “traduce il dondolio della lingua” in un andamento più piano, meno oscillante. Più “pop”. Dove la sensazione di produrre spiazzamento sensoriale nello spettatore viene affidata all’interpretazione degli attori: attraverso una resa della caduta dei principi della logica, in bilico tra il tragico e il comico. Ma lo spiazzamento maggiore è attribuibile, forse, a quella speciale “sacralità” restituita soprattutto attraverso gli occhi degli interpreti: in un dondolio tra ingenuità e perdizione.
Ma c’è di più: c’è qualcosa che ricorda il “realismo magico” proprio della poetica delle opere pittoriche di Antonio Donghi, i cui confini sfumano tra realtà e irrealtà. Sono le scene “più segrete” – girate dietro la parete di velatino – a ricordarlo, per quell’ “ambigua chiarezza” che guida la scelta della drammaturgia cromatica delle luci (scene e luci sono affidate alla cura di Nicolas Bovey). Ma più di tutto, è quella tensione propria di Binasco a dare vita a “un’armonia degli ossimori”, a ricordare il pittore romano (1897 – 1963).
E’ un mondo infatti dove non si smette di invocare Dio, senza essere troppo sicuri che però esista. Un mondo dove non si è sicuri di niente, dove non si cerca niente. Ma dove nonostante tutto non ci si blocca totalmente. Ci si accontenta di spegnersi e di riattivarsi. Continuamente, a vuoto, meccanicamente: “bisognerà pur fare qualcosa!” .
Isabella Ferrari (madre) e Giordana Faggiano (ragazza)
Ma “cosa”, non si ha fame di saperlo. Se si prova a dare forma ad una propria idea, dopo l’insistere contrario dell’interlocutore ci si accomoda nella sua posizione. Ma neanche questo funziona: si crea uno scarto e ci si ritrova a pensare: “perché nulla è come dicono che sia?”.
La parola, seppur molto utilizzata, risulta svuotata del suo valore comunicativo: si riducono le identità e si moltiplicano le contraddizioni, così come le cause non corrispondono più agli effetti.
Ma anche il valore terapeutico della parola è andato perso: non scendendo sotto la superficie del vedere, la parola non riesce a curare. “Me ne sto sempre qui seduta su questo divano, non faccio altro che parlare ma non serve a niente continuare a dire queste cose”.
Pamela Villoresi (donna)
E viene meno anche il potere del “racconto”, perché fiacco è lo sforzo di tenere insieme tutti gli elementi che si vorrebbero comunicare. Così passano gli anni ma “alla fine non è successo quasi niente”.
Si vive sul ciglio della vita, senza mai spingersi ad esplorarne il centro, o il ciglio opposto. E ci si appaga di momentanee complicità relazionali, suggellate da frequenti “Eh, sì” che ne sanciscono il compimento. Ma insieme anche la fine.
In un mondo dove i personaggi restano così, come immobilizzati in un’atmosfera senz’aria, gli uomini sono stanchi, dimessi, ingenui, banali, inconcludenti. Il personaggio dello zio, qui in Binasco – lungi da un carisma da amante segreto – diventa quasi una caricatura di ingenuità. Ed è un irresistibilmente interrogativo Michele di Mauro ad interpretarlo.
Michele Di Mauro (zio)
E’ un mondo dove si resiste a vivere pur essendo saltate tutte “le identità” che fanno delle persone delle creature uniche, nel bene e nel male. Qui infatti evaporano i nomi propri, si diluiscono i confini spaziali (così come quelli tra video e pittura, nell’interessante proposta di Simone Rosset) e quelli comportamentali: i padri sono assenti ( Valerio Binasco -uomo- e Fabrizio Contri – padre-) e se ci sono rinunciano ad applicare con i figli il limite delle regole. Limiti che soli possono stimolare desideri di personale rielaborazione della regola. E le madri non ce la fanno a trasmettere la gioia di vivere ai figli, perché a loro volta figlie di genitori manchevoli.
Sono donne che indossano vestaglie che – quasi come ali – pur facendo sollevare, non si rivelano adatte al volo (i costumi sono curati da Alessio Rosati).
Oppure sono donne, come la protagonista da ragazza (una Giordana Faggiano dagli intensi sbalzi di temperatura emotiva) che restano nel nido anche quando sembrano esserne fuori (ed è mirabile la freschezza decadente di Pamela Villoresi, ovvero la protagonista nell’età adulta).
Donne con una vocalità quasi da volatile: acuta, a tratti gracchiante, che passa dall’accorata e assillante lamentosità infantile agli isterismi dell’età matura. Senza la possibilità di esplorare fertilmente le calde e misteriose tonalità della seduzione.
Sono quelle note che non trovano il proprio colore né nel vissuto della madre della protagonista (un’efficacissima Isabella Ferrari dalla sciatta femminilità ma dall’ insopprimibile fascino) né nel vissuto della sorella (un’avvincente Giulia Chiaramonte, votata alla soddisfazione delle fantasie maschili).
Giulia Chiaramonte (sorella)
Un testo che ci parla, ci risuona. E mette in subbuglio il nostro talento a vivere.
Ma lo sguardo che ci regala la regia di Valerio Binasco è quasi carezzevole. Magicamente reale.
Sono ragazzi di oggi, ma basta un accessorio e si vestono di passato.
Sono “persona” e “personaggio”: in trasparenza. Si presentano anagraficamente come persone e ci anticipano qualcosa di essenziale del loro personaggio, del suo destino.
Sono voce d’entusiasmo; sono corpi dotati di un eccesso di energia.
Non ci celano nulla, tutto è “a vista”: i cambi d’abito, gli inserti musicali. Le entrate e le uscite non conoscono quinte. Neanche quando i corpi si preparano ad entrare dentro altri corpi, dentro altre posture, dentro altre vocalità.
E’ la storia di padri e di figli, di ieri e di oggi. E’ la storia di eredità affatto interessanti: troppo distratte, troppo proibitive. Che generano figli, testimoni degli stessi eccessi.
E’ un tempo inquieto: come il nostro, come ciclicamente capita si verifichi.
E’ una storia di intrighi e di violenza che non esclude però l’apertura verso “un inno alla gioia”: quegli accordi composti da Schiller nel 1775 e musicati da Beethoven nel 1826 continuano a risuonarci.
Questo dramma teatrale, rappresentato nel 1782 a Mannheim da un giovane Schiller, fu un successo clamoroso: si racconta che durante la rappresentazione alcune signore siano svenute dall’emozione e che gli spettatori si siano abbracciati perché coinvolti emotivamente dall’azione. Qualcosa di simile accadde alla rappresentazione del 1898 di Stanislavskij de “Il gabbiano” di Cechov.
E anche ieri sera, nella sublime cornice del Teatro Basilica, a fine rappresentazione grande è stata la commozione e l’entusiasmo del pubblico.
Una necessità di padri che sappiano essere padri rigorosi ma stimolanti e di figli che ereditino lo stimolo della “legge del padre” per fermentare fertilmente.
E – come già sosteneva vibrantemente Schiller – è il Teatro quella “istituzione morale” capace di rendere fecondo “il gioco” della vita: quello tra padri e figli, tra singolarità e collettività, tra ragione e sentimento.
E ci riesce attraverso “la bellezza” della sua Arte: facendo “cadere le bende dagli occhi” e sublimando “la vanità puerile” in impegno collettivo.
Quello di Monica Nappo è un tentare ragionato – un esperimento appunto – che unisce sinergicamente il potere della parola a quello dell’immagine. Laddove la parola tentenna a descrivere, è infatti l’immagine a rivelarsi più duttile ad esplorare e descrivere certi disagi.
Un’esplorazione di sé – ma anche di noi del pubblico – quella proposta dalla Nappo che trova ispirazione e sostegno nell’estetica di Piet Mondrian. Lo spazio scenico infatti – pensato ed allestito per ospitare lo spettacolo (lo studio di una counselor) – ricorda lo studio del celebre pittore, in quanto riproposizione di una estensione dei suoi dipinti. Spazio ideale quindi per perdersi e così poter dare vita ad un nuovo esperimento di linee e colori, che provi ad ordinare e mettere in comunicazione un universo personale immerso nel caos.
I confini ben definiti delle celebri “Composizioni” di Mondrian – alle quali allude la parete di fondo dello studio da counselor della donna interpretata dalla Nappo – non chiudono infatti ermeticamente gli spazi descritti ma permettono incontri, intersecandosi continuamente. Ed è una splendida metafora del lavoro su sé stessi – a cui lo spettacolo invita con ironica profondità – per un sano relazionarsi con gli altri.
Quante insidie – ad esempio ci si chiede – può nascondere un’attesa?
Quali sono i suoi confini? E il non rispettarli in quali pericoli ci fa incappare?
La couselor interpretata dalla Nappo invece coglie l’occasione del protrarsi dell’attesa dell’arrivo del suo paziente per farsi lei stessa “il prossimo paziente”. E ci si consegna in tutta la bellezza del testo da lei scritto, oltre che interpretato.
E’ un raccontare, il suo, che non segue la linearità sicura di una narrazione già confezionata ma piuttosto esprime “il tentativo” – insito solo nel raccontare e nel fare esperimenti – di tenere insieme vari elementi per poter comunicare qualcosa d’interessante.
E assume la forma di un continuo riprendere daccapo – “ricomincio ” – ogni qualvolta qualcosa sembra sfuggire. Quasi come se nell’oralità si ricreasse lo stesso avanzare imperfetto del processo creativo della scrittura. Un po’ un tirar via il foglio dalla macchina da scrivere, accartocciarlo e ricominciare con un altro foglio.
La Nappo intriga per il suo acuto disarmo. E sorprende quando lo stesso disarmo lascia il posto alla provocazione. I toni della sua voce – che sanno come colorarsi delle emozioni che attraversano – sono prevalentemente acuti ma mai irritanti. Quasi musicali. Teneri e pungenti. Il suo corpo rompe continuamente tutti i piani ed è una continua sorpresa. Come gli interrogativi che ci sottopone.
Come possiamo desiderare ancora ciò che già abbiamo?
Quanto bene e quanto male riesce a procurare una somma di piccole cose?
E cosa succede se questa somma di piccole cose nasce da una solitudine, diventa un’abitudine e poi arriva a trasformarsi in una dipendenza?
Un po’ come le diverse temperature che il corpo attraversa nel continuo e progressivo adattarsi ai differenti gradi dell’acqua, quando ci si immerge per fare un bagno al mare.
E se ancora aleggiasse nell’aria una qualche forma di scetticismo, la Nappo in chiusura tira fuori dal suo “cilindro che bolle” una vera e propria teoria scientifica a coronamento del risultato raggiunto con il suo accattivante racconto.
Perché la differenza tra amore e dipendenza, tra resilienza e sottomissione è tutta in un salto: quello che occorre fare ad un certo punto dell’attesa. Prima che esca fuori dai suoi confini.
Quant’è difficile mettersi in gioco con gli altri?
Cosa ci spinge a isolarci, evitando di scendere in campo a giocare e a farci giocare dal relazionarci con gli altri?
Che realtà è quella qui descritta da Josep Maria Benet i Jornet dove nessuno ha più il suo nome proprio? Dove tutti sono stati privati della propria identità e quindi della propria unicità?
Flavia Di Domenico
E’ un mondo dove si è smarrita la cura di donare attenzione all’altro: di guardarlo con interesse, con acuta curiosità. E assomiglia paurosamente a quello in cui anche noi siamo immersi.
Giorgia Passeri – che cura la regia dello spettacolo – coglie e sviluppa anche scenograficamente la componente sociale ma soprattutto esistenziale che anima il testo, proprio come nelle intenzioni dell’autore.
Con finezza costruisce una scena-campo da gioco dove risulta efficace la tentazione ed essere presi in scacco dalla vita.
Soprattutto quando i desideri restano appesi, frustrati, ignorati.
Giocare allora la propria partita con la vita perde smalto e ci si ritira progressivamente ed inesorabilmente in difesa. Una difesa asfissiante.
Ce ne parla con efficace incisività la drammaturgia della prossemica: un potente gioco comunicativo non verbale dove i piani dei corpi e degli occhi nonché le loro distanze urlano la difficoltà a superare la soglia del sospetto, tra due donne – diversamente violente perché ugualmente spaventate – che non hanno mai fatto esperienza di autentica e quindi generosa accoglienza da parte degli altri.
Rese “invalide” a cogliere la fertile contagiosità di un incontro: “io non ho diritto a niente … per questo risparmio”. Ma i soldi non riescono a colmare l’abisso esistenziale in cui si stanno calando entrambe le donne. I soldi non riescono a comprare l’altruistica attenzione degli altri.
Fin dalle prime battute del testo ma soprattutto fin dai primi colori di voce delle due protagoniste ci arriva il sentore di come le stesse siano preda del fascino subdolo verso una diversa realtà finalmente di quiete atarassica: se nell’anziana signora (interpretata da Flavia Di Domenico) assume i toni di un velato ricatto manipolatorio, nella giovane badante (interpretata da Marina Vitolo) è il richiamo di una seduzione segreta.
Marina Vitolo e Flavia Di Domenico
Di densa ferocia non solo drammaturgica ma anche di maledetta bellezza interpretativa la pretesa dell’anziana signora (Flavia Di Domenico) di “farsi dare del tu” dalla badante. Una pretesa e non una ricerca, un’attenzione, una cura dell’avvicinarsi: premure impossibili se non si sono precedentemente vissute e acquisite come un imprinting di umanità.
Così come elegantemente mortificante è l’equivalente ostinato – e insieme meravigliosamente scolorito – tenersi a distanza della badante (Marina Vitolo): “sono qui per lavorare, mica in visita!”.
Marina Vitolo
Una vita di relazione in cui niente “quadra”, a differenza del pavimento esistenziale in cui tutto “sembra” una perfetta ed equilibrata tessitura di luci e di ombre.
Ma è quando l’anziana signora, in un inaspettato gioco di seduzione tra il licenziare e il trattenere la badante, si scopre incline a rispettare i tempi e le modalità di avvicinamento dell’altra, che qualcosa di fertile inizia a manifestarsi.
Entrambe avvertono quel ponte che unisce le loro diffidenze: perché prestare attenzione è contagioso. “Parli con te stessa? Cioè con te quando eri piccola? Che cosa raffinata” – si sorprenderà a riconoscere la badante di fronte a questa autentica confessione disarmata dell’anziana signora.
Flavia Di Domenico e Marina Vitolo
Perché si fa quello che si è ricevuto, nel bene e nel male. E se corri il rischio di aprirti con l’altro, molto spesso succede che anche l’altro “sputerà il suo rospo”.
Perché essere amiche, almeno un po’, significa essere interessanti l’una per l’altra: essere messi in mezzo alla vita dell’altro. E’ un ponte che lega due esistenze a tutto il mondo intorno. Miracolo che non riesce a fare neanche l’altare dei giornaletti, appeso a desideri chiusi.
E’ così che alla fine le due donne riescono a sintonizzarsi. E poco conta chi vince e chi perde: ora conta solo “farlo insieme”. Ballando.
In un malinconico ed eccitante passo a due : “Un passo me ne vado/Per sempre/ Un passo grande un passo così importante” (Mille passi di Chiara Galiazzo feat. Fiorella Mannoia).
Flavia Di Domenico
Flavia di Domenico ci regala un’anziana signora vibrantemente compressa come un vulcano che si prepara ad eruttare. La sua potenza maggiore sta proprio nel trattenere ciò che si ritarda a far esplodere. Recitano in tal senso le sue mani. E i suoi occhi, pur celando la loro incandescenza sottraendosi all’incontro con altri occhi.
Marina Vitolo
Marina Vitolo restituisce il personaggio della badante con una commozione dalla bellezza sublime: tale da riuscire a farla trapelare – con la complicità di occhi indimenticabili – anche in tutte le crepe di smarrimento d’entusiasmo di cui il suo personaggio brilla.
Lo spettacolo – da non farsi sfuggire – resta in scena al Teatro Porta Portese ancora oggi pomeriggio alle ore 18:00.
Da questo testo il Teatro Franco Parenti ha prodotto l’omonimo spettacolo che l’8 Luglio 2021 ha debuttato al Festival di Spoleto, con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli e con la regia di Valter Malosti.
La bellezza di certe verità è inafferrabile. Ma ci ospita. Possiamo lasciarci le nostre tracce. È così.
Come accade con la neve: quella, ad esempio, sul fondo della scena qui descritta.
Una neve che abita un confine.
In quanto tale, un confine si dà come inizio e come fine di qualcosa.
Ma può darsi anche come coesistenza di un inizio e di una fine di qualcosa: come soglia di un incontro, di una comunione.
Come i protagonisti di questa narrazione: sono 3 ma anche 1.
E’ la bellezza di certe verità, come quella della religione cristiana e dell’inconscio psicoanalitico.
I tre – un figlio, una madre e un soldato/padre spirituale – non si rassegnano a concepire il confine tra la vita e la morte come una “separazione” tra un prima e un dopo.
La narrazione dei loro vissuti ci parla di un desiderio di vita che non esclude la morte ed è così consapevole da fare di questo presunto confine – sperimentato in molte occasioni della loro vita – un luogo d’incontro e quindi di coesistenza:
Tra un passo e l’altro
Tra un battito e l’altro
Tra un sentire e un mancare
Tra il totale altruismo di madre e l’insostenibile leggerezza dell’essere dei padri
Tra battesimo ed estrema unzione
Tra l’amore diverso di ciascuno dei due amanti
Tra il restare di un nome e il corpo che muore
Tra il durare e il resistere
Massimo Recalcati
E’ così che la scrittura di Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, ci porta a fare esperienza dell’ eternità del caduco: dell’irresistibile trascendenza legata al piacere dei sensi.
In primis, il vedere: quello che riceviamo in dono dai nostri “piccoli occhi mortali” accesi dalla luce, partorita dal buio.
Luce che a sua volta partorisce la vita e insieme la morte. E rende possibile l’entrata in scena di un altro meraviglioso senso: il tatto. È la bellezza dell’aderire. Che non significa afferrare. Ma contagiarsi nell’abbracciare un’attesa.
Recalcati canta la continua meraviglia di un giorno qualsiasi, quella trascendenza che scende sulla quotidianità, come la polvere sulla consuetudine immortalata nelle opere di Giorgio Morandi.
Recalcati canta la bellezza irripetibile dei nostri corpi, così come sono: lungi da un desiderio di perfezionamento.
Recalcati fa venire alla luce un testo dalla viscerale e lisergica potenza sinestetica: che riusciamo a “sentire” anche acusticamente, olfattivamente, tattilmente e in bocca. Al di là dei principi della logica.
È il racconto della rievocazione della “passione del vivere”: la preghiera delle preghiere.
Un testo sull’urgenza di nascere, non solo una volta ma ancora e ancora: tutte le volte che la vita si scontra fertilmente con la morte.
Tre personaggi, tre diversi modi di essere ebbri di vita. Per se stessi e per gli altri.
Tre declinazioni di ostinato insistere a voler vivere: anche quando l’ impossibilità a proseguire diventa direttamente proporzionale all’impossibilità a non proseguire. Uno strazio e un’eccitazione che non escludono la tentazione a lasciarsi andare e a gridare contro Dio, come Giobbe.
Ma su tutto vince l’urgenza dell’inafferrabile bellezza di vivere, ancora, ancora, ancora: battito dopo battito, passo dopo passo.
Sì, così: “…adesso e nell’ora della nostra morte”.
Ha la bellezza fine e lacerante di un canto notturno, questo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro.
Canta di quanto sia senza senso l’essere gettati al mondo di noi umani. Di come manchi un’origine, un rassicurante inizio. Il bandolo della matassa dei nostri grovigli esistenziali.
Ma dal testo della Calamaro ci lasciamo prendere e gli permettiamo di condurci proprio là dove accuratamente evitiamo solitamente di inoltrarci: in quell’errare infinito e labirintico che ci è così familiare e che diventa obiettivo di un’intera vita tacere. Ignorare. Il nostro e quello altrui.
Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo
Qui però l’interlocutore non è la Luna ma un frigorifero: unico “astro” capace di gettare luce sulle tenebre dell’esistere. La sua è una luce che non fa ordine, sebbene induca all’introspezione. “Alimentare”.
Ma Concita (la protagonista figlia di Lucia Mascino e madre di Alice Redini) non cerca lì nel frigo la soddisfazione dello stomaco: la sua non è quella “voglia di qualcosa di buono”. No, lei dice di cercare qualcosa che le riempia “il torace”: sede del sentire con il timo e col diaframma. Organi già cantati dall’ Omero dell’Iliade come responsabili del respiro, inteso come soffio vitale: equilibrio dell’inseparabilità tra vita psichica e somatica. Concita insomma cerca “qualcuno” e non “qualcosa” nel microcosmo della sua psiche-frigorifero: cerca se stessa.
Concita De Gregorio è Concita, figlia di Lucia e madre di Alice
Ma per farlo ha bisogno degli altri: ha bisogno di qualcuno che ami ascoltarla: con attenzione, con cura. Perché la nostra natura vive del relazionarsi. Ma la qualità della relazione deve essere fertile, generosa. Altrimenti si rischia di ammalarsi di mancato ascolto, di mancata attenzione.
Come avviene alle tre protagoniste qui in scena: stesso imprinting con reazioni diverse. Lucia, la nonna, sceglie di rimuove le sue esigenze più vive riuscendo a sopravvivere nel mare di noia che ne deriva senza affogarcisi dentro; Concita (la figlia di Lucia) non riuscendoci si isola, si chiude all’ipocrisia delle relazioni; sua figlia Alice è in bilico tra la simbiosi con la mamma e il tentativo di riuscire a comunicare con lei decifrando il suo linguaggio del corpo, vista la crisi di autenticità della comunicazione verbale. Un’inautenticità di cui (paradossalmente) farà esperienza anche l’analista di Concita.
Lucia Mascino è Lucia, madre di Concita e nonna di Alice
Lo spettacolo che si sviluppa in tre atti, in uno spazio scenico enormemente vuoto e abitato da una luce lattiginosa (specchio della liquidità dello stato psichico) e cromaticamente sempre più vicina all’approfondimento spirituale – si propone come una spiritosa riflessione sul progressivo cammino introspettivo di Concita verso l’ ”origine” di sé.
Il suo processo di auto-consapevolezza sul proprio disagio si avvale inizialmente della relazione con l’oggetto emblema del raffreddamento emotivo: il frigorifero. Un raffreddamento che però non esclude muffe, non solo alimentari.
Alice Redini è Alice, figlia di Concita e nipote di Lucia
Il viaggio prosegue passando attraverso la relazione con un diverso interlocutore tecnologico: la lavatrice. Metafora di quel far girare in avanti e indietro idee, domande e considerazioni asciugandole – almeno parzialmente – attraverso quell’azione centrifugante, così ben replicata dalla mamma di Concita, Lucia. Che si impegna parossisticamente ad eliminare quell’eccesso di umidità che regna in casa, a causa del continuo piangere di Concita.
La terza tappa del viaggio è con l’ analista, ridotta a macchina, a stereotipo. Un’incomunicabilità verbale che lascia spazio al silenzio dei pensieri. Ad uno stare al mondo umanamente più indefinito. Un risultato in mutamento, nel quale si può entrare in relazione. Sagacemente.
Alice Redini, Concita De Gregorio e Lucia Mascino
Le tre interpreti sulla scena – (anche) parti di una stessa psiche – ci rapiscono. E fanno di noi ciò che vogliono. Ci viziano e ci strapazzano, ci consolano e insieme puntano dritto al cuore, come solo Lucia Mascino sa fare, armata di rami di bambù.
Così facendo riescono a farci intravedere come nel chiuso disagio della depressione – interpretato con multiforme delicatezza da Concita De Gregorio – possa farsi strada la possibilità di evolvere, avvicinandosi a quell’equilibrio e a quell’armonia in accordo con l’ambiente circostante, esemplificato qui iconograficamente nell’arte giapponese di sistemare i fiori.
Un equilibrio costantemente da resettare e insieme da accogliere: perché una mamma che, come Lucia Mascino, possa inveire sulla composizione floreale – a cui ha appena dato personale forma ed equilibrio la figlia Concita – per imprimere anche il suo tocco, ci può sempre essere.
Ma tutti siamo figli: anche le madri, anche le nonne così come le psicologhe. E anche qui le interpreti – e particolarmente Alice Redini, con la sua capacità di saper rendere diversamente fertile lo smarrimento di figlia e quello di psicoanalista – ci tatuano addosso la sensazione che pur essendo stati messi al mondo al di là della nostra scelta e plasmati da un imprinting che per molti anni siamo invitati a seguire, possiamo comunque fare qualcosa di proprio – e quindi nostro – di quello che gli altri ci hanno fatto.