Recensione dello spettacolo SEE PRIMARK & DIE ! – di Claire Dowie – regia di Dafne Rubini

TEATRO LE MASCHERE, dal 25 al 27 Giugno 20224

Quanto è difficile essere liberi ? 

Quanto ci angoscia poter scegliere ? 

Anzi, dover scegliere: anche scegliere di non scegliere è comunque una scelta.

La libertà è una condanna: siamo obbligati ad essere liberi – sosteneva Jean-Paul Sartre.

Meno male che c’è l’economia capitalistica. 

Lei sì che ci legge nel pensiero: lei ci solleva dall’usare il cervello e quindi ci libera dalla libertà. E quanto ci piace ?! 

Lei si assume tutte le responsabilità e noi ubbidiamo. Senza pensieri, senza dover usare con libero spirito critico la nostra capacità di pensare.

Come recita la filosofia del franchising dei negozi Primark: costa tutto così poco che non devi pensare a cosa scegliere. Puoi comprare tutto, ingordamente. Fino alla nausea. Fino alla morte. 

Martina Gatto

Da qui prende avvio lo spettacolo, che ammicca alla stand-up comedy, diretto con sapiente minimalismo da Dafne Rubini e interpretato da un’esplosiva e penetrante Martina Gatto. La drammaturgia è di Claire Dowie, anche attrice e poetessa: sicuramente uno dei personaggi più divertenti, anticonformisti ed iconoclasti della scena teatrale inglese contemporanea.

Con provocante ingenuità Martina Gatto ci racconta di quel giorno in cui si accorge di non stare bene: non sente più l’istinto di andare a comprare qualcosa di nuovo, sintomo di una “sana e robusta costituzione” nella società consumistico-capitalistica in cui viviamo. 

E sebbene, in verità, non avvesse bisogno di nulla, come si poteva resistere a non andare da Primark a comprare almeno una T-shirt, che generosamente avevano scontato a 2euro e 50 centesimi ? 

Pur non avvertendo più la seduzione di questa opportunità, si sforza di andare comunque. Ma quelle luci così attraenti ora hanno perso il loro potere euforizzante, così irresistibilmente trendy. Quella scioglievolezza che normalmente le si iniziava a generare in bocca varcando le porte d’ingresso, ora le provoca terrore. E più entra all’interno più si sente morire, tanto il consueto piacere ha lasciato il posto a un disagio sempre più invadente. 

Persa la dipendenza all’istinto compulsivo ad acquistare, tagliata fuori dallo spazio incantato del Primark, in quale altro modo sarebbe stata al mondo ?

In realtà, al di là dei confini del tempio del consumismo, lei farà esperienza di una nuova speciale sensazione: quella della mancanza, unica porta d’ingresso ad un autentico desiderare. Non a caso i genitori del dio Eros – ci racconta Platone ne “Il Simposio” – erano Penia (che significa “mancanza”) e Soros (“la via”). La via della mancanza genera eros: il desiderio.

Ed è qualcosa di diverso dall’istinto meccanico a fare qualcosa che fanno tutti per essere accettati e inclusi in quel particolare modo di vivere. Che non è l’unico. 

Ecco allora che con ironica sapienza la protagonista ci racconta di aver scoperto di tornare ad avvertire una mancanza, un senso di vuoto, che inaspettatamente la rende incline a prestare attenzione anche alle piccole cose. Incluse quelle che nel modo di vivere precedente andavano a finire nel cassonetto, solo perché così aveva senso per il sistema economico: continuare incessantemente a produrre per poi indurre il consumatore a continuare a comprare ancora cose, perché sempre “più nuove”.

Uno spettacolo che sa far uso dei toni più scoppiettanti e provocatori per veicolare l’urgenza di riscoprire nuovi modi di vivere, diversi rispetto a quello in cui si siamo impantanati.

Assaporando la fertile tensione delle spinte di cui si compone la nostra possibilità di essere liberi: la spinta a lasciarci guidare e l’ebrezza a dare noi una direzione al nostro sentire. Perchè assecondarne solo una, rischia di essere troppo limitante, fino a diventare distruttiva.

Dafne Rubini (regista) e Martina Gatto (interprete)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA LEZIONE di Eugène Jonesco – regia di Antonio Calenda –

TEATRO BASILICA, dal 6 al 10 Marzo 2024 –

E’ una danza, un rituale di sublime bellezza la messa in scena de “La Lezione” di Eugène Jonesco per la regia di Antonio Calenda, che ieri sera ha debuttato a Roma nella metafisica cornice del Teatro Basilica.

Teatro Basilica

La prossemica ha la grazia di una coreografia; la vocalità veste i toni del canto; i corpi raccontano ciò che le parole non sanno dire.

Quando i principi della logica saltano, a parlare è la lingua dell’inconscio: quella dove eros thanatos amano darsi appuntamento.

Complice la raffinata drammaturgia delle ombre (disegnata da Luigi Della Monica) che, bisbigliando possibili pericoli, lascia scoperti i nervi della platea.

Così anche la scena (di Paola Castrignanò): elegante e altera cela in sé, al di là della solidità apparente, misteriosi vuoti inquietanti.

E poi i costumi (la cura è di Giulia Barcaroli):  impeccabili  “divise di ruolo” borghesi, che proprio per la loro maniacalità realistica insinuano dubbi sulla realtà stessa. 

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Di magrittiana bellezza la scelta registica di far sì che l’entrata in scena del Professore – interpretato da un Nando Paone mirabilmente a suo agio tra realismo e surrealismo – sia anticipata dall’entrata del suo “cappello di rappresentanza” (per mano della Governante : un’efficacissima Valeria Almerighi). Non sarà mai indossato ma resterà sempre in scena, come tributo (ipocrita) alle apparenze borghesi.

Nando Paone (il Professore) , Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Valeria Almerighi (la Governante)

Nonostante l’ossequiante rispetto delle formalità borghesi, lo spettatore è condotto dal regista nell’individuare  l’insinuarsi sulla scena di inaspettate perversioni alla norma. 

Non ultimo, il fatto che la scena si svolga in un (apparente) studio ricavato da una sala da pranzo: luogo deputato alla consumazione del pasto. Ma anche i contenuti di una lezione richiedono di essere ben masticati da un allievo o da un’allieva (qui da una candida e irresistibile Daniela Giovanetti).  Altrimenti sarà cura del Professore impartire un altro tipo di lezione: una lezione esemplare.

Nando Paone (il Professore) e Daniela Giovanetti (l’Allieva)

Delicatamente erotico è lo stile che il regista sceglie acutamente di seguire per lasciarci fin da subito assaporare come la comunicazione possa prendere un gusto ambiguo, al di là delle regole costruite dalla logica.

Inclusa la stessa tensione tra professore e allieva: in bilico tra il distacco didattico e l’attrazione alchemica. Ma così è: lo diceva già Platone che s’impara solo per seduzione. E lo stesso professore di Jonesco ne è consapevole: più volte si rimprovera di non aver fatto degli esempi “efficaci” difronte alla mancata comprensione dell’allieva. E allora si lancia in una modalità incantatoria che poi vira al parossismo.

Daniela Giovanetti (l’Allieva) e Nando Paone (il Professore)

Perché “insegnare” significa etimologicamente lasciare un segno sull’allievo, lasciare delle tracce.  Jonesco stesso definiva questo suo testo un “dramma comico”: un umorismo che mira a confondere e a contraddire quelle che chiamiamo certezze.

Perché in realtà siamo immersi nell’ambiguità del caos delle informazioni.

Le convenzioni della logica ci aiutano ad intenderci sì, ma dimenticano “le diversità” di cui si compone la verità. 

Valeria Almerighi (la Governante) e Nando Paone (il Professore)

Recensione dello spettacolo TOP GIRLS di Caryl Churchill – regia di Monica Nappo –

TEATRO VASCELLO, dal 20 al 25 Febbraio 2024 –

Quanto costa essere una top girl ? 

No, non quanto si guadagna. 

Piuttosto quanto occorre “spendersi” – cosa bisogna essere disposte a perdere – per essere al top ? 

Ancora oggi, infatti, non ci possiamo permettere di liberare un sano e creativo uso del “femminile” se vogliamo “volare un pò più in sù” (come la sagace drammaturgia sonora allude) raggiungendo posizioni di alto livello socio-politico.

Ancora oggi per essere apprezzate come donne occorre somigliare agli uomini – essere delle insensibili “lady di ferro” (molto suggestivo l’accessorio che indossano in scena le esaminatrici del personale) – o sottomettersi a dei mortificanti stereotipi femminili.

Ancora oggi desiderare avere figli è penalizzante nel mondo del lavoro.

Ma perché è così anomalo realizzarsi come “persona” – come imprenditore di se stesso – oltre che come imprenditore altrui ?

Perché risulta così difficile una rispettosa sinergia tra le caratteristiche proprie della natura maschile unite a quelle della natura femminile? 

Caryl Churchill

40 anni fa intorno a queste domande gravitava la provocante drammaturgia di Caryl Churchill, una delle più apprezzate voci viventi della drammaturgia anglosassone. Recentemente questa stessa drammaturgia, tradotta da Maggie Rose, è stata ripresa e riletta dall’acuta sensibilità della regista Monica Nappo (in scena anche come attrice)

Monica Nappo

proprio per rendere consapevoli gli spettatori-cittadini-lavoratori di come dopo 40 anni la situazione attuale sia rimasta ancora troppo simile a quella precedente. Ecco allora che può risultare utile aprire una nuova riflessione. Perché anche a questo serve il teatro, quello autentico.

La scena (efficacemente spartana e decadente, curata da Barbara Bessi) si apre ospitando una festa di promozione: quella di Marlene, responsabile di un’agenzia di collocamento londinese. Lussureggianti sono gli abiti delle invitate (la cui cura è affidata al magnifico estro di Daniela Ciancio). Ma sotto il vestito scopriremo esserci una gran miseria esistenziale: Marlene infatti nonostante la brillante promozione, riesce a tollerare i racconti relativi alle condizioni che hanno reso possibili i successi delle sue invitate (non così dissimili dalle sue) solo grazie al copioso vino rosso che continua a mescersi.

Siedono al suo tavolo:

Isabella Bird, scrittrice e esploratrice scozzese del XIX secolo che, per poter andare a cavallo come gli uomini senza dare scandalo, si disegnò e si vestì con pantaloni alla turca, casacca e sopra a tutto un abito hawaiano colorato. E che, grazie alla redazione di un libro con le testimonianze dei suoi avventurosi viaggi, fu la prima donna della storia ad essere nominata membro della Royal Geographic Society. Priva però di facoltà di parola in pubblico.

Lady Nijo,  scrittrice e poetessa giapponese del periodo Kamakura, concubina dell’imperatore Go-Fukakusa dal 1271 al 1283 e in seguito monaca buddista. Una donna che pur appartenendo ad una classe nobile, senza la protezione della famiglia, senza marito e senza prole non poteva aspirare a occupare alcuna posizione di potere.

La papessa Giovanna che nel IX secolo, travestita da uomo, raggiunse il grado ecclesiastico più alto dell’Impero. Di origini umili, assumendo abiti maschili potè studiare le arti del trivio (dialettica, grammatica e retorica) distinguendosi fra tutti per erudizione, saggezza e oratoria. A Roma, sempre in abiti maschili,  grazie al suo  straordinario  sapere riuscì a scalare la gerarchia ecclesiastica, acquistandosi grandi simpatie anche come specchio di virtù. Al punto che alla morte di Leone IV, nell’855  fu eletta papa.

Dull Gret, figura centrale di un quadro di Bruegel: personificazione di quelle donne colleriche che quando sfogano la propria rabbia “possono saccheggiare la soglia dell’inferno e tornare incolumi”, come recita un antico proverbio fiammingo. Una rappresentazione della lotta tra i sessi, già allora un soggetto di successo nel teatro e nella letteratura popolare. 

Griselda, un personaggio delle storie di Boccaccio, Petrarca e Chaucer, la cui obbedienza al marito di fronte a orribili maltrattamenti l’ha resa leggenda. Griselda infatti conserva intatto il proprio amore per il marito, il quale alla fine le svela di averla voluta mettere alla prova.

Come in un visionario esperimento antropologico, s’immagina allora che questa festa possa prendere le sembianze di una sorta di simposio platonico, dove Marlene sceglie di circondarsi di “vincenti” donne del passato, per condividere insieme esperienze e teorie sul tema del rapporto tra uomo e donna, tra maschile e femminile.

L’esperimento di condivisione rivelerà non solo cosa ognuna di loro ha dovuto sacrificare per farsi riconoscere dalla società patriarcale in cui è vissuta ma – a differenza di un autentico simposio – come anche tra donne non riescano a lasciarsi spazio all’ascolto e quindi al riconoscimento l’una dell’altra.

Ormai così snaturate nel proprio femminile – che invece è capace di fertile condivisione e di attitudine alla relazione – che pur di primeggiare e quindi d’imporsi, finiscono per rendersi sorde, sovrapponendosi continuamente nel parlare.

Testimonianze passate e presenti così poco edificanti che Marlene inizia a faticare nel continuare a farne oggetto di festeggiamento. L’apice dell’assurdo si raggiunge nel momento in cui ciascuna racconta che cosa è stata costretta a fare della propria maternità: la festa sembra degenerare in un senso di vuoto dai contorni voraginosi, che però prontamente viene riempito con succulenti dolci.

Marlene è l’unica che non riesce a raccontarsi: che cosa nasconde la sua sfolgorante promozione?

Ecco allora che, quasi come in una regia cinematografica, successivamente a questo campo lungo su dinamiche antropologiche insite nella stessa natura umana, la regista Monica Nappo ci fa entrare in una serie di primi piani dedicati al vissuto di donna proprio di Marlene. 

Uno spettacolo dalla forza comunicativa “espressionista” :  gesto, movimento, luce (la cui drammaturgia è curata da Luca Bronzo) e parole sono concertati per mettere a nudo i conflitti sociali e le contraddizioni dello stare al mondo degli umani. Lo spettatore se li sente tutti sulla pelle: l’adesione è intima, profonda. Al di là della discrezione. 

Le interpreti in scena – (in o.a.) Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano– brillano nell’accordarsi tra loro come un autentico ensemble. E suscitano, attraverso il potere poetico della parola, l’irruzione in scena del nucleo segreto della vita. 

Uno spettacolo che sonda la nostra vitalità interna, per metterci davanti a tutte le nostre possibilità. Perché seppur l’istinto alla sopraffazione ci costituisce, la capacità di amare la possiamo continuare ad imparare.

E’ la funzione del teatro, il suo senso ultimo: luogo di riflessione, di denuncia e di continue restituzioni.

E’ l’arte di far naufragare certezze senza mai rinunciare a cercarne di nuove.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm ROBERTO BENIGNI – Il comico come invenzione –

TEATRO ATENEO, 20 Novembre 2023 –

In un seminario del 1985 al Teatro Ateneo Ferruccio Marotti chiede ad un giovane Roberto Benigni da che cosa si origina, a suo avviso, l’effetto “comico”.

Benigni risponde che non si può dire. Ci si arriva improvvisando e andando avanti per un percorso che man mano diventa una rete di percorsi. Finché ad un certo punto, inaspettatamente, si manifesta l’aggancio comico. È una sorta di epifania misteriosa che non appena appare è così irresistibile che per mantenerla vitale, permettendole quindi di rimanifestarsi sotto altra forma, si deve cambiare percorso, voltando lo sguardo inventivo in un’altra direzione. In attesa che nel corso della narrazione improvvisata si manifesti di nuovo qualcosa capace di provocare, in una rete di incroci semantici, l’effetto comico sullo spettatore.

E anche per chi ascolta accade qualcosa di misteriosamente simile. È qualcosa che rapisce e fa ridere perché sfugge proprio mentre lo si sta raggiungendo. Qualcosa che lascia a bocca asciutta ma paradossalmente felici. Felici di essere arrivati prossimi a qualcosa di “divino”.

Platone diceva che s’impara solo per seduzione. E probabilmente si ride per qualcosa di simile. Perché “il comico non guarda come un cronista, ma vede come un poeta”. È uno sguardo, il suo, attento a sottrarre per poter creare: “ciò che nessuno ci toglie, nessuno ci può dare”.

Roberto Benigni confessa poi di essere profondamente innamorato della “parola” e del mistero che la circonda: ama giocarci, creando incroci, anagrammi. Il suo profondo desiderio di ricerca semantica per certi versi rimanda al “viz” ebraico.

Ma non è il suo il piacere del gestire una sorta di “potere”. Tutt’altro è il piacere di essere avvolto dal mistero: di presentarsi al suo cospetto disarmato lasciandosi guidare da un gioco sulle parole che non è lui a condurre ma nel quale è condotto. Divinamente.

Un gioco che diventa uno stile di vita, che lo porta a chiedersi quotidianamente: “Chissà che cosa farò !?”. 


Gli appuntamenti al Teatro Ateneo con la seconda edizione della rassegna  “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio” dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo Sapienza Università di Roma proseguono con il seguente calendario:

Il 4 dicembre alle 17.00

DARIO FO – AUTOBIOGRAFIA DI UN FABULATORE, introdotto da Paolo Rossi con Ferruccio Marotti, una videosintesi delle lezioni che Dario Fo tenne al Teatro Ateneo, succedendo a Eduardo dopo la sua morte come docente di Drammaturgia, nel corso di tre anni.

Il 12 dicembre alle 17.00

a conclusione del ciclo Toni Servillo, insieme con Ferruccio Marotti, introdurrà

EDUARDO RACCONTA EDUARDO: UN’AUTOBIOGRAFIA QUASI SEGRETA DI EDUARDO DE FILIPPO, una videosintesi dei momenti in cui Eduardo, negli anni trascorsi alla Sapienza, ha raccontato di sé e della sua vita, accompagnati da alcuni dei brani più famosi delle sue opere, con cui avranno inizio le celebrazioni dei quarant’anni della morte del grande autore e attore, che al Teatro Ateneo ha lavorato, gli ultimi quattro anni della sua vita, al sogno utopico di creare una bottega di teatro, volta a proiettare la tradizione del teatro verso il futuro.


Ferruccio Marotti

Dopo la prima edizione – nata nel 2022 – che ha visto restaurati e digitalizzati oltre mille video che documentano l’attività del Centro Teatro Ateneo – centro d’eccellenza di ricerca sull’attore dell’Università di Roma “La Sapienza”, diretto da Ferruccio Marotti, il progetto prosegue grazie al sostegno del Ministero della Cultura. 

L’obiettivo è quello di far conoscere il patrimonio conservato presso l’Archivio, che fa ora capo al Dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) della Sapienza Università di Roma. Il progetto dal 2022 ha riscosso una grande attenzione di pubblico e ricevuto adesioni e richieste di collaborazione che permettono oggi di dare un ulteriore risonanza alle attività, valorizzando il prezioso materiale conservato nell’archivio della Sapienza. Ad ospitare gli eventi saranno il Teatro di Roma, lo Stabile di Napoli e naturalmente il Teatro Ateneo, dove si svolsero quarant’anni or sono le attività conservate nell’archivio. Nel 2024 poi i maggiori laboratori verranno trasmessi da Rai Cultura e diffusi sul web.

Recensione dello spettacolo LA MORTE DELLA PIZIA di Friedrich Dürenmatt – regia di Giuseppe Marini

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A Giuseppe Marini il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’ Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo sez. Miglior Regia): la rappresentazione ” … è un piccolo capolavoro di ingegno e ironia di Friedrich Dürrenmat… che riesce mirabilmente a conservare la leggerezza del testo e nello stesso tempo la sua complessità”.

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TEATRO VITTORIA, dal 10 al 15 Ottobre 2023 –

Che cosa è successo a Delfi, l’antica città della Grecia, nella Focide, famosa per l’oracolo e il santuario del dio Apollo ?

Nel provocatoriamente dissacrante racconto dello scrittore svizzero Friedrich DürrenmattLa morte della Pizia”, pubblicato nel 1976 all’interno della raccolta di racconti “Mitmach” e ripreso dall’omonimo adattamento teatrale a quattro mani di Patrizia La Fonte e Irene Lösch per la regia di Giuseppe Marini, andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Vittoria di Roma, Delfi – il centro di culto più prestigioso dell’antichità – è andato in panne. Qualcosa si è guastato; qualcosa ne ha provocato l’arresto, costringendo ad una sosta.

il regista Giuseppe Marini

Niente d’improvviso, però: che l’uomo preferisca affidarsi a qualcun altro per farsi dire cosa fare, non assumendosi la responsabilità delle proprie scelte è connaturato alla natura umana. È un’anima che ci abita da sempre e che ogni volta ci tenta a scegliere una gabbia dorata piuttosto che un salto verso una felicità sconosciuta. La libertà, infatti, non ci regala solo ebbrezza ma anche angoscia.

Dürrenmatt sceglie una chiave di lettura dissacratoria per farci riflettere sui rischi che si corrono a preferire mettersi nelle mani degli altri (inclusi gli dei) rinunciando al desiderio di costruirci di volta in volta un nostro pensiero critico su ciò che ci circonda. Svendendo, per un illusorio senso di protezione e di quieto vivere, il nostro potere di gestire la quota di libertà che ci è concessa.

L’acuto adattamento di Patrizia La Fonte e Irene Lösch unito sinergicamente allo sguardo del regista Giuseppe Marini sottolinea con elegante estro i punti nevralgici del testo originale fino a sviluppare, con suggestiva coerenza, un finale che va oltre. Cercando e trovando un’ ulteriorità. Autenticamente poetica.

Lo spazio scenico (curato con icastica eleganza da Alessandro Chiti) è abitato dalla raffinata decadenza di quel che resta dell’originario Santuario di Delfi: i resti delle tre colonne del portico delle Muse e i resti sparuti e abbandonati a terra di quello che era un ricco archivio degli oracoli già pronunciati.

Ricostruzione del Santuario di Delfi (IV sec. a .C.)

Al posto della scritta “Conosci te stesso” – che campeggiava a caratteri cubitali sul tempio originale – con genio registico c’è qui una gigantografia del volto del dio Apollo. Al sacro culto di quella che era ed è la più autentica delle realizzazioni di un essere umano – dedicare il tempo del proprio stare al mondo alla scoperta di ciò che si è davvero – si è sostituito il culto dell’immagine, dell’apparenza, dell’esteriorità.

Una scena dello spettacolo “La morte della Pizia” di Giuseppe Marini al Teatro Vittoria di Roma

Quella che campeggia al centro del palco del Teatro Vittoria – e che con decisa appariscenza si impone come una contemporanea maxi icona del dio Apollo – può alludere anche all’immagine di un Apollo inserito all’interno di uno schermo televisivo, uno dei nuovi oracoli dei nostri tempi. Così come alla foto di profilo di un social network, altro oracolo contemporaneo.

Uno scatto fotografico decisamente fashion di un dio che però volge lo sguardo altrove: perché oscuro sì, ma anche perché forse non ce la fa a guardare questa molle decadenza dei costumi. E piange lacrime di sangue.

Della sua caratteristica identificativa – il suo risultare oscuro per l’enigmaticità dei suoi oracoli, che solo la sacra capacità di entrare in trance della Pizia poteva decifrare – ci si prende gioco. “Dio è morto” – direbbe Nietzsche.

Maurizio Palladino (qui Merops XXVII) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)

Dell’articolata organizzazione templare dei tempi antichi – i due sacerdoti di Apollo, deputati alla cura del culto al dio e della sua statua; i 5 hosioi che controllavano il rispetto dei riti celebrati; i profeti che assistevano la Pizia e poi altro personale addetto ai sacrifici, alle pulizie e all’amministrazione – restano qui solo una Pizia (Pannykis XI) e un gran sacerdote (Merops XXVII), decisamente nichilisti.

Una Pizia (quella interpretata da un’incandescente e lirica Patrizia La Fonte ) “cenciosa”, isterica e indifferente alle fragilità umane, proprio come quella del testo di Dürrenmatt. Ma qui – ed è ciò che inizia a delinearsi come un ulteriore possibile e prezioso filo della trama, recuperato dall’adattamento e dallo sguardo registico – la Pizia è anche destinata lei stessa a decifrare un nuovo oracolo, un nuovo linguaggio: quello della fertile tensione erotico-conoscitiva dell’amore. Che sa unire; che sublima le diversità. E lo stare in panne.

Maurizio Palladino (qui Tiresia) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)

Fin dall’incipit dello spettacolo si affaccia un indizio: il suo declinare l’incontro con Tiresia, quell'(apparentemente) odiato cieco veggente, interpretato da un seducente e leggiadro Maurizio Palladino . Lo fa celandosi al suo cospetto sotto un lunghissimo drappo rosso fuoco, dove ama nascondersi, in solitaria, per scaldarsi di uno strano calore, così avvolgente. Ben superiore a quello dei misteriosi vapori e del semolino!

Si sottrae per timore di essere troppo vecchia e di non saper essere all’altezza della situazione (apparentemente lavorativa) richiesta da Tiresia. Ma lui, come un vero amante sa, trovata chiusa una porta, cercare ed individuare il modo di insinuarsi per un’altra via: più immaginativa. Più creativa.

E utilizzando la magica seduzione della parola, non quella che dà ordini, né quella che mira subdolamente a manipolare – ma quella che cerca di fare del confine dell’altro un luogo d’incontro – riuscirà, anche prossemicamente, ad evitare che lei continui a nascondersi o a mantenere le distanze.

Si suggellerà così un autentico incontro: quello tra ragione e follia, tra maschile e femminile. Tra le metà di un tutto. Con un’immagine di chiusura dalla potente evocatività: quella che allude al mito delle metà, descritto nel “Simposio” di Platone.

Friedrich Dürrenmatt autore del racconto “La morte della Pizia” , inserito nella raccolta “Mitmach”

La raccolta di racconti che include anche il racconto “La morte della Pizia” non a caso Dürrenmatt la intitola “Mitmach”, ovvero “Partecipare”. Oggi, nell’era dei social network, si declinerebbe in un po’ troppo appariscente “Condividere”. Ma quello che conta davvero è il “partecipare” inteso come tensione d’insieme. Un essere accordati, un’esperienza vissuta, a un tempo, da più punti di vista. Diversi. E perciò un’esperienza più ricca. Più fertile di discernimento, di emozione comunicante. Un autentico incontro che sa come sublimare le situazioni in panne.

Perché il gioco del “partecipare”, il gioco della collettività – per quanto difficile – è l’unico veramente degno di essere giocato. È il solo gioco stupefacente della nostra vita. Ed è a questo gioco, nella sua essenza, che gioca il Teatro: quel rito collettivo di cui il sagace adattamento coordinato dalla regia di Marini ci parla con tanta poesia.

Poesia di cui era ispiratore lo stesso dio della profezia Apollo e che drammaturgicamente qui viene abbinata alla chiave interpretativa della sagacia: decisamente efficace in questo contesto. In passato, infatti la sagacia, era legata a doppio filo con la profezia. Era – e ancora è – il fiuto, l’intuizione istantanea dell’invisibile. Una prontezza mentale al limite con la premonizione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL SUPERMASCHIO – regia di Marco Corsucci

L’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico alla Pelanda

LA PELANDA – Mattatoio – 27 Aprile 2023 –

PROVA APERTA

Tutor del progetto: Antonio Latella

Regista: Marco Corsucci

Interprete: Andrea Dante Benazzo

Dramaturg: Federico Bellini Scena: Giuseppe Stellato Luci: Simone De Angelis Suono: Federico Mezzana Video: Igor Renzetti Consulenza costumi: Graziella Pepe Fonico: Akira Callea Scalise Sarta di scena: Loredana Spadoni Direttore di Scena: Alberto Rossi


Lo spettacolo è vincitore “ex-equo” del Premio Andrea Camilleri 2022

indetto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”

e debutterà in prima nazionale il 30 giugno 2023 al 66° Festival dei Due Mondi di Spoleto


In un’interessante costruzione di “teatro nel teatro”, il regista Marco Corsucci fa del pubblico gli invitati alla riunione che il “suo” André, protagonista del romanzo “Il Supermaschio” di Alfred Jarry, convoca per parlare d’amore.

Ma non è un “simposio” platonico: qui si parla solo di capacità prestazionali. Solo maschili. Solo di un’ élite di “atleti”.

Ma non solo: in una geniale struttura che si articola per cerchi concentrici, dal sapore di un esperimento ma anche di un documentario oltre che di una rappresentazione di teatro nel teatro, chi ci accoglie e fa gli onori di casa, “invita” coloro tra noi che sono di genere femminile, o che tali si sentono, a prendere posto in un determinato settore della sala, metaforicamente anche mente del protagonista: quello di sinistra, luogo mentale dove dominano le funzioni di calcolo. Fuori da ogni contaminazione emotiva, ciò su cui ci si deve concentrare è esclusivamente il calcolo delle prestazioni.

Come se non bastasse collocare il pubblico femminile in un emisfero della mente del protagonista “scomodo” al femminile ma propio per questo meno pericoloso, anche prossemicamente le femmine sono coinvolte nella riunione stando “al di là” della realtà rappresentativa. Ciò che i maschi vedono “dal vivo”, loro lo vedono indirettamente.

O non lo vedono affatto: come avviene per la prova “atletica” dei coiti multipli. Quella da record. Quella solo da maschi. Di maschi. A loro è permesso (solo) “ascoltare”. Sì sa: gli uomini vivono con gli occhi. Le donne, però, sanno usare molto bene anche le orecchie: organo di senso dalla potente densità shakespeariana, capace di dare carne all’immaginazione. E possono “leggere” l’espressività non verbale degli invitati maschili.

E quindi ciò che voleva essere “un confinio” finisce per essere, forse, un’accattivante modalità di esperire.

Ma ciò che è davvero importante è celebrare l’apoteosi del Supermaschio: un maschio che è “super” ma teme la diversità femminile; un maschio che è “super” ma vive solo di approvazione. Un maschio che è “super” perché non si vuole “contaminare” con lo sporco insito nelle emozioni che danno una continua mutevole forma all’amore. E quindi non si specchia. Con l’ Altro.

Il Supermaschio, come il migliore dei meccanismi, è ricco in prestazione ma privo di passionalità, di carattere, di umanità. È un deserto.

Ma qui arriva un altro spiazzamento: il Supermaschio di Marco Corsucci è un candido. Quasi un alieno dal male, anche quando lo fa. E brilla in naturalezza il “suo” dolce e ingenuo André: l’interprete Andrea Dante Benazzo.


Recensione di Sonia Remoli

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.